Seconda stazione quaresimale
III venerdì di Quaresima
(Anno b 2 marzo 2018)
La storia di Giuseppe venduto dai fratelli è davvero tragica. Assomiglia a tante vicende drammatiche che purtroppo riempiono la cronaca anche dei nostri giorni. Episodi antichi, di estrema attualità che ci fanno pensare a come l’uomo rimanga alla fine sempre lo stesso, quantunque il cosiddetto “progresso” avanzi, nonostante la tecnologia faccia passi da gigante e dia a qualcuno letteralmente alla testa, facendogli credere che è e sarà la risoluzione di tutti i problemi dell’uomo.
La vicenda di Giuseppe trova riscontro nella parabola raccontata da Gesù nel vangelo di Matteo. Qui siamo di fronte a una parabola, ma come sappiamo bene, Gesù prende spunto dalla vita quotidiana, dall’esperienza, dai fatti concreti della vita. Perciò non è difficile pensare alla veridicità della storia dei contadini che percuotono i servi del padrone della vigna, che li bastonano, fino ad arrivare a uccidere il figlio stesso del padrone della vigna. Anche queste son vicende drammaticamente attuali.
Di fronte a tutti questi fatti, almeno noi, che tendiamo a considerarci tutto sommato abbastanza buoni e bravi, ci vien da domandarci come sia possibile che accadano queste cose; come sia possibile che ci siano uomini e donne che compiono simili gesti; in definitiva, forse commiseriamo ma osservando i fatti dal di fuori, prendendone le distanze.
Però il sacro tempo della quaresima ci richiama ad altre considerazioni; a cambiare mente e mentalità, ad assumere un punto di vista diverso rispetto alla semplice constatazione dei drammi della storia umana, magari accompagnata da un lamento per i tempi tristi che stiamo vivendo. Troppo facile cavarcela così! La questione in realtà è più profonda e ci interessa da vicino, ci coinvolge personalmente. E parte dal motivo per cui e la storia di Giuseppe venduto dai fratelli e la parabola dei contadini malvagi ci vengono stasera raccontati in questa liturgia.
E’ chiaro infatti che la figura di Giuseppe rimanda a quella di Cristo, venduto dai suoi stessi amici ai capi del popolo di Israele; non accolto, anzi rifiutato proprio da coloro che erano il suo popolo; da coloro – come i discepoli – che per primi avrebbero dovuto riconoscerlo. Com’è del resto chiaro, per le parole stesse di Gesù riportate nel vangelo, che in quel figlio inviato dal padrone della vigna e trucidato dai contadini malvagi, c’è Lui, il Figlio unigenito, crocifisso da coloro che avrebbero dovuto custodire e far fruttificare la vigna del Padre.
Questa sera allora, ognuno di noi è messo davanti a Cristo. Anzi, è Lui, il Signore Gesù che si pone davanti a noi e ci fissa coi suoi occhi che vedono ogni cosa, anche le profondità della nostra anima. E davanti a lui siamo invitati a scegliere nuovamente: o con Lui o contro di Lui. Anzi, per la verità, prima ancora – e questo ci produce grande sofferenza e ci fa enorme fatica accettarlo – stasera Lui ci invita a identificarci coi fratelli che hanno venduto Giuseppe; coi contadini che hanno ucciso il figlio del vignaiolo. Si, proprio noi; si, proprio io, ho venduto, ho ucciso. Ho venduto, ho ucciso Lui, Gesù, con la mia indifferenza, con la mediocrità della mia fede, con la mia indolenza, con la mia superficialità, con il mio cedere sempre di nuovo agli impulsi dell’uomo vecchio fatto di gelosie, di invidie, di rancori, di pigrizia, di lussuria, di ipocrisia. Abbiamo venduto e ucciso Lui, quando non abbiamo obbedito ai suoi comandamenti, quando ci siamo voltati da un’altra parte di fronte al fratello, quando non abbiamo servito, amato, abbracciato chi era nel dolore, o abbiamo insultato, maledetto, offeso l’altro. E ciò che abbiamo fatto, unito al peccato di altri, ha reso possibile i drammi che riempiono le cronache di ogni giorno. Senza che neanche ce ne rendiamo conto. Stasera allora, è proprio questo che qui accade: Gesù parla di noi, parla a noi e noi siamo davanti a lui. Lui, con calma, fissandoci negli occhi e dentro il cuore, ci racconta la storia di Giuseppe venduto dai fratelli. Non ci accusa; non ci condanna; semplicemente ci racconta quella storia e ci chiede di ascoltarla; è sicuro che ne capiamo il significato. E, come se non bastasse, con la stessa calma, ci racconta anche la parabola dei contadini malvagi. Scandisce le parole, perché entrino in noi e ancora, perché noi capiamo da soli; continuando a fissarci negli occhi, mentre noi facciamo fatica a sostenere il suo sguardo; non c’è rabbia nel suo sguardo, non c’è risentimento, solo infinito amore, ma proprio per questo non riusciamo a sostenerlo.
Cos’è tutto questo, una tortura? Una modo per colpevolizzarci e buttarci a terra? Un modo per distruggerci, facendoci sentire in colpa, anche se, alla fine, potremmo dire, nessuno di noi ha venduto fratelli o ha ucciso qualcuno? No di certo. Il Signore Gesù svela la radice del male che è in ognuno di noi, la necessità di vigilare perché l’uomo vecchio non prenda il sopravvento, perché guardando in faccia il male che ci attacca, lo possiamo prevenire confidando in Lui. E’ questo alla fine ciò che conta e ciò che il Signore vuole da noi. Che smettiamo l’atteggiamento farisaico di chi si crede giusto e di non aver bisogno di guarigione e assumiamo invece l’atteggiamento che onora la verità, facendoci prendere coscienza di avere un assoluto bisogno del tocco della mano di Dio per la nostra salvezza.
La storia di Giuseppe in effetti ha un lieto fine, potremmo dire. Giuseppe, proprio lui, odiato dai fratelli, sarà quello che salverà i fratelli, quando, mossi dalla carestia, cercheranno rifugio in Egitto dove Giuseppe è diventato importante. Lo scartato diventa il salvatore. Un salvatore che volentieri, senza recriminazioni, senza rimostranze, salva i fratelli, senza alcun loro merito. Così la parabola dei contadini ci dice che il figlio ucciso, Gesù, darà salvezza agli uomini. La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo di quell’edificio nuovo che è la nuova umanità che inizia dal nostro cuore pentito e redento. A partire da stasera.