A Pistoia la sede di “Scholas Occurrentes”: la ‘scuola’ di Papa Francesco

Presentazione a San Callisto a Roma delle nuovi sedi della “Schola Occurrentes”, l’organizzazione internazionale per la formazione e l’incontro dei giovani supportata dal Santo Padre. Per l’Italia, oltre Roma, Pistoia è stata scelta come sede per la formazione degli educatori della scuola.

Mons. Tardelli, che oggi sarà assieme al Papa per la presentazione ufficiale del progetto, afferma: «una vera benedizione del cielo per la nostra diocesi e per la città di Pistoia». Possibile una visita del Santo Padre.

PISTOIA – Stupisce ancora Papa Francesco. Stupisce, emoziona e regala alla chiesa di Pistoia un dono inaspettato: la sede di “Schola Occurentes”, la fondazione internazionale di diritto pontificio, voluta fortemente da Papa Francesco, che ha come obiettivo la formazione dei giovani attraverso il dialogo, l’incontro, la conoscenza di sé, i linguaggi universali come la musica e l’arte.  La scuola, che lavora su scala internazionale, avrà sede nel monastero delle Benedettine nel centro di Pistoia e ospiterà i percorsi di formazione degli educatori, provenienti da tutto il mondo.

Oggi, giovedì 21 marzo alle 15, il vescovo Tardelli parteciperà alla presentazione – in diretta web in tutto il mondo – delle nuove sedi della Schola Occurrentes,  a fianco di Papa Francesco nella sede principale della fondazione in piazza San Callisto a Roma.

«Credo si tratti di una vera benedizione del cielo per la nostra diocesi e per la città di  Pistoia  – afferma con gioia il vescovo Tardelli – inaspettata, come tutte le sorprese del Signore».

L’idea di “Scholas Occurrentes” risale a un’esperienza lanciata a Buenos Aires nel 2001, sotto l’egida dell’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio. Il suo progetto di Escuelas hermanas (scuole sorelle) e di Escuelas de vicinos (scuole di quartiere) consisteva in una rete di centri educativi, composta da realtà pubbliche e private, laiche o confessionali, e aveva come scopo di educare all’impegno e al bene comune. Il successo di questa idea ha portato alla creazione di Scholas occurrentesun’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che lavora con le scuole e le comunità educative, con l’intento di coinvolgere tutti gli attori sociali per dar vita a una cultura dell’incontro e conseguire la pace attraverso l’educazione. Come si legge nel sito dell’organizzazione (www.scholasoccurrentes.org), l’obiettivo ideale che si cerca di realizzare è la trasformazione del mondo in un’aula senza pareti, in cui siano integrati tutti i bambini.

Creata nel 2015 con un decreto pontificio da papa Francesco, la realtà delle Scholas occurrentes desidera favorire la condivisione dei progetti promossi dalle scuole in vista di un arricchimento reciproco e sostenere le scuole con meno risorse, promuove l’educazione per tutti. Attualmente le Scholas sono operative in Argentina, Messico, Paraguay, Spagna, Italia, Città del Vaticano, ma l’organizzazione, grazie alle collaborazioni avviate con altre realtà, opera in 190 Paesi e in circa 445mila scuole e reti educative associate.

La cultura dell’incontro, descritta nei paragrafi dedicati alle questioni sociali nell’Evangelii gaudium del 2013, corrisponde per il papa alla figura del poliedro, che ha molti lati e molti volti, ma tutti formano un’unità piena di sfumature. È l’immagine dell’«unità nella diversità» (EG, n. 117) propugnata da papa Francesco, una «diversità riconciliata» (EG, n. 230), che deve cercare punti di contatto reali per raggiungere qualcosa di più di un «consenso a tavolino» (EG, n. 218).

Michael Cantarella




La Toscana da San Francesco

I Comuni della regione offriranno l’olio che arde sulla tomba del Patrono d’Italia. Un programma di iniziative spirituali e culturali per prepararsi al pellegrinaggio di ottobre

Saranno i Comuni della Toscana ad offrire, quest’anno, l’olio per la lampada che arde dinanzi alla tomba di San Francesco, ad Assisi: ogni anno infatti le diverse regioni italiane si alternano in questo gesto di omaggio al Patrono d’Italia. In vista di questo appuntamento, che sarà nei giorni 3 e 4 ottobre prossimi, la macchina organizzativa si è già messa in moto. La Conferenza Episcopale Toscana ha affidato ai vescovi Rodolfo Cetoloni (Grosseto) e Giovanni Roncari (Pitigliano-Sovana-Orbetello), entrambi francescani, il compito di coordinare tutta la fase di preparazione, che porterà la Toscana, nelle sue rappresentanze ecclesiali e civili, a compiere questo gesto di devozione e di affidamento al patrono d’Italia i prossimi 3-4 ottobre. Sono stati loro, insieme al cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze e Presidente della Conferenza Episcopale Toscana, a presentare questa mattina nei locali della Curia arcivescovile di Firenze le iniziative in programma e il Messaggio che i Vescovi toscani hanno scritto per l’occasione.

«Con cuore fraterno e paterno – scrivono i Vescovi – invitiamo tutti gli uomini e le donne della Toscana, i fedeli e le popolazioni delle nostre terre con le loro istituzioni, a rispondere generosamente e di persona a questo invito: Quest’anno… la Toscana da san Francesco!»

Nei giorni scorsi, nel convento francescano di San Salvatore al Monte, a Firenze, si è riunito infatti per la prima volta il tavolo dei delegati di ciascuna delle 18 Diocesi toscane e dei rappresentanti della famiglia francescana toscana, per iniziare il cammino. Sono molto gli aspetti di cui tenere conto nell’organizzare il pellegrinaggio della Toscana ad Assisi. Questioni logistiche ed organizzative, ma non solo: rinnovare la tradizione – per la Toscana, l’ultima volta era stata nel 1999 – di offrire l’olio ad Assisi è prima di tutto ritornare alla sorgente del messaggio che san Francesco ha lasciato e che continua ad essere provocazione profetica anche per gli uomini e le donne di questa generazione. L‘offerta dell’olio si concretizzerà con  il gesto attraverso cui nella festa di San Francesco, il 4 ottobre, come vuole la tradizione, il sindaco del Capoluogo di regione riaccende la lampada. Già dal pomeriggio del 3 ottobre ci saranno momenti di preghiera, mentre la giornata del 4 culminerà con la benedizione all’Italia con la reliquia del Santo.

