Dalla comunità umana alle social network communities e viceversa?

Dalle social network communities alla comunità umana c’è continuità o un salto nel vuoto?

Dalla comunità umana, come da quella ecclesiale, alle social network communities verrebbe da dire che una continuità, di fatto, si trova; alzi la mano chi non è almeno membro di un gruppo whatsapp della parrocchia, dei catechisti o del coro. Quanti, tra i cattolici, non rilanciano o commentano la pagina del proprio parroco o del proprio gruppo di preghiera? Insomma, dal reale al digitale il passo è breve, anzi, immediato. Forse fin troppo, al punto che varrebbe la pena chiedersi se nel mondo digitale, come in quello reale, ci stiamo da veri cristiani. Insomma, dalla comunità umana a quella social una continuità la c’è; ma sarà vero anche il contrario?

Non tutte le social network communities infatti, sembrano avere un corrispettivo nella “comunità umana”. Per questo il titolo del messaggio di Papa Francesco per la 54a giornata delle comunicazioni sociale, “Dalle social network communities alla comunità umana”, se pure appaia meno tecnico del messaggio precedente -incentrato sulle famigerate fake news- può toccare nel vivo il lavoro degli operatori della comunicazione.

In primo luogo perché invita a riflettere su ciò che diventa motivo di aggregazione “social” e spinge a discernere nel mare magnum di gruppi, cerchie, movimenti e sommovimenti interni alla rete. Il guaio, infatti, afferma Francesco, è che «troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)».

Cosa ci aggrega sulla rete? La rabbia, il dissenso, la paura? Oppure quei gusti che un algoritmo conosce meglio di noi? «Quella che dovrebbe essere una finestra sul mondo – ricorda il papa – diventa così una vetrina in cui esibire il proprio narcisismo». Quale “noi” descrive la rete e …molto giornalismo? Il noi degli sfiduciati o degli incattiviti?

E i cattolici dove si trovano sulla rete? Come si presentano? Come sono descritti? Ipocriti o veri credenti? Minoranza creativa o rissosa? Quale Chiesa descrivono le comunicazioni sociali del 2019?

Il successo della rete e soprattutto dei social network, d’altra parte, ribatte su un’esigenza antropologica fondamentale: non siamo fatti per stare soli; non possiamo fare a meno di vivere in relazione. Nel messaggio del papa le parole di San Basilio, vissuto nel lontano IV secolo, suonano decisamente azzeccate: «Nulla, infatti, è così specifico della nostra natura quanto l’entrare in rapporto gli uni con gli altri, l’aver bisogno gli uni degli altri».

L’insistenza sulla costruzione e la ricerca dell’identità dice che ho sempre bisogno di un altro che mi aiuti a scoprirla, che mi riconosca o conosca, mi apprezzi, mi dica da dove vengo e chi sono, e per cosa sono fatto. E se non trovo nessuno che me lo dica mi metterò una divisa, mi svenderò un po’ di più rendendomi appetibile o un po’ più scollacciata, cercherò qualcuno a cui assomigliare. Per chi è solo o si sente solo la rete è sempre alla portata di mano. Uno spazio aperto sulla propria comfort zone –anestetizzata o intristita che sia- in cui si rischia facilmente però, di ferire e farsi ferire anche pesantemente. Eppure perfino il più isolato può accontentarsi di sbocconcellare o ricercare il sapore di una presenza online.

Ma se dall’altra parte della rete non c’è nessuno che abbia lo spessore e la concretezza di un padre, di una madre, di un amico o un fratello i rischi del cyberbullismo, gli spettri della solitudine, della tristezza e del populismo saranno pronti a risucchiarci. La rete si trasforma in «una ragnatela capace di intrappolare».

L’antidoto più efficace per un rischio del genere –ricorda il messaggio- è custodire una metafora ben nota alla tradizione della chiesa: quella del corpo e delle membra. «Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25)… La verità infatti si rivela nella comunione. La menzogna invece è rifiuto egoistico di riconoscere la propria appartenenza al corpo; è rifiuto di donarsi agli altri, perdendo così l’unica via per trovare sé stessi». La metafora del corpo e delle membra ci ricorda l’importanza di dire la verità, di imparare cioè a comunicare davvero, a stare dentro le relazioni.

«La Chiesa stessa – precisa il papa-  è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui “like”, ma sulla verità, sull’“amen”, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri», dove la comunione dice ciò che riceviamo e ciò che diventiamo per grazia.

Un invito che tocca tutti, ma che anche in questo caso raggiunge il lavoro quotidiano del comunicatore di professione, perché la verità chiede di prendere posizione, forse anche controcorrente, chiede fatica, ma sempre unifica chi le appartiene e la trasmette, e alla lunga convince e libera.

La menzogna, invece, massifica senza comunione, disgrega e rivela l’interesse di una parte, di un potere forte, occulto o manifesto che cresce e crea consensi su comunità fragili e disorientate.

ugo feraci – ufficio comunicazioni sociali e cultura




GMG 2019: QUI PANAMA #2

Dalla nostra “inviata” Caterina Pelagalli a Panama

Tra poco ci sarà la santa Messa celebrata da Papa Francesco, che da stamani sta girando per Panama, tra istituzioni e fedeli. La gente è emozionatissima, i panamensi non riescono a trattenere le lacrime dalla gioia. Vedere tanti colori, tante bandiere, cori pieni di forza ed energia, riempie di gioia. Sarebbe bello che tutti i giovani del mondo, potessero vivere un esperienza simile: la chiesa entrerebbe nella vita di ognuno di essi.

