Quinta stazione quaresimale
VI venerdì di Quaresima
San Giovanni Fuorcivitas 23 marzo 2018
Letture Messa “ad libitum”
Siamo ormai giunti al termine del nostro itinerario quaresimale che ci ha visto attraversare la città da un chiesa all’altra, andando dietro al Signore, per cercare Colui che ci ha cercato e trovato per primo. Una bellissima esperienza; un dono di grazia speciale.
Questa sera è il tripudio della vita. La resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, come la risurrezione del figlio della sunamita ad opera del profeta Eliseo, ci fanno sentire la gioia, il profumo, l’allegria della vita. Come è triste invece la morte, come è fredda, ghiaccia! Ed è anche terribile, per quella inesorabile decomposizione che comincia da subito e che fa dire a Marta nel vangelo, quando Gesù ordina di togliere la pietra dal sepolcro di Lazzaro: “Signore, manda già cattivo odore; è lì da quattro giorni”. E’ brutta la morte per cui chi è morto, lo si sottrae ben presto alla vista dei vivi, dentro una cassa, sotto terra, in un sepolcro, arso nel fuoco. Non si può durare a lungo a vedere la morte, a sentirne l’odore, a stargli vicino; ci fa male, fisicamente e moralmente.
Possiamo compiere tutti gli sforzi del mondo per assuefarci alla morte; possiamo tentare di esorcizzarla in ogni modo; cercare di tenerla lontana dalla nostra vista, dalla nostra esperienza….. Ma non c’è niente da fare. Pur nello stordimento della distrazione, essa, col suo carico di tristezza, di gelo e di ineluttabilità, torna ad assalirci sempre di nuovo. Qualcuno vorrebbe convincerci che è giusto che sia così per il ciclo vitale, per la necessaria rigenerazione di ogni cosa in spazio e tempo per forza limitati. Ma in realtà, tutto si ribella in noi di fronte alla morte. Non siamo fatti per la morte; no; non ci piace per niente, se non a chi, drammaticamente, non riesce a scorgere vie d’uscita alla sua situazione di sofferenza. La morte ci ripugna, perché contraddice tutto quello che ci piace, quello che desideriamo, quello che vorremmo: calore, gioia, movimento, allegria, amore, in una parola, vita. E sentiamo come una contraddizione inaccettabile venire alla vita, respirarla a pieni polmoni, magari superando grandi difficoltà, e poi finire nel vuoto di un sepolcro.
Per tutto questo, il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta una esplosione di gioia e di speranza. Come la risurrezione del figlio della sunamita. Trionfa la vita; le lacrime di tristezza e angoscia, si trasformano in pianto di gioia. Torna il calore; torna la luce nel buio del sepolcro, il profumo della vita trionfa come quello dei fiori di primavera nella stagione in cui tutto rinasce. E noi, sinceramente godiamo di tutto questo, perché ci piace la vita e, come dicevo, odiamo la morte.
Ciononostante, non possiamo non considerare il fatto che il ragazzo risuscitato da Eliseo e lo stesso Lazzaro, dopo essere tornati in vita, morirono di nuovo. Inesorabilmente. Ci verrebbe allora quasi da dire che tutto sia un’illusione e che alla fine, dalla morte nessun uomo può sfuggire. Forse però, occorre andare più in profondità e leggere le cose alla luce, non tanto della risurrezione di Lazzaro ma di quella di Cristo. Il Cristo risorto infatti ha vinto definitivamente la morte ed è risorto per non mai più morire, entrando in una condizione di vita nuova.
Alla luce di Cristo allora, morto e risorto per portare a compimento il disegno del Padre; morto e risorto nel segno dell’amore che è Dio stesso, possiamo comprendere che la vita vera, quella piena ed eterna, che già comincia quaggiù ma che si realizzerà definitivamente oltre la morte, è quella che si condensa nell’amore. La vita vera, assume tutto ciò che di bello, di gioioso, di luminoso c’è nell’esperienza umana; raccoglie tutta la densità dell’umano, anche della carne dell’uomo, delle sue passioni, dei suoi sentimenti, della sua sensibilità, per trovare però compimento, oltre ogni umana misura, nella conoscenza di Dio, nella figliolanza con Dio Padre, attraverso il Figlio unigenito Gesù Cristo, mediante l’effusione sovrabbondante dello Spirito Santo che “da la vita”, come proclamiamo nel credo.
Non possiamo non amare la vita, non possiamo non goderne, non possiamo non assaporarne tutta la bellezza, nonostante le contrarietà che si incontrano. Ben misera cosa sarebbe però fermarsi a gustare la superficie della vita, i suoi aspetti esteriori, le sue manifestazioni più contingenti se non andassimo invece al succo della vita; se non andassimo ad attingere alla fonte della vita vera che è Gesù Cristo; se non imparassimo a godere della gioia che ci viene da questa vita di Dio in noi, che è libertà dal peccato, pienezza d’amore, carità operosa nei confronti dei fratelli. In questo modo, niente di ciò che è veramente umano viene disprezzato o perduto, anzi, nella vita di grazia che lo Spirito Santo realizza in noi, tutto trova pieno significato e profondità.
Altrimenti, carissimi amici e fratelli, noi non siamo realmente vivi, nonostante le apparenze. Sembriamo vivi ma in realtà siamo morti. Anche se brindassimo tutti i giorni alla vita, anche se passassimo i giorni nella spensieratezza di tutte le possibili gioie terrene; anche se avessimo tutto e tutto ci potessimo permettere, saremmo nient’altro che dei morti che camminano per le strade. Morti dentro, perché in noi non ci sarebbe la vita di Dio, la vera vita, quella Grazia santificante che proviene solo da Dio e si realizza soltanto nell’amore da Lui ricevuto e a sua volta donato a Lui e agli altri. Ed è a motivo di questa terribile possibilità in realtà che Gesù, come dice il racconto evangelico, letteralmente “scoppiò in pianto”. Pensiamoci.
E pensiamo anche che alla luce interiore della Grazia, anche il morire terreno diventa occasione di lode e gratitudine. È San Francesco a dircelo nel suo meraviglioso cantico delle creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.”