Ci sarà, dunque, un «prima», che servirà a far sì che in tutte le Diocesi ci si incammini con il cuore già da adesso verso Assisi, ma ci sarà anche un «dopo», per fare in modo che questo gesto di devozione non si esaurisca il 4 ottobre, ma sia capace di generare nuovi, copiosi frutti in Toscana. D’altra parte il legame storico e spirituale di questa regione con san Francesco e il francescanesimo in generale è molto forte. Ne sono testimonianza i tanti luoghi nei quali il Poverello ha lasciato traccia del suo passaggio, a partire dal sacro monte de La Verna, dove Francesco ricevette le stimmate, senza dimenticare città e paesi ancora oggi sono custodi di una presenza francescana.

Il tavolo tra i delegati delle Diocesi e delle realtà francescane si riunirà di nuovo a breve, ma già molte idee sono state messe sul tavolo. «Ci saranno – ha spiegato il vescovo Cetoloni – iniziative più prettamente spirituali, a cui si è iniziato a pensare, per ancorare il gesto dell’offerta dell’olio ad una rilettura del messaggio francescano, così come ci saranno iniziative culturali per stimolare in tutti, credenti e non, la consapevolezza di quanto la Toscana abbia assorbito, nei secoli, il carisma del Poverello d’Assisi. E poi iniziative pensate per i giovani e proposte di comunicazione». Padre Roncari ha ricordato quello che le Fonti Francescane dicono del Poverello di Assisi: «Attraverso San Francesco, Gesù è tornato nel cuore di molti che lo avevano dimenticato. Anche oggi, in un’epoca di indifferenza religiosa, i santi sono il tramite per riscoprire Cristo». «L’appello – ha concluso il cardinale Betori – è alla comunità ecclesiale, ma anche alla comunità civile e alle sue istituzioni, perché questa sia l’occasione  per una riflessione su come il volto autentico dell’uomo che Cristo ci ha rivelato, e che Francesco ha saputo così ben interpretare, possa essere ispiratore di una società più giusta e più attenta alla dignità delle persone».

Giacomo D’Onofrio

Leggi il messaggio dei Vescovi Toscani




Lo sguardo che ti cambia la vita

Il cammino di conversione dell’attore Pietro Sarubbi, in scena a Montemurlo con un monologo dedicato a San Pietro.

Venerdì 22 febbraio a Montemurlo (Teatro sala Banti, ore 21) l’attore Pietro Sarubbi porta in scena lo spettacolo teatrale: «Seguimi. Da oggi ti chiamerai Pietro». Lo spettacolo racconta, con delicatezza e sensibilità, la storia di san Pietro apostolo. Pietro Sarubbi è attore, regista e docente di regia cinematografica, già interprete di Barabba nel film di Mel Gibson “The Passion”: un film che gli ha cambiato la vita. Durante le riprese infatti, attraverso il volto dell’interprete Jim Caviezel, lo sguardo di “Gesù” lo ha segnato profondamente, mettendo a nudo un’inquietudine e una ricerca di senso che portava da sempre nel cuore. Abbiamo raggiunto l’attore per raccogliere la sua testimonianza di vita e illustrarci il suo spettacolo.

Una prima occhiata alla sua biografia rivela un percorso davvero ricco e vario, ma anche segnato da una certa inquietudine. Qual è il filo rosso che lega tante esperienze diverse?

Certamente l’inquietudine è il filo rosso che ha tenuto insieme tante vicende. Un filo rosso legato ad un disagio, a una insoddisfazione, a un’inquietudine di cui non saprei indicare l’origine. Non ho un vero motivo che potrei individuare per dare nome a questa realtà, è una specie di malessere del cuore che ti porti dentro. Non ho mai capito. Forse, se penso a quando ero piccolo, posso ricollegarmi al fatto che i miei genitori erano emigrati del sud; io sono nato a Milano, ma avevo addosso qualcosa di diverso; non so cosa possa essere stato il motivo di questo disagio: forse il mio sentirmi diverso, un po’ più grande di statura dei miei compagni di classe …sta di fatto che l’inquietudine è andata aumentando con la vita e questo ha fatto sì che desiderando sfuggire a questa morsa, sfuggissi a me stesso e trovassi anche un modo di allontanarmi dalla realtà. Ho cioè fatto l’attore, fuggendo in qualche modo anche a delle responsabilità oggettive, quasi  per nascondermi. Fare l’attore, infatti, mi permetteva di stare dentro un’inquietudine continua, sempre sul filo del rasoio, in una condizione propria di questo mestiere. Noi attori ogni volta che abbiamo un provino siamo sotto giudizio e in ogni spettacolo c’è un pubblico che “per soli 10 franchi” come diceva Diderot giudica la tua vita. Ma il giudizio alla fine puoi sempre allontanarlo da te per farlo ricadere sul personaggio che interpreti, sulla maschera del momento. Insomma, una sfida continua, con una sorta di malessere che mi ha accompagnato per tanti anni. Fino al film con Mel Gibson. Lì è accaduto un incontro con Dio che mi ha cambiato la vita, ma ci è voluto un anno intero per comprendere fino in fondo cosa stava succedendo. Ci è voluta una compagnia perché non ero attrezzato, non avevo riferimenti. È impossibile essere cristiani da soli: c’è bisogno di una compagnia che ti richiama alla realtà, alla concretezza, sollevando sempre il dubbio, le attese, il non sentirsi male.

La sua conversione ha inevitabilmente toccato anche la sua vita familiare. Cosa è cambiato?

All’inizio in famiglia c’è stato un po’ di stupore, un po’ di stranezza, mi vedevano tutti molto cambiato. Ma non è stato difficile e poi i bambini sono attratti dalla bellezza, da nuovi sorrisi (Pietro Sarubbi ha cinque figli, ndr), e in una nuova compagnia non hanno fatto fatica a fidarsi. Loro si sono fidati subito, io invece, a volte ero sospettoso, ho vissuto più resistenze, più fatica. Certamente non è che la conversione ti metta al sicuro da fatiche o dolori. Non è che il mondo sia diviso in credenti felici e atei tristi: non c’è nessun dubbio che qualcuno possa lamentare questa stranezza. Ma se Dio è arrivato a sacrificare suo Figlio – il Figlio amato – senza scontare niente a Lui, come pretendere che sconti a noi? Il cristiano è fatto per un cammino faticoso, per un cammino continuo, ma lo attende il paradiso. Quanto viviamo di bello, di significativo è un anticipo di questa realtà, ma se ci fosse tutto ora, se fossimo già ora perfettamente felici …che paradiso sarebbe? Anche avere la possibilità di vedere e leggere le storie dei santi è già un anticipo di Paradiso.