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Riprendiamo da Agensir alcuni passaggi del discorso del Papa ai giovani

“Il cristianesimo non è un insieme di verità da credere, di leggi da osservare, o di proibizioni. Visto così non è per nulla attraente. Il cristianesimo è una Persona che mi ha amato tanto, che desidera e chiede il mio amore. Il cristianesimo è Cristo”. Ai 200mila giovani che affollano oggi il Campo Santa Maria La Antigua, per la cerimonia di accoglienza e apertura della Gmg, il Papa ha citato “un santo di queste terre”, Oscar Arnulfo Romero, vero e proprio faro della Gmg di Panama fin dai primi discorsi pubblici. Il cristianesimo, ha sintetizzato Francesco, “è portare avanti il sogno per cui Lui ha dato la vita: amare con lo stesso amore con cui ci ha amato”. “Non ci ha amato un pochino, ci ha amato totalmente, con tenerezza, con amore”, ha aggiunto a braccio.

“Che cosa ci tiene uniti? Perché siamo uniti? Che cosa ci spinge ad incontrarci?”, le domande incalzanti del Papa: “La certezza – la risposta – di sapere che siamo stati amati con un amore profondo che non vogliamo e non possiamo tacere e ci provoca a rispondere nello stesso modo: con amore. È l’amore di Cristo quello che ci spinge. Un amore che non si impone e non schiaccia, un amore che non emargina e non mette a tacere, un amore che non umilia e non soggioga. È l’amore del Signore, amore quotidiano, discreto e rispettoso, amore di libertà e per la libertà, amore che guarisce ed eleva. È l’amore del Signore, che sa più di risalite che di cadute, di riconciliazione che di proibizione, di dare nuova opportunità che di condannare, di futuro che di passato. È l’amore silenzioso della mano tesa nel servizio e nel donarsi senza vantarsi”. “Credi in questo amore?”, la domanda che dà il “tu” al popolo giovane: “Non abbiate paura di questo amore concreto, che è dare la vita. E questa è stata la stessa domanda e chiamata che ha ricevuto Maria. L’angelo le domandò se voleva portare questo sogno nel suo grembo e renderlo vita, renderlo carne. E Maria aveva l’età di tante ragazze come voi, e ha detto: ‘Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola’”. “Non era stupida, sapeva quello che sentiva il suo cuore, sapeva che cos’era l’amore”, ha aggiunto a braccio: “Ha saputo dare vita al sogno di Dio. Ed è la stessa cosa che l’angelo vuole chiedere a te, a te, a me: hai coraggio? Vuoi dare carne a questo sogno con le tue mani, i tuoi piedi, il tuo sguardo, il tuo cuore? Vuoi che sia l’amore del Padre ad aprirti nuovi orizzonti e a portarti per sentieri mai immaginati e pensati, sognati o attesi, che rallegrino e facciano cantare e danzare il cuore? Sapremo dire all’angelo, come Maria: ‘Eccoci, siamo i servi del Signore, avvenga per noi…’?”. “Ci sono domande a cui si può rispondere solo in silenzio”.




Dal “like” all’amen: il messaggio del papa agli operatori della comunicazione

Giovedì 24 gennaio, memoria di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, il vescovo Tardelli ha incontrato gli operatori della comunicazioni.

Mons. Tardelli ha presentato il messaggio di Papa Francesco per la 54° giornata mondiale delle comunicazioni sociali dal titolo: “dalle social network communities alla comunità umana“.

Il vescovo ha intrattenuto con i presenti un dialogo cordiale invitandoli a essere di «aiuto, con il loro prezioso lavoro, alla costruzione di una comunità umana basata sui valori di solidarietà e comunione».

Un momento conviviale ha chiuso la serata offrendo un ulteriore momento di condivisione e familiarità.

(foto di Mariangela Montanari)

Pubblichiamo di seguito il messaggio di Papa Francesco per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.

«Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25).

Dalle social network communities alla comunità umana

Cari fratelli e sorelle,
da quando internet è stato disponibile, la Chiesa ha sempre cercato di promuoverne l’uso a servizio dell’incontro tra le persone e della solidarietà tra tutti. Con questo Messaggio vorrei invitarvi ancora una volta a riflettere sul fondamento e l’importanza del nostro essere-in-relazione e a riscoprire, nella vastità delle sfide dell’attuale contesto comunicativo, il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine.

Le metafore della “rete” e della “comunità”

L’ambiente mediale oggi è talmente pervasivo da essere ormai indistinguibile dalla sfera del vivere quotidiano. La rete è una risorsa del nostro tempo. È una fonte di conoscenze e di relazioni un tempo impensabili. Numerosi esperti però, a proposito delle profonde trasformazioni impresse dalla tecnologia alle logiche di produzione, circolazione e fruizione dei contenuti, evidenziano anche i rischi che minacciano la ricerca e la condivisione di una informazione autentica su scala globale. Se internet rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere, è vero anche che si è rivelato come uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito.

Occorre riconoscere che le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti. Tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo. [1]

Nella complessità di questo scenario può essere utile tornare a riflettere sulla metafora della rete posta inizialmente a fondamento di internet, per riscoprirne le potenzialità positive. La figura della rete ci invita a riflettere sulla molteplicità dei percorsi e dei nodi che ne assicurano la tenuta, in assenza di un centro, di una struttura di tipo gerarchico, di un’organizzazione di tipo verticale. La rete funziona grazie alla compartecipazione di tutti gli elementi.