Parlando di santi viene subito da domandarle com’è nato in lei il desiderio di mettere in scena questo monologo su san Pietro…

Pietro ho imparato a conoscerlo nel mio tanto studiare, nel mio voler capire. All’inizio non sapevo nulla, e mi sentivo come un vaso vuoto. Così ho avvertito l’esigenza di approfondire e conoscere. Prima di arrivare allo spettacolo però, c’è stato un altro passaggio. Tutti mi chiedevano testimonianze e io la mettevo anche in maniera piacevole, ma mi accorgevo che molti venivano più per ridere che per capire. Così alla fine un amico mi ha invitato a pensare uno spettacolo teatrale. Dopo alcune esitazioni mi sono deciso di prendere sul serio l’idea. Pensavamo di mettere in scena la figura di Barabba, ma poi ho avuto tanti stimoli e segnali del tutto inaspettati che mi indicavano di continuo la figura di Pietro. Così ho scelto Pietro e alla fine mi sono accorto che questo san Pietro è molto simile a me. Il mio spettacolo racconta, infatti, il cammino di un poveraccio pieno di limiti, di peccati, di fatiche che alla fine riesce ad incontrare il Signore. Ci cammina tre anni insieme con la certezza di essere amato, fino al famoso “sì” di Pietro dove si arriva al culmine di questo cammino di santità (Gv 21,15-19). Sono ormai sette anni che porto in giro questo spettacolo e mi sono reso conto che piace molto: alla fine posso dire che è stata una buona intuizione. D’altra parte lo spettacolo è “solo Vangelo”, di lì prende spunto e riesce a dirne tutta la potenza. Io mi limito a dare fisicità, più forza alla parola evangelica.

Spesso è in giro per l’Italia per offrire testimonianze in parrocchie e oratori. Come accolgono i giovani la sua storia? Cosa le hanno trasmesso?

Quando incontro i giovani dico sempre questa cosa: c’è sempre qualcuno che vi può far credere che essere cristiani non sia da fighi, ma guardate che in realtà è da sfigati non credere a Gesù Cristo! Ecco, mi piace sfidarli. I ragazzi vogliono le cose sfidanti, ma certe. Faccio pellegrinaggi con ragazzi di venti anni che pregano e stanno in silenzio meglio di me. Vedo come ci stanno e resto stupito. Io – mi dico – pensavo di essere loro testimone e invece sono loro testimoni per me. Come adulti a volte riusciamo a dare ai ragazzi soltanto il peggio. Oggi vedo certi catechisti, certi animatori di grest e mi domando: quale ragazzino potrebbe essere attratto da certe proposte? A volte avremmo bisogno di staccarci dalle regole della pigrizia.

Cosa manca allora alla chiesa di oggi?

Direi che a volte manca l‘impegno, il cuore acceso, manca il sacro fuoco, il mettersi in gioco, la voglia di perdonarsi sul serio e volersi bene.

Daniela Raspollini

 

Pietro Sarubbi

Pietro nasce a Milano nel 1961. Inizia il suo percorso artistico lavorando nel circo, poi in televisione dal 1979 nella trasmissione Portobello. Debutta nel cabaret allo Zelig nel 1995. Dal 1985 partecipa a film-tv, fiction e sit-com di successo come “Casa Vianello”, “il maresciallo Rocca” e “Nebbie e delitti”. Recita in teatro e nel cinema con tanti registi italiani, ma sono i registi stranieri a sceglierlo per i ruoli più importanti: Daniele Finzi Pasca lo scrittura per anni nella compagnia internazionale del Teatro Sunil, John Madden per “Il mandolino del capitan Corelli” e Mel Gibson per il ruolo di Barabba in “The Passion of the Christ”. Autore SIAE rappresentato dal 1993, iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 2000, regista per il teatro, conduttore televisivo, scrittore, si occupa anche di formazione aziendale. È docente del corso di Regia presso Milano Cinema e Televisione, dipartimento di Fondazione Milano.




Quale sicurezza senza umanità?

Riceviamo e pubblichiamo il seguente comunicato

Una serata per riflettere sul decreto sicurezza

Sabato 16 febbraio a Pistoia, presso la Sala Soci Unicoop Firenze (accanto al COOP.fi di Viale Adua), si svolgerà un incontro pubblico sul tema “Quale sicurezza senza umanità?” organizzato da numerose realtà pistoiesi per condividere un momento di riflessione sulle concrete conseguenze del decreto sicurezza sulla vita di tanti migranti, sulle buone pratiche di accoglienza e di inclusione sociale costruite nel nostro territorio e sulla sicurezza dei cittadini.
All’iniziativa interverranno Annalisa Camilli, Domenico Gallo e mons. Roberto Filippini, vescovo di Pescia.

Annalisa Camilli è inviata della rivista Internazionale che negli ultimi anni ha seguito le rotte dei migranti e i loro viaggi verso l’Europa e gli episodi più gravi di razzismo in Italia. Domenico Gallo è magistrato, giudice presso la Corte di cassazione, impegnato nel mondo dell’associazionismo, del movimento per la pace ed attivo nei Comitati per la difesa della Costituzione. Mons. Roberto Filippini, vescovo della Diocesi di Pescia è anche il delegato della conferenza episcopale toscana per il servizio della Carità; agli studi biblici ha unito l’impegno nonviolento come membro del gruppo “Franz Jägerstätter per la nonviolenza”.

L’incontro è promosso da: AGESCI Pistoia, Associazione Il Granello di senape, Associazione Palomar, Associazione PortAperta, Associazione San Martino de Porres, A.P.S. Oscar Romero, Bottega del Mondo L’Acqua Cheta, CeIS Pistoia, CGIL Pistoia, CNGEI Pistoia, CO&SO, Comitato provinciale ANPI Pistoia, Cooperativa Gli Altri, Coordinamento provinciale di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Diocesi di Pistoia, Rete 13 Febbraio Pistoia, Rete Radié Resch – Casa della Solidarietà, Parrocchia di Marliana e Parrocchia di Santomato.

Alessandra Pastore
Referente Coordinamento provinciale Libera Pistoia




Non lasciamoci rubare i social!

A Montemurlo don Dino Pirri ha proposto un incontro sul tema “evangelizzare al tempo dei social”. Una sintesi del suo intervento

«È la curiosità quella che spinge un individuo a muovere i suoi primi passi sui social. Guai ai cristiani che non sono curiosi».

È con queste parole che Don Dino Pirri, ex assistente nazionale dell’Azione Cattolica dei Ragazzi e adesso Parroco della parrocchia Madonna della Speranza a San Benedetto del Tronto, ha dato il via all’incontro su “Evangelizzare al tempo dei social” tenutosi venerdì 8 febbraio presso la parrocchia del Sacro Cuore di Montemurlo. Di fronte ad una platea composta da giovani e non più giovani, il parroco ha raccontato come avvenne il suo incontro con queste piattaforme di comunicazione delle quali lui stesso si definisce non un esperto, ma solo un artigiano. Era l’aprile 2005, quando,  per l’elezione di Papa Benedetto XVI Don Dino si trovava in una Piazza San Pietro dove erano presenti tutte le tv del mondo; questa immagine lo aiutò a pensare quante persone siano raggiungibili tramite social e soprattutto a quanto il messaggio di cui siamo portatori noi cristiani sia il più bello da annunciare. Così nacque la voglia di “essere presente” in quegli spazi virtuali dove aveva intuito la possibilità di diffondere a più persone possibili l’annuncio del Vangelo.

Per stare in “posti nuovi” però, occorre esserne capaci: «devi saperci stare  – ha precisato don Dino – e quindi non puoi essere un turista, ma devi abitarci per un po’ di tempo per comprendere le leggi che li regolano». Anche i social – paradossalmente- hanno bisogno di dedizione e attenzione, tempo e cura, per non incorrere nell’errore di farne un uso superficiale, senza conoscere tutti i vantaggi che possono offrire. Il suo impegno nel mondo social è stato dettato da una riflessione evangelica: «Gesù è chiaro nell’indicarci dove ci chiede di andare; non chiama con sé agricoltori che seminano il proprio campo in attesa dei germogli, ma chiama pescatori, abituati a gettare le reti solo dove può esserci più pesce e quindi in un luogo potenzialmente diverso ogni giorno». Poiché il mondo stava popolando i social network Don Dino ha pensato a un’ esperienza di evangelizzazione che lo ha portato ad apprendere tantissimo, come ad esempio l’importanza di ascoltare e osservare, prima di esprimersi e commentare.

«Nella rete – ha aggiunto – trovavo l’esperienza costruttiva del contraddittorio, cosa che negli ambienti dell’associazionismo cattolico era difficile da reperire». Il periodo di servizio per l’Azione Cattolica nazionale, che lo ha tenuto lontano dalla parrocchia, ha segnato la sua necessità di immergersi in storie di vita che, non potendo toccare direttamente, riusciva comunque a reperire tra un tweet e un post dando avvio a conoscenze spesso portatrici di pareri diversi dal suo che, forse, non sarebbero mai giunte diversamente. La rete, inoltre -ha aggiunto don Dino- ha un altro vantaggio: qui tutti si confrontano alla pari; sui social ci sono regole assolutamente non discriminatorie, in quanto il comune cittadino così come il Presidente di uno stato hanno la stessa possibilità di parlare e intervenire. Don Dino ha poi affermato anche che questo non ci sottrae da una responsabilità di fondo, ovvero quella di essere consapevoli che, proprio per il carattere così aperto e accessibile dello strumento, è più semplice che la platea a cui ci rivolgiamo possa fraintendere quanto vogliamo comunicare.

«Sui social tutto è accelerato e esagerato; i rapporti nascono e si bruciano velocemente; io ci ho incontrato molte persone, ma non sono diventato amico di nessuno. Per un rapporto vero c’è bisogno di altre dimensioni di relazione». È così che oltre ai vantaggi, don Dino ha voluto delineare anche i limiti di questi mezzi di comunicazione. «Non si fissano le riunioni su whatsapp; né si programma la Quaresima; per educare dobbiamo spenderci, e quindi incontrarci». Don Pirri ha criticato un utilizzo generalizzato dei social per lo svolgimento delle attività pastorali, anche perché – come ha ribadito fortemente- la realtà è complessa, quindi difficilmente banalizzabile con un messaggio di whatsapp lanciato in un gruppo numeroso.

Don Dino ha concluso regalando ai presenti un riferimento evangelico con l’episodio dei discepoli di Emmaus. Nel racconto Gesù risorto, che ai loro occhi sembra un semplice viandante, nonostante rimprovi i discepoli apostrofandoli «stolti e lenti di cuore» (Lc 24,25) decide ugualmente di mettersi in cammino con loro e di accompagnarli verso la comprensione dell’annuncio:

«Gesù nel Vangelo è in grado di comunicare e di entrare in dialogo con le persone; anche questo, come la curiosità, è una prerogativa di noi cristiani che, in qualsiasi luogo, tempo e occasione, possiamo diventare trasmettitori della nostra fede in piena accoglienza delle opinioni degli altri».

Laura Simonetti




Vita, lavoro, vocazione: Policoro incontra il Seminario

Gli animatori del progetto Policoro incontrano la comunità del Seminario

Vita, lavoro, vocazione: sono questi alcuni dei temi che hanno animato la mattinata di incontro e riflessione che si è tenuta sabato 9 febbraio in seminario.

Protagonisti di questo incontro sono stati i giovani animatori di comunità del progetto Policoro, provenienti da dieci diocesi della regione Toscana e la comunità del Seminario Diocesano di Pistoia.

È stata una bellissima occasione di dialogo fraterno in cui esperienze di vita quotidiana ed esperienze di vita ecclesiale hanno trovato una sintesi e perché no, un nuovo vigore e un rinnovato entusiasmo per guardare avanti ed essere, come dice Papa Francesco: il presente di Dio (Papa Francesco, omelia a conclusione della GMG di Panama 2019).

L’incontro, inserito nel cammino formativo degli animatori di Policoro, è stato avviato dal saluto di Edoardo Baroncelli, responsabile diocesano ma anche coordinatore regionale del Progetto, che ha inteso sottolineare l’importanza dell’intreccio tra lavoro e vocazione e la dimensione ecclesiale della proposta di Policoro.