Ricondotta alla dimensione antropologica, la metafora della rete richiama un’altra figura densa di significati: quella della comunità. Una comunità è tanto più forte quanto più è coesa e solidale, animata da sentimenti di fiducia e persegue obiettivi condivisi. La comunità come rete solidale richiede l’ascolto reciproco e il dialogo, basato sull’uso responsabile del linguaggio.

È a tutti evidente come, nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità. Nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli. Inoltre, nel social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri). Questa tendenza alimenta gruppi che escludono l’eterogeneità, che alimentano anche nell’ambiente digitale un individualismo sfrenato, finendo talvolta per fomentare spirali di odio. Quella che dovrebbe essere una finestra sul mondo diventa così una vetrina in cui esibire il proprio narcisismo.

La rete è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri, ma può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare. Sono i ragazzi ad essere più esposti all’illusione che il social web possa appagarli totalmente sul piano relazionale, fino al fenomeno pericoloso dei giovani “eremiti sociali” che rischiano di estraniarsi completamente dalla società. Questa dinamica drammatica manifesta un grave strappo nel tessuto relazionale della società, una lacerazione che non possiamo ignorare.

Questa realtà multiforme e insidiosa pone diverse questioni di carattere etico, sociale, giuridico, politico, economico, e interpella anche la Chiesa. Mentre i governi cercano le vie di regolamentazione legale per salvare la visione originaria di una rete libera, aperta e sicura, tutti abbiamo la possibilità e la responsabilità di favorirne un uso positivo.

È chiaro che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca. Come ritrovare, dunque, la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri anche nella rete online?

“Siamo membra gli uni degli altri”

Una possibile risposta può essere abbozzata a partire da una terza metafora, quella del corpo e delle membra, che San Paolo usa per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce. «Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). L’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione. La verità infatti si rivela nella comunione. La menzogna invece è rifiuto egoistico di riconoscere la propria appartenenza al corpo; è rifiuto di donarsi agli altri, perdendo così l’unica via per trovare sé stessi.

La metafora del corpo e delle membra ci porta a riflettere sulla nostra identità, che è fondata sulla comunione e sull’alterità. Come cristiani ci riconosciamo tutti membra dell’unico corpo di cui Cristo è il capo. Questo ci aiuta a non vedere le persone come potenziali concorrenti, ma a considerare anche i nemici come persone. Non c’è più bisogno dell’avversario per auto-definirsi, perché lo sguardo di inclusione che impariamo da Cristo ci fa scoprire l’alterità in modo nuovo, come parte integrante e condizione della relazione e della prossimità.

Tale capacità di comprensione e di comunicazione tra le persone umane ha il suo fondamento nella comunione di amore tra le Persone divine. Dio non è Solitudine, ma Comunione; è Amore, e perciò comunicazione, perché l’amore sempre comunica, anzi comunica sé stesso per incontrare l’altro. Per comunicare con noi e per comunicarsi a noi Dio si adatta al nostro linguaggio, stabilendo nella storia un vero e proprio dialogo con l’umanità (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 2).

In virtù del nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio che è comunione e comunicazione-di-sé, noi portiamo sempre nel cuore la nostalgia di vivere in comunione, di appartenere a una comunità. «Nulla, infatti – afferma San Basilio –, è così specifico della nostra natura quanto l’entrare in rapporto gli uni con gli altri, l’aver bisogno gli uni degli altri».[2]

Il contesto attuale chiama tutti noi a investire sulle relazioni, ad affermare anche nella rete e attraverso la rete il carattere interpersonale della nostra umanità. A maggior ragione noi cristiani siamo chiamati a manifestare quella comunione che segna la nostra identità di credenti. La fede stessa, infatti, è una relazione, un incontro; e sotto la spinta dell’amore di Dio noi possiamo comunicare, accogliere e comprendere il dono dell’altro e corrispondervi.

È proprio la comunione a immagine della Trinità che distingue la persona dall’individuo. Dalla fede in un Dio che è Trinità consegue che per essere me stesso ho bisogno dell’altro. Sono veramente umano, veramente personale, solo se mi relaziono agli altri. Il termine persona denota infatti l’essere umano come “volto”, rivolto verso l’altro, coinvolto con gli altri. La nostra vita cresce in umanità col passare dal carattere individuale a quello personale; l’autentico cammino di umanizzazione va dall’individuo che percepisce l’altro come rivale, alla persona che lo riconosce come compagno di viaggio.

Dal “like” all’“amen”

L’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro. Se la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione. Se una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa. Se una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa. Se la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa.

Così possiamo passare dalla diagnosi alla terapia: aprendo la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza… Questa è la rete che vogliamo. Una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere. La Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui “like”, ma sulla verità, sull’“amen”, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri.

Dal Vaticano, 24 gennaio 2019
Memoria di San Francesco di Sales

FRANCISCUS

_______________________

[1] Per arginare questo fenomeno sarà istituito un Osservatorio internazionale sul cyberbullismo con sede in Vaticano.
[2] Regole ampie, III, 1: PG 31, 917°; cfr Benedetto XVI, Messaggio per la 43° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (2009).