I giovani referenti del Progetto dopo aver condiviso coi seminaristi un momento di preghiera con la celebrazione delle lodi mattutine, hanno presentato il percorso formativo da loro vissuto all’interno del Progetto Policoro e hanno poi accolto le testimonianze dei seminaristi i quali, chi più chi meno, hanno avuto delle brevi o lunghe esperienze nel mondo del lavoro che sono state in alcuni casi determinanti per leggere nella loro vita i segni della presenza del Signore, fino a scoprire il dono della vocazione. È stato anche un momento per fare una fotografia alle varie problematiche che affliggono i giovani alla ricerca della stabilità, anche professionale che si lega a  doppio filo con molteplici aspetti della realtà (lavoro, famiglia, amicizie, affettività…), e ai diversi tipi di approccio con cui i giovani si affacciano a questa realtà.

Nel documento finale del Sinodo dei Vescovi si legge: «Nel reale tutto è connesso: la vita familiare e l’impegno professionale, l’utilizzo delle tecnologie e il modo di sperimentare la comunità, la difesa dell’embrione e quella del migrante. La concretezza ci parla di una visione antropologica della persona come totalità e di un modo di conoscere che non separa ma coglie i nessi, apprende dall’esperienza rileggendola alla luce della Parola, si lascia ispirare dalle testimonianze esemplari più che dai modelli astratti. Ciò richiede un nuovo approccio formativo, che punti all’integrazione delle prospettive, renda capaci di cogliere l’intreccio dei problemi e sappia unificare le diverse dimensioni della persona. Questo approccio è in profonda sintonia con la visione cristiana che contempla nell’incarnazione del Figlio l’incontro inseparabile del divino e dell’umano, della terra e del cielo» (Sinodo dei vescovi – Documento Finale. I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, n.57).
La riflessione ed il dialogo su questa dimensione di integralità della persona ha stimolato giovani e seminaristi a considerare alla luce della Rivelazione diverse esperienze che spesso hanno tratti in comune (intraprendenza, sconforto, mille colloqui e concorsi affrontati, l’esperienza con i Centri per l’impiego, le incertezze ed i timori che spesso attanagliano chi si interroga sul senso della propria vita…).

La conclusione dell’incontro è stata affidata alle sapienti parole di papa Francesco citato dal rettore del Seminario don Ugo Feraci, che ha condiviso un passaggio dell’omelia della messa conclusiva della Giornata Mondiale della Gioventù di Panama: «Voi, cari giovani, non siete il futuro. Ci piace dire: “Voi siete il futuro…”. No, siete il presente! Non siete il futuro di Dio: voi giovani siete l’adesso di Dio! Lui vi convoca, vi chiama nelle vostre comunità, vi chiama nelle vostre città ad andare in cerca dei nonni, degli adulti; ad alzarvi in piedi e insieme a loro prendere la parola e realizzare il sogno con cui il Signore vi ha sognato. Non domani, adesso, perché lì, adesso, dov’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore (cfr Mt 6,21); e ciò che vi innamora conquisterà non solo la vostra immaginazione, ma coinvolgerà tutto. Sarà quello che vi fa alzare al mattino e vi sprona nei momenti di stanchezza, quello che vi spezzerà il cuore e che vi riempirà di meraviglia, di gioia e di gratitudine. Sentite di avere una missione e innamoratevene, e da questo dipenderà tutto (cfr Pedro Arrupe, S.J., Nada es más práctico). Potremo avere tutto, ma, cari giovani, se manca la passione dell’amore, mancherà tutto. La passione dell’amore oggi! Lasciamo che il Signore ci faccia innamorare e ci porti verso il domani!».

Alessio Bartolini

Ricordiamo che il Progetto Policoro è anche online: visita la pagina web sul sito diocesano
o la pagina Facebook:




Missione Panama!

Caterina Pelagalli racconta la sua esperienza alla GMG di Panama

Quarantuno persone, quarantuno cuori, quarantuno bagagli diversi, quarantuno giovani e meno giovani pronti a “lasciare” la propria vita e la propria quotidianità per vivere qualcosa che rimarrà indelebile dentro di noi per sempre. Quarantuno volontari, tutti uniti da una grande ed unica passione: la Misericordia.

Siamo partiti per Panama senza sapere cosa ci aspettava, forse anche un po’ timorosi. Ma è indescrivibile ciò che abbiamo trovato. Ci hanno fatto sentire a casa, fin dal primo momento; ci hanno trattato come se fossimo loro figli, accuditi ed accompagnati per tutta l’esperienza. È difficile poter trasmettere a parole quello che ogni giorno abbiamo vissuto, impossibile poter descrivere i rapporti che sono nati tra noi ed i bomberos (i vigili del fuoco di Panama): non basterebbero paginate intere per raccontarvi ogni singola esperienza che abbiamo fatto. L’unica cosa che possiamo fare è esserne grati, grati con il cuore in mano. Grati al movimento delle Misericordie, che ha permesso ad ognuno di noi di poter crescere spiritualmente, umanamente e professionalmente; ci ha permesso di amare la nostra divisa ancora di più, ci ha fatto conoscere persone nuove, che sono entrate nel nostro cuore e da lì non usciranno mai.

Grati al Benemerito Corpo dei Bomberos, che ci ha sostenuto in ogni momento, condiviso con noi i momenti più belli della GMG. I Bomberos hanno pregato con noi e scherzato, insieme abbiamo mangiato e giocato. Ci siamo aiutati reciprocamente come se ci conoscessimo da sempre, abbiamo imparato gli uni dagli altri, abbiamo pianto insieme, ci siamo salutati all’aereoporto con il nodo alla gola. In particolar modo vogliamo ringraziare Lourdes, il tenente del corpo dei Bomberos, che ci ha accolto il primo giorno quando siamo arrivati e ci ha fatto da mamma per tutta la missione. Una persona semplice, una donna con la D maiuscola, un insieme di coraggio, fermezza, forza ed immensa dolcezza. Non la dimenticheremo mai.