I quarant’anni del Sicomoro

Un anno speciale per festeggiare la lunga carriera dal gruppo pop-rock pistoiese di ispirazione cristiana

Il Gruppo musicale Sicomoro di Pistoia festeggia quest’anno quarant’anni di musica pop rock di ispirazione cristiana. Il gruppo, formatosi nel 1979, in questi quaranta anni ha composto e proposto canzoni proprie, molte delle quali ispirate direttamente dalle Scritture e proposte in centinaia di concerti in tutta la penisola, attraverso sale parrocchiali, teatri, piazze, festival.

Il Sicomoro ha prodotto numerosi lavori discografici e le sue canzoni sono trasmesse dalle principali radio che diffondono la fede cristiana quali Radio Maria, Radio Mater e molte radio sul web. Il gruppo ha partecipato a molte trasmissioni di reti televisive sia locali come TVL che nazionali come RAI International.

Il significato del nome che il gruppo ha scelto vuole ricordare un episodio del vangelo di Luca dove si narra di un tale di nome Zaccheo che per vedere Gesù salì su un albero di Sicomoro, quindi la scelta del gruppo è stata sempre quella della testimonianza per dar modo di “vedere” Gesù e il suo messaggio a chi non lo conosce o ne è alla ricerca.
Quest’anno il Sicomoro proporrà nei suoi concerti un’antologia delle tante canzoni composte nella sua carriera, nella speranza di invogliare anche i giovani a suonare e a cantare per il Signore.

Il Sicomoro è disponibile per una serata di musica in cui, oltre alla musica, intende raccontare un po’ di episodi accaduti durante la sua lunga carriera interagendo con il pubblico. Il 2019 è iniziato con una bellissima serata evento alla Fondazione Tronci a Pistoia organizzata il 10 gennaio scorso, ma sono previste e molte altre occasioni, compreso un’altro grande evento previsto a Pistoia nel mese di giugno o settembre.

I Sicomoro sono: Chiara Biagini alla voce solista, Marco Pullerà alla batteria, Enzo Frati e Davide Ducceschi alle tastiere, Carlo Santini al basso, Antonio Cappellini alla chitarra.

Per contatti: Marco Pullerà 339 8037363 oppure pulleramarco@gmail.com o su facebook Gruppo il Sicomoro Pistoia.

La bellezza di cantare la vita

Intervista a David Ducceschi componente del gruppo

Siete stati promotori anche nella nostra diocesi della rinascita della musica sacra e d’autore dando testimonianza di quanto sia importante trasmettere la fede anche con il canto. In tanti anni avete avuto riscontri o esperienze positive che vorreste raccontare?

Sono stati tempi per crescere insieme abbiamo fatto un percorso di vita raccontando la nostra storia in musica. Abbiamo seguito la linea tracciata dal Gen Rosso e Gen Verde del movimento dei focolari con lo scopo di trasmettere valori cristiani. È stata un’esperienza importante nella speranza di comunicare ai giovani, attraverso il canto, la bellezza del Vangelo.
C’è bisogno, in questi tempi difficili, di comunicare la fede attraverso la musica nelle parrocchie e in un qualunque altro posto dove poter raccontare storie piene di speranza e di significato.

In questi anni avete voluto soffermarvi sulla vita dei santi raccontando in musica la loro storia…

Sì, abbiamo scelto la vita di alcuni santi che sono tesori di vita e di stile cristiano come San Francesco d’Assisi, Santa Gemma Galgani, Padre Massimiliano Kolbe.

Avete prodotto tanti lavori discografici che sono stati molto apprezzati e successivamente trasmessi da radio e TV; c’è un testo al quale siete particolarmente legati?

Tanto per citarne uno direi il canto “le tue ali” tratto dal noto salmo 56, trasmesso a lungo da radio Maria.

Quali sono stati gli eventi più belli della vostra carriera vissuti in diocesi?

Sono tante piccole cose, tra cui la preparazione al giubileo del 2000, con tanti eventi nella nostra città.

In tanti anni di carriera è cambiato il vostro stile o il vostro approccio alla musica?

Da parte nostra c’è ancora, come all’inizio, l’impegno di fare musica di ispirazione cristiana di qualità al miglior livello possibile.

Quale messaggio vi sentite di dare ai giovani di oggi?

Fare musica oggi è importante come lo era ieri e forse di più, suonare insieme permette di trasmettere e condividere valori, sentimenti, emozioni che sono comuni a tutti: in due parole cantate la vita!

(Daniela Raspollini)




Insieme sulle vie dell’unità e della giustizia

Si svolgerà del 18 al 25 gennaio la tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

La Diocesi di Pistoia torna a promuovere il dialogo ecumenico in occasione della Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani. Un appuntamento ecumenico che quest’anno ha per tema un passo tratto dal libro del Deuteronomio: «Cercate di essere veramente giusti» (Dt 16, 18-20).

«La Chiesa di Cristo – si legge nella presentazione del sussidio di preghiera di quest’anno – è la salvezza e il futuro dell’umanità. La divisione è opera del Male e, di conseguenza, è fallimento del popolo, che non riuscirà ad essere segno dell’amore. Non dobbiamo dimenticare che l’ingiustizia non solo ha reso più pericolosa la divisione sociale, ma ha anche alimentato le divisioni nelle chiese, che sono giunte al punto di vivere separatamente per più di mille anni, a volte con fanatismo, odio, senza preghiera e solidarietà. Senza dubbio le divisioni esistenti sono causa dell’ingiustizia».
«Unità e giustizia sono due realtà che arricchiscono la comprensione della comunione ecumenica e costruiscono una società pacifica e spiritualmente prospera. La potenza di Cristo perdona, guarisce, protegge e salva».
L’augurio è che la nuova Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani del 2019 «illumini, tramite lo Spirito Santo, altri fedeli a diventare diaconi ed evangelizzatori della Volontà di Dio: “che tutti siano una cosa sola” (Gv 17, 21), generosi discepoli e potenti testimoni dell’amore, della pace e della solidarietà».