Abbiamo vissuto la GMG dall’inizio alla fine, da vicino e da lontano. L’abbiamo vissuta per le strade, l’abbiamo vissuta nei ristoranti e nei supermercati, l’abbiamo vissuta sul mare e nelle chiese di Panama. Incontravamo giovani ovunque, pronti a fare una foto o lasciarci un ricordo; abbiamo ricevuto “grazie” gratuiti, come se tutti sapessero e ci fossero grati per il servizio che stavamo facendo insieme ai bomberos. Abbiamo trovato giovani pieni di gioia, canti e balli in tutta Panama, gioia dietro ad ogni angolo della città, bandiere di tutti i colori che coloravano le strade di aria nuova, genuina, fresca, viva. I panamensi ci salutavano suonando il clacson della macchina, le commesse dei negozi ci salutavano come se ognuno di noi fosse un dono che gli era stato donato, ci regalavano ricordini del posto come se niente fosse, senza che sapessero da dove venivamo e chi fossimo. Un’umanità che al giorno di oggi colpisce nel più profondo dell’anima.

E poi Papa Francesco: ancora una volta un colpo dritto al cuore; sorrisi indimenticabili che ci hanno toccato da vicino ogni volta che passava con la sua papamobile, parole con una forza devastante, capaci di cambiarti la vita, parole piene di emozione e adrenalina, come se fossero pillole di vitamine. Avete presente quando ci sentiamo stanchi, deboli, tristi e prendiamo le vitamine per tirarci su? Ecco, Papa Francesco ha un’ immensa capacità di entrarti dentro e renderti la forza per vivere la vita come il dono più prezioso che ci è stato fatto.

Voglio chiudere queste mie poche righe con una delle frasi di Papa Francesco che mi ha colpito: «Cari giovani, voi non siete il futuro ma l’adesso di Dio». Dobbiamo essere il presente, vivere l’adesso come se fosse l’unica cosa che ci rimane, dobbiamo cambiarlo se non ci va bene, dobbiamo amarlo e rispettarlo, e ringraziare il Signore per aver avuto l’opportunità di viverlo: Esta es la juventud del Papa!

 

Caterina Pelagalli




Un nuovo umanesimo per la medicina

Intervista al dottor Stefano Bartolini, noto neurologo Pistoiese, sul tema della giornata mondiale del malato.

a cura di Daniela Raspollini

Spesso il malato è colto da paura e smarrimento; quanto è importante il ruolo del medico nella relazione con il malato?

Per rispondere appare sempre più impellente la domanda: come è cambiata la professione del medico e quale sarà o dovrà essere il medico del futuro? Personalmente penso di essere stato testimone nella mia vita professionale, dai primi momenti iniziali fino al momento del pensionamento, di tutto il percorso di cambiamento della identità del medico e del conseguente rimodellamento del rapporto medico-paziente. Già le parole ed i termini che vengono usati per identificare i ruoli (dirigente medico piuttosto che medico, cittadino od utente piuttosto che paziente) testimoniano un profondo mutamento proprio nel modo in cui il medico concepisce se stesso o viene percepito dagli altri. A testimonianza di questa transizione culturale è interessante citare un articolo comparso recentemente su una delle più prestigiose riviste mediche internazionali (The New England Journal of Medicine, 10/11/2016). I due autori (D.I. Rosenthal e A. Verghese) già nel titolo del loro editoriale ponevano la domanda fondamentale: Meaning and the Nature of Physicians’ Work -Il significato e la natura del lavoro del medico. Quanto affermato in questo articolo rappresenta una fedele fotografia dei problemi che attualmente mettono in discussione la figura del medico per quanto concerne la sua identità ed il senso della sua professione e conseguentemente gli autori affrontano anche la tematica dei problemi emotivi (paura e smarrimento) spesso vissuti dalle persone malate.

Riassumendo brevemente le maggiori criticità appaiono essere: il tempo di cura -inteso come il tempo che il medico passa “accanto” alla persona ammalata nelle classiche procedute sanitarie- appare drasticamente ridotto. Più del 40-50% della giornata lavorativa di un medico viene speso di fronte allo schermo di un computer a svolgere compiti “burocratici”. È ridotto anche il tempo di relazione “faccia a faccia” con le altre figure mediche professionali mediche e non. Nonostante la retorica che il paziente sia al centro della cura, in realtà esso non lo è affatto. Il paziente spesso è non più, infatti, una persona in carne ed ossa, ma un file elettronico dove sono trascritti tutti i suoi dati, non solo sanitari. L’intero sistema sanitario, incluso il suo finanziamento, poggia pesantemente su questa rappresentazione digitale del paziente per la cui definizione è stato coniato un nuovo termine “iPatient”. Esiste spesso una discrepanza fra i report di qualità forniti dalle aziende, dove si afferma che il paziente gode in maniera uniforme e diffusa di ottime cure e l’esperienza concreta del paziente che invece ha una opinione totalmente diversa ed è portato ad avere sentimenti di paura e smarrimento. I medici appaiono sempre più disaffezionati al loro lavoro che viene giudicato troppo burocratico. Il fenomeno del burnout dei medici appare diffuso ed allarmante; infatti sembra che la depressione o sintomi depressivi interessino circa un quarto di loro.

Gli autori concludono la loro analisi sottolineando, in maniera del tutto condivisibile, la necessità di rimodellare un nuovo umanesimo della medicina e di richiamarsi al senso originale della professione medica: accompagnare la sofferenza degli altri e provvedere al loro conforto e cura.
A tal fine propongono di ripensare l’uso delle tecnologie informatiche per l’utilizzo ottimale delle stesse e di recuperare allo stesso tempo alcune pratiche tradizionali della pratica medica tali da ridurre la sensazione di distanza ed abbandono percepita dagli ammalati. A mio parere è attraverso questo nuova “alleanza” che si può aiutare le persone malate a superare le proprie paure ed allentare il senso di smarrimento che talvolta vivono all’interno delle strutture sanitarie.

 

Il papa nel suo messaggio afferma: «la cura dei malati ha bisogno di professionalità e di tenerezza, di gesti gratuiti e semplici come una carezza». A partire dalla sua esperienza come vuole commentare queste parole?

Le classiche pratiche sanitarie come la visita a letto dell’ammalato, la raccolta della anamnesi accurata dal paziente stesso, il colloquio con la famiglia, il contatto fisico concreto con le mani nella vista medica sono sempre più ridotte a vantaggio della registrazione dei dati su files elettronici.
La figura del paziente è come se fosse depersonalizzata ed anche la sua realtà corporea è come se fosse alienata. L’invito di Papa Francesco è quindi attualissimo in quanto ci richiama non solo alla professionalità, quindi anche all’obbligo morale della conoscenza e dell’impegno, ma anche alla “prossimità e vicinanza” alla persona che soffre nella malattia attraverso la tenerezza, gesti semplici gratuiti come una carezza o una parola, uno sguardo, un momento di attesa a bordo del letto per comunicare con coloro che sono deboli perché ammalati, timorosi del loro futuro e alla ricerca di dare un senso della loro sofferenza, della loro intera vita o addirittura della possibile morte. Le piccole ed umili cose sono in genere quelle che hanno maggior significato nel rapporto fra le persone.

A fronte di una cultura e di una mentalità che rifiutano la malattia e la sofferenza che significato assume questa giornata?

È vero che esiste una visione prometeica della medicina per cui la ricerca medica appare onnipotente ed in grado di curare qualsiasi malattia e di allungare indefinitivamente la vita fino ai suoi limiti estremi. Questa fiducia illimitata nella scienza e nella tecnica ha portato a considerare la malattia come un accidente, ha svuotato di senso il limite e la sofferenza umana. Addirittura la morte viene vissuta come uno scandalo per cui rappresenta l’ultimo tabù rimasto nella nostra società che tende quindi a nasconderla ed a non parlarne. In realtà la malattia, la sofferenza e la morte non possono essere negate perché l’uomo ne fa esperienza quotidiana. La loro negazione non può non provocare l’emarginazione e l’indifferenza verso chi soffre. La giornata mondiale del malato è segno rinnovato ed attuale di attenzione, rispetto ed amore verso le persone sofferenti ed anche risposta all’invito di Papa Francesco che ci esorta a seguire l’esempio di Madre Teresa di Calcutta che ha scelto i poveri e gli ammalati ed i morenti per testimoniare attraverso la sua carità l’amore di Dio per i poveri e gli ammalati.

Il papa nel suo messaggio richiama l’importanza del volontariato e della gratuità. È possibile custodire questo atteggiamento anche da professionista della sanità?

Sì, se intendiamo per gratuità l’atteggiamento interiore di disponibilità a soccorrere che è principio fondante della professione medica. Questa particolare vocazione è ben rappresentata artisticamente nella formella robbiana (visitare gli infermi) esposta sul frontale del nostro Ospedale del Ceppo e, in forma di parabola, nella parabola del Buon Samaritano.
L’ atteggiamento del donare rappresenta le fondamenta della professione medica, sia o no legata alla remunerazione pecuniaria. Il professionista della sanità dona le proprie conoscenze professionali, i propri sentimenti di vicinanza empatica al paziente ed insieme riceve a sua volta dalla persona malata il dono della fiducia, della stima e talvolta della amicizia.
Esistono poi forme di gratuità “assoluta” di cui non mancano esempi nella società civile, dove si esprimono in molteplici forme di volontariato, la cui funzione di sussidiarietà è fondamentale nel mondo della sanità. Anche il professionista della sanità che opera all’interno delle strutture, così come il volontario che dedica gratuitamente il suo tempo alla cura degli altri, può e deve essere ispirato dallo spirito del dono gratuito delle propria persona nel prendersi cura degli altri, sopratutto quando sono più deboli, sofferenti ed ammalati.

Personalmente cosa sente di aver ricevuto “gratuitamente” dal Signore?

Tutto e di aver restituito ai fratelli solo una piccolissima e minima parte di quei talenti che mi sono stati affidati.

Daniela Raspollini




Quando il Vangelo si fa social: un incontro con don Dino Pirri

Incontro con don Dino Pirri presso i locali parrocchiali della Chiesa del Sacro Cuore di Montemurlo.

L’incontro, fissato per venerdì 8 Febbraio alle ore 21.15, è organizzato dall’Azione Cattolica di Pistoia ed è aperto a tutti, in particolare ai ragazzi e genitori che vogliono approfondire la conoscenza riguardo gli scenari digitali.

don Dino Pirri

Nato a San Benedetto del Tronto l’8 luglio 1972, ordinato presbitero il 2 maggio 1998.
È stato vicario parrocchiale a “San Benedetto Martire” in San Benedetto del Tronto (2000-2001) e al “Sacro Cuore di Gesù” in Martinsicuro (2001-2003). Parroco a “San Pietro Apostolo” in Valdaso (2003-2007) e a “San Niccolò” in Acquaviva Picena (2007-2009).
Inoltre è stato assistente diocesano ACR (2000-2005), Assistente AGESCI zona Picena (2004-2009), membro del Consiglio presbiterale (2007-2013), assistente nazionale ACR (2009-2014).
Su TV 2000 ha condotto “Sulla strada” commentando il vangelo della domenica dal 2014 al 2017.
Ha pubblicato con l’ Edizioni Ave: “Dalla sacrestia a Gerico” e “Cinguettatelo sui tetti. Il vangelo di Marco su Twitter“.
È parroco a “San Martino” e alla “Madonna della Speranza” in Grottammare dal 2015.
Dal 2017 è Vicario nella forania “Madonna di San Giovanni”, che comprende le parrocchie di Cossignano, Cupra Marittima, Grottammare e Ripatransone.

Intervista a don Dino Pirri
L’esigenza di ascoltare i giovani, il bisogno di superare paure e il “si è sempre fatto così”

Don Pirri incontrerà i ragazzi di AC della diocesi di Pistoia. Come ha accolto questo invito? È la prima volta che viene in diocesi?

Sono stato già nella diocesi di Pistoia in occasione di un incontro con l’Azione Cattolica quando ero assistente nazionale dell’ACR. Ma ho un legame particolare con la vostra terra, poiché mia madre ha insegnato in una scuola di Monsummano quando ero ancora bambino. Quest’ultimo invito lo accolgo con molta gioia, ma anche con la trepidazione di dover essere capace di corrispondere alle attese, poiché non ho competenze specifiche sul tema della comunicazione, solo un po’ di esperienza. Mi ritengo soltanto un artigiano della comunicazione.

Secondo lei i giovani desiderano coltivare una propria spiritualità? Quali ostacoli e quale sostegno incontrano più spesso?

Questa domanda dovremmo rivolgerla ai giovani. Spesso, anche nella Chiesa, parliamo dei giovani e al posto dei giovani, senza ascoltarli e lasciar parlare loro. Ho visto con gioia che il recente Sinodo dei Vescovi è stato un tentativo nuovo in questo senso: una Chiesa in ascolto dei giovani. Forse l’ostacolo più grande è proprio l’assenza di luoghi di ascolto. Il miglior sostegno potrebbe essere la credibilità degli adulti. Ma ripeto: dovremmo chiedere ai giovani.

Quali sono le difficoltà più consistenti che ha riscontrato nell’opera di evangelizzazione?

L’ostacolo principale che ho incontrato è stata la conservazione di schemi pastorali, che probabilmente non rispondono più al nostro tempo, e la necessità di occuparmi in attività che hanno poco a che fare con l’evangelizzazione ma sono richieste dal servizio a una parrocchia: le manutenzioni, la custodia dei luoghi, le questioni economiche, gli adempimenti delle diverse normative. Nell’azione pastorale in quanto tale mi sono più volte trovato davanti al muro del pregiudizio sulla Chiesa e della presunzione di essere cristiani.

Si parla molto di giovani e mondo social; una realtà spesso accusata di molti guai e pericoli. È davvero tutto da buttare?

Ci sono i pericoli e i guai, che fanno parte del limite umano, ma non c’è nulla da buttare. Spesso c’è l’ignoranza nell’utilizzo di questi strumenti che porta a una loro squalifica o sopravvalutazione. Non bisogna cadere in nessuno dei due errori. La realtà non può essere negata, ma deve essere attraversata, analizzata e ricomposta. I social sono come un luogo abitato da tanta gente, in cui si possono fare incontri significativi, pericolosi o virtuosi; esperienze che fanno crescere oppure esperienze che feriscono. Non ci sogneremo mai di lasciare un bambino o un adolescente da solo in un luogo così vasto, ma neppure possiamo chiuderlo in casa, impedendogli di fare qualsiasi esperienza, e quindi di crescere.

Lei ha scritto un libro molto apprezzato dal titolo: «Cinguettatelo sui tetti» (AVE 2013) raccogliendo mini commenti al Vangelo di Marco. Come nasce l’idea del primo twitter/libro?

In quegli anni cominciavo a conoscere e sperimentare questo mondo “social”, domandandomi come mai noi preti non ne avessimo colto ancora le potenzialità avendo un messaggio bellissimo da comunicare, cioè il Vangelo. Ho incontrato tante persone e ho imparato tante cose, che proverò a raccontare nell’incontro di venerdì. «Cinguettatelo sui tetti» nasce un po’ da questo incrocio, tra il desiderio di comunicare il Vangelo e l’incontro con persone desiderose di lasciarsi provocare da esso.

Si è da poco concluso il sinodo dedicato ai giovani. Cosa lo ha colpito di più del sinodo e del suo documento finale?

Più che i contenuti, come ho accennato prima, mi ha colpito il metodo seguito nei lavori. Il desiderio dei vescovi di ascoltare e di lasciar parlare i giovani. La disponibilità dei giovani a confrontarsi liberamente con i loro pastori.

Per il suo incontro pistoiese cosa ci dobbiamo aspettare?

Anche questa sarebbe una domanda da fare a chi parteciperà. Da parte mia c’è la curiosità di imparare qualcosa di nuovo, mettendo a disposizione qualche esperienza e qualche riflessione. Ecco, mi aspetto una bella sorpresa, ma non so ancora dire quale. Come disse Gesù: «Venite e vedete!».

Daniela Raspollini




I migranti e noi(?). La nota dell’AC di Pistoia

Quello che sta accadendo ormai da molti anni nei nostri mari è sconcertante, non ci sono parole per poterlo esprimere.

Come Azione Cattolica di Pistoia più volte ci siamo domandati come sia possibile assuefarci banalmente all’indifferenza. Assistiamo a delle prese di posizioni brutali su come il naufragio, la chiusura dei porti, le torture libiche e la prigionia gratuita siano solo un effetto collaterale tollerabile per far fronte al problema di gestione del fenomeno migratorio. I migranti non solo non vengono più ritenuti meritevoli di un futuro, ma vengono usati come strumento di contrattazione politica internazionale. Non si tratta più di gestione di un fenomeno internazionale; non si tratta più di insostenibilità del welfare locale e di scontro socio-culturale tra popoli che spesso hanno poco da raccontarsi. Le difficoltà ci sono e nessuno le nega, ma i nostri fratelli muoiono ingiustificatamente e senza sceglierlo. Tutto questo non è comprensibile perché la barbarie, la morte e l’indifferenza non fanno parte dell’uomo in quanto tale. Il Padre ci ha pensato con Amore, ci ha dato molti doni tra cui: il pensare e fare per affrontare la vita quotidiana; l’immaginare per sognare e costruire il nostro futuro; la capacità del “prendersi cura” per rispettare se stessi e per saper vivere con e per gli altri. L’uomo è questo e niente di più, l’insieme di molti doni speciali che rendono autentica e inviolabile la vita.

I fenomeni migratori esistono da sempre e sono problematici, ci fanno paura, implicano fatica, ma niente giustifica il disprezzo per un migrante economico, un rifugiato o addirittura per le vittime di tratta (le più numerose) che semplicemente celebrano i doni del Padre, quello di pensare e fare un viaggio, di sognare una vita migliore e di prendersi cura di sé tessi, dei loro figli e della loro cultura.

Tutto ciò è in antitesi con la Creazione «creò l’uomo a sua immagine e somiglianza» ed il Vangelo «amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi». Per questo è insussistente l’accusa di chi imputa alla Chiesa e a coloro che difendono l’umanità di prendere posizioni politiche. La difesa della vita non ha colore politico e tacere in questo momento sarebbe un crimine. Il nostro essere Chiesa si esprime nello smuovere le coscienze e riportare le comunità ad una riflessione democratica e umana sui temi di questi tempi di cui quello dell’immigrazione. Ed è oggi questa immagine di Chiesa che ci deve rendere orgogliosi, dalla sua struttura all’ultimo dei fedeli. Una Chiesa che l’associazione sente come una Madre nel cogliere l’urgenza di dover dire, fare, intervenire, perché la Vita deve essere sempre trasformata in un’occasione di Gioia affinché le sia resa Grazia.

L’Azione Cattolica di Pistoia in questo tempo complesso oltre ad offrire il suo servizio è presente con la preghiera per ogni persona, chiamata a fare delle scelte, a prendere posizioni o esprimere opinioni.

Crediamo che il “meglio” per ciascuno di noi non possa passare dal desiderare il “peggio” per altri.

Siamo vicini all’Italia che lavora sul campo, che si espone per la difesa dei diritti umani e come associati cercheremo di essere promotori di valori evangelici che mirano alla costruzione di una società più giusta e solidale non contaminata da ansie e paure.

La Presidenza Diocesana