Il programma diocesano della Settimana di Preghiera, coordinato dal responsabile per l’ecumenismo don Roberto Breschi prevede diversi momenti di preghiera e ascolto con le diverse comunità cristiane presenti in diocesi. Tra i relatori delle altre chiese, la pastora Letizia Tomassone della chiesa valdese e il pastore Mario Affuso della Chiesa evangelica italiana. I gruppi, le associazioni, i movimenti ed i fedeli tutti sono invitati a partecipare.

 

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 2019
PROGRAMMA

Venerdì 18 gennaio 2019
ore 18.00 presso la Chiesa Cattedrale – Pistoia
Celebrazione Eucaristica per l’apertura della Settimana presieduta da don Roberto Breschi, Direttore dell’Ufficio Ecumenismo e Dialogo Interreligioso

Domenica 20 gennaio 2019
ore 10.30 presso la Chiesa Cristiana Evangelica Battista (via San Marco, 9)
Culto di Adorazione
ore 16.00 Chiesa Ortodossa Rumena
(via San Bartolomeo) Celebrazione dei Vespri

Lunedì 21 gennaio 2019
ore 21.00 Parrocchia di Bonistallo
Serata di preghiera con la predicazione della Pastora Letizia Tomassone, della Chiesa Valdese di Firenze

Martedì 22 gennaio 2019
ore 21.00 Chiesa delle Suore di Sant’Anna (via San Pietro)
Celebrazione Ecumenica della Parola di Dio con la partecipazione del Pastore Mario Affuso, della Chiesa Apostolica Italiana.





Educare a “La Speranza che non delude”

A Loppiano il convegno regionale di Pastorale familiare

Il giorno sabato 26 Gennaio 2019 si svolgerà a Loppiano (Incisa e Figline Valdarno) l’annuale convegno promosso dagli uffici della pastorale familiare della Conferenza Episcopale Toscana. Quest’anno l’incontro è dedicato al tema dell’educazione declinato secondo l’indicazione di San Paolo nella Lettera ai Romani La speranza che non delude.

L’incontro è rivolto agli sposi, ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose, ai catechisti, agli educatori e a tutti coloro che hanno a cuore la trasmissione della fede.

Il programma dettagliato lo trovate scaricando il volantino.

Per l’iscrizione scrivere a angela@borgianet.it   oppure a ufficiofamiglia@diocesipistoia.it specificando i seguenti dati:
nome cognome, quello degli eventuali figli e la loro età.
Per i figli sarà organizzata l’animazione.

(ufficio pastorale con la famiglia)

 




Dichiarazione universale dei diritti: dalla parte del più indifeso

In occasione dei  70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani è nata l’idea di una riflessione pubblica sulla dignità della persona a partire dalla consapevolezza dei diritti dei più fragili, primo tra tutti il concepito.

Attorno al principio scolpito all’articolo 3 («Ogni individuo ha diritto alla vita») è stato sviluppato un testo – pubblicato da “Avvenire” – sottoposto all’esame di associazioni e realtà ispirate ai valori cristiani e poi integrato facendo tesoro delle numerose indicazioni di chi lo ha condiviso e firmato.

Il testo è stato condiviso con le adesioni di 42 sigle associative, un vero «Manifesto» aperto a eventuali nuove sottoscrizioni (che possono essere inviate all’indirizzo dedicato  dirittiumani.vita@gmail.com).

«La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è intervenuta al termine di tre terribili decenni caratterizzati da due conflitti mondiali con decine di milioni di morti, devastazioni materiali e morali e all’inizio di una guerra, detta «fredda» perché non dichiarata ma in atto col possibile uso di armi distruttive ancora più potenti. La Dichiarazione – si legge nel testo – pone le premesse di una pace duratura allorché richiama il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, quale base della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Non affida la pace alla forza delle armi, ma a un atto della mente quale è il riconoscimento della inerente – cioè intrinseca – dignità di ogni essere umano.

La violazione dei diritti dell’uomo è continuata in tante guerre locali, con dimensioni più o meno ampie, nell’ aggressione del terrorismo, nel rifiuto dell’accoglienza di poveri e di vittime della fame e della violenza.

Ancora più grave è il rifiuto di riconoscere la dignità di esseri umani che sono i più piccoli e i più poveri: i figli concepiti e non ancora nati. Non è possibile rassegnarsi di fronte ai milioni di aborti realizzati con il sostegno dello Stato e al numero incalcolabile di esseri umani eliminati nell’ambito delle tecniche di fecondazione in vitro. Ancor più è inaccettabile l’assuefazione di fronte all’attuale pretesa di una parte del femminismo – propagandata anche da potenti lobby internazionali – di considerare l’aborto come  diritto umano fondamentale, come se il giusto moto di liberazione della donna da una minorità sociale e familiare trovasse la sua conclusione e raggiungesse il suo vertice con la facoltà di sopprimere i propri figli.

In occasione della celebrazione dei diritti dell’uomo è doveroso concentrare la riflessione su due punti: l’identità umana del concepito – componente della famiglia umana – e la maternità quale segno dell’amore per la vita, particolarmente espresso dalla gravidanza.

1) L’identità umana del concepito

La scienza moderna e la ragione provano che il figlio concepito è un essere umano e, dunque, titolare della dignità umana come ogni altro essere umano. Molti sono i documenti che dimostrano la piena umanità del concepito. In questa sede basta ricordare, sul versante italiano, i ripetuti pareri del Comitato Nazionale per la Bioetica e la sentenza costituzionale n. 35 del 10 febbraio 1997.

Per giustificare pubblicamente la distruzione degli embrioni, nessuno osa negare la identità umana del concepito, ma si sofferma soltanto sulla condizione femminile con un’ambiguità di linguaggio che nasconde la verità parlando di “salute sessuale e riproduttiva”, di “donna” anziché di “madre”, di “interruzione volontaria della gravidanza“ o “Ivg” anziché di aborto, e invocando una sorta di “diritto” all’autodeterminazione in ordine al figlio (che si esprime nel rifiutarlo con l’aborto se non gradito e nel volerlo a ogni costo con la cosiddetta procreazione medicalmente assistita o con la maternità surrogata se invece non arriva).

La convinzione che il concepito non è un essere umano, non è un figlio, ma è soltanto un grumo di cellule, cancella il coraggio innato nella singola donna di accettare una gravidanza difficile e non attesa. L’esperienza dei Centri di aiuto alla Vita e di quanti operano al servizio della vita nascente e delle madri in difficoltà prova, invece, che la consapevolezza della identità umana del concepito è il massimo elemento di prevenzione dell’aborto, perché invita alla condivisione dei problemi, risvegliando il coraggio innato della madre e lo spontaneo amore per il figlio. Di conseguenza, il dibattito pubblico deve essere concentrato sulla identità umana del concepito, sia per la sua forza argomentativa sia per la sua efficacia preventiva capace di salvare vite umane, specialmente quando l’aborto è privatizzato e reso possibile mediante prodotti chimici assumibili nella propria abitazione (Ru486 e cosiddetta “contraccezione di emergenza”).

È evidente che la difesa della vita nascente è affidata prioritariamente alla coscienza individuale, ma la coscienza ha bisogno in qualche modo di essere illuminata.

2) Meditazione sulla maternità e la gravidanza

La misericordia e l’accoglienza verso le donne che hanno fatto ricorso all’aborto – spesso indotte a ricorrervi da circostanze esterne e contro la loro vera natura e volontà – deve essere un punto fermo. Tuttavia, non possiamo esimerci dal constatare che la spinta verso la legalizzazione dell’aborto come diritto deriva in prima battuta da un certo femminismo che, dopo aver rivendicato giustamente la uguale dignità rispetto alla popolazione maschile, pretende l’uguaglianza in modo grossolano anche per quanto riguarda la generazione dei figli. Si dimentica così quella prerogativa esclusivamente femminile che rende la donna naturalmente privilegiata rispetto all’uomo, la cui figura maschile e paterna va comunque valorizzata nella dimensione della responsabilità e dell’indispensabile coinvolgimento relazionale.

Nonostante la rappresentazione mediatica, la cultura che in nome della donna e dei suoi diritti pretende il ‘diritto d’aborto’ riunisce solo una minoranza delle donne. La grande maggioranza desidera o comunque realizza la maternità.

La gravidanza, indispensabile perché l’essere umano nasca e quindi perché la società sussista e abbia futuro, è caratterizzata da tre segni che mettono il timbro dell’amore sulla vita umana.

In primo luogo, la gravidanza implica sempre una modificazione del corpo femminile, spesso è accompagnata da disagi e termina con il dolore del parto. La donna accetta tutto questo con un istintivo coraggio.

In secondo luogo, la crescita del figlio nel seno materno (‘dualità nell’unità’) può essere interpretata come un abbraccio prolungato per molti mesi. L’abbraccio è un segno dell’amore. Per questo abbiamo parlato di un privilegio femminile posto a servizio dell’intera umanità.

La terza caratteristica riguarda la relazione di cura dell’altro che la gravidanza instaura in modo davvero speciale tra madre e figlio: si potrebbe dire che il ‘genio della relazione’, sovente attribuito alla donna, trova la sorgente in quel modello primordiale di relazione che si stabilisce con la naturale ospitalità del figlio sotto il cuore della mamma.

A ben guardare ogni autentica relazione di cura (si pensi ai malati, ai disabili, agli anziani) rimanda a quell’accoglienza gratuita e a quel dono di sé che fa appello alla donna quando si annuncia il figlio che vive dentro di lei. La meditazione sulla maternità e sulla gravidanza indica come traguardo del moto di liberazione la capacità tutta femminile di imprimere sull’umanità il segno dell’amore, il quale suppone, a sua volta, il riconoscimento del concepito come la meraviglia delle meraviglie, il risultato della creazione in atto, una freccia di speranza lanciata verso il futuro, uno di noi. Ne consegue l’urgenza di una nuova riconoscibile presenza femminile che faccia parlare e ascoltare le donne in nome della loro maternità realizzata o desiderata.

Ecco, in ordine alfabetico, l’elenco delle associazioni che aderiscono al Manifesto (tra parentesi, il nome del presidente o di chi ha firmato per conto di ciascuna realtà)”.

Alleanza cattolica (Marco Invernizzi)
Associazione Agata Smeralda (Mauro Barsi)
Associazione cattolica operatori sanitari (Fabrizio Celani)
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (Giovanni Paolo Ramonda)
Associazione difendere la vita con Maria (Maurizio Gagliardini)
Associazione Donum Vitae (Paolo Marchionni)
Associazione Faes – Famiglia e scuola (Giovanni De Marchi)
Associazione Family day – Comitato difendiamo i nostri figli (Massimo Gandolfini)
Associazione Insieme per te (Vincenzo Saraceni)
Associazione italiana amici dei bambini-Aibi (Marco Griffini) Associazione italiana Ginecologi e Ostetrici cattolici – Aigoc (Giuseppe Noia)
Associazione italiana pastorale sanitaria (Giovanni Cervellera)
Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Tonino Cantelmi)
Associazione medici cattolici italiani (Filippo Boscia)
Associazione nazionale famiglie numerose (Mario Sberna)
Associazione nazionale San Paolo Italia (Giuseppe Dessì)
Associazione Risveglio (Francesco Napolitano)
Associazione Scienza & Vita (Alberto Gambino)
Centro italiano femminile (Renata Natili Micheli)
Centro studi Livatino (Mauro Ronco)
Confederazione italiana Centri regolazione naturale fertilità (Giancarla Stevanella)
Confederazione nazionale Misericordie d’Italia (Roberto Trucchi)
Copercom – Coordinamento associazioni per la comunicazione (Massimiliano Padula)
Federazione europea medici cattolici (Vincenzo De Filippis)
Fondazione Il cuore in una goccia – Difesa vita nascente e tutela salute materna e fetale (Anna Luisa La Teano, Angela Bozzo)
Fondazione internazionale Fatebenefratelli (Maria Teresa Iannone)
Fondazione Ut vitam habeant (Elio Sgreccia)
Forum sociosanitario (Aldo Bova)
Istituto scientifico internazionale Paolo VI su ricerca fertilità e infertilità umana – Università Cattolica del Sacro Cuore (Alfredo Pontecorvi)
Movimento cristiano lavoratori (Carlo Costalli)
Movimento per la Vita italiano (Marina Casini Bandini)
Movimento Per – Politica etica responsabilità (Olimpia Tarzia)
Nuovi Orizzonti (Chiara Amirante)
Oeffe – Orientamento familiare (Giorgio Tarassi)
Ordine francescano secolare d’Italia (Paola Braggion)
Progetto Famiglia (Marco Giordano)
Pro Vita (Toni Brandi)
Rinnovamento nello Spirito Santo (Salvatore Martinez)
Scienziati e tecnologi per l’etica dello sviluppo (Pierfranco Ventura)
Semi di pace (Luca Bondi)
Sermig – Arsenale della pace (Ernesto Olivero)
Società italiana per la Bioetica e i Comitati etici (Francesco Bellino)
Unione farmacisti cattolici italiani (Piero Uroda)




Lutto nella Chiesa Pistoiese: è morto don Fernando Grazzini

Ieri 19 novembre si è spento all’età di 91 anni don Fernando Grazzini.

Don Fernando Grazzini, nato il 16 luglio 1927 a Casalguidi, è stato storico parroco della Parrocchia di Sant’Andrea a Pistoia.

Ordinato sacerdote nel 1950 don Fernando è stato cappellano presso la Parrocchia della Vergine fino al 1952, quindi parroco a Piazza fino al 1969. Don Fernando ha poi insegnato per diversi anni nel Seminario Diocesano, prestando servizio anche come assistente diocesano dalla Gioventù femminile di Azione Cattolica. Dal 1967 ha svolto il suo ministero presso la parrocchia di Sant’Andrea, dove è rimasto in carica fino al 2015. Canonico dal 1963, dal 1986 fino al 2015 è stato anche amministratore parrocchiale della parrocchia di San Filippo e assistente AGESCI del Pistoia 1. Per quasi quarant’anni è stato presbitero della comunità neocatecumenale.

Negli ultimi anni don Fernando è stato pesantemente segnato da una vecchiaia che gli ha tolto lucidità e lo ha sempre più fiaccato nel fisico. Ha abitato fino agli ultimi giorni nella canonica di Sant’Andrea, dove ha trascorso gran parte della sua esistenza, nella parrocchia che tanto lo ha apprezzato e tanto ha ricevuto dal suo servizio umile e fedele. Don Fernando è stato, tra l’altro, un uomo di grande carità: una carità silenziosa, fatta di ascolto paziente e personale che lo spingeva ad accogliere col sorriso quanti bussavano alla sua porta.

Don Grazzini sarà esposto al saluto di fedeli e amici nella chiesa di Sant’Andrea a partire dal pomeriggio di oggi, 20 novembre. Le esequie, presiedute da Mons. vescovo Fausto Tardelli, saranno celebrate domani, mercoledì 21 novembre alle ore 15 sempre nell’antica pieve di Sant’Andrea.

redazione




Accanto ai poveri in un mondo ferito. La missione delle Francescane dei Poveri

Domenica 18 novembre si celebra la seconda Giornata Mondiale dei Poveri istituita da Papa Francesco. Nella nostra città l’attenzione verso chi è più fragile e bisognoso è la missione quotidiana delle suore Francescane dei Poveri. Una presenza discreta ma operosa che in occasione di questa Giornata offre la propria riflessione e testimonianza.

Quante situazioni di sofferenza ed emarginazione avete incontrato in questi anni a servizio dei poveri fino ad oggi? Quali sono i vostri ambiti di evangelizzazione e servizio?

Per noi Suore Francescane dei Poveri il 2018 è un anno importante perché celebriamo i 20 anni della nostra presenza a Pistoia. Sono tante le situazioni di sofferenza ed emarginazione che in questo lungo periodo abbiamo incontrato, e varie le realtà in cui ci siamo sentite chiamate a lavorare: il servizio in Caritas diocesana, l’accoglienza di donne vittime di sfruttamento sessuale, l’accoglienza di mamme con bambini con problemi di dipendenze, la pastorale nei campi rom e sinti, la pastorale con gli anziani soli ed ammalati, la pastorale famigliare e il servizio di consulenza a favore di coppie in difficoltà, l’insegnamento e il sostegno nelle scuole materne a favore di bambini con disagio, la pastorale carceraria e la pastorale giovanile per giovani e adolescenti alla ricerca di senso e riferimenti.

Come nasce il vostro carisma?

Il carisma delle Suore Francescane dei Poveri è quello di sanare le piaghe di Cristo Crocifisso specialmente nei poveri e nei bisognosi, attraverso l’amore e il servizio. La nostra famiglia religiosa nasce in Germania nel 1845 ad opera della Beata Francesca Schervier, la quale dedicò tutta la sua vita al servizio tra i poveri ed i malati. La nostra missione è ancora oggi quella di testimoniare l’amore di Dio attraverso la cura di ogni singolo individuo, specialmente i poveri ed i sofferenti, facendoci strumento di compassione e speranza all’interno del nostro mondo ferito.

Come si concretizza in diocesi la vostra missione incentrata sull’insegnamento della vostra fondatrice, la scelta radicale dei poveri?

Attualmente il nostro servizio in Diocesi di Pistoia si svolge presso due strutture, una per l’accoglienza di donne vittime di sfruttamento sessuale e con altri disagi, l’altra per l’accoglienza di mamme e bambini per donne che hanno avuto problemi di dipendenze. Ed inoltre siamo impegnate nella pastorale con i rom e i sinti, nella pastorale famigliare ed in quella giovanile, e nella visita a persone anziane ed ammalate della parrocchia di San Benedetto.

Il desiderio che da sempre ha animato la nostra fondatrice Francesca Schervier e che ancora oggi ci guida è quello di riconoscere la presenza di Gesù in ogni fratello e sorella che incontriamo. Sono loro, le persone speciali che Dio continua ad affidarci per condividere la loro vita, e attraverso percorsi a volte molto difficili ritrovare fiducia in sé stessi, recuperare stima e dignità, vivere un fallimento, una malattia, i sogni infranti, le aspettative deluse, la mancanza di speranza nel futuro a causa dei problemi economici. Provare ad essere voce di chi non ha voce, in una società in cui vince chi urla più forte o solo chi ha successo, perché ciascuno possa mostrarsi per ciò che veramente è, al di là dei pregiudizi e di ciò che dai mass media e dai social network viene sbandierato. Provare a farlo perché, anche i più poveri, hanno dei nomi, dei volti e delle storie, perché crediamo nella possibilità, al di là delle nostre differenze di essere fratelli e sorelle.

San Francesco e santa Chiara oggi sono ancora due figure capaci di attrarre l’attenzione dei giovani?

«Il carisma di Chiara e Francesco, parla anche alla nostra generazione, e ha un fascino soprattutto per i giovani» (Benedetto XVI, in occasione alla XXVII Giornata Mondiale della Gioventù)
I motivi per cui questi due santi possono attrarre ancora oggi i giovani crediamo siano vari. Ne citiamo due a noi molto cari: l’amore per l’autenticità e per le relazioni fraterne.
Chiara e Francesco erano giovani quando hanno iniziato a dare ascolto e voce a quello che desideravano veramente. Hanno trovato tra la confusione e il materialismo del tempo Qualcuno di credibile da seguire, un Dio incarnato nei lebbrosi, nei fratelli e nelle sorelle, fragile e libero…. Un Dio “inaspettatamente” vicino. Hanno saputo inseguire i loro sogni osando, rischiando di perdere affetti, sicurezze per essere davvero se stessi. Hanno imparato che il fratello e la sorella che Dio mette loro accanto sono il bene più prezioso che potessero avere. A volte scomodo, ma a volte un aiuto per imparare a farsi dono.
Crediamo che i giovani siano assetati di relazioni autentiche in cui scoprirsi amati così come sono senza la necessità di maschere o compromessi che soffocano i desideri più veri.

Qual è l’aspetto che più vi colpisce nel messaggio del Papa sulla Giornata Mondiale dei poveri?

Nel messaggio per la giornata mondiale dei poveri il Papa sottolinea l’intervento di Dio a favore dei poveri come un atto di cura che non solo risolleva dalla povertà ma restituisce dignità. Questo chinarsi di Dio verso l’uomo, curando in qualche modo le ferite della povertà e aiutando il povero a rialzarsi ci piace perché è un passaggio molto vicino al nostro carisma e alla nostra missione. Esso rappresenta lo sforzo quotidiano di chiunque nella Chiesa voglia impegnarsi a favore dei poveri, nell’ascoltare il loro grido e rispondere con un farsi “presenza” amorosa.
«La salvezza di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità».

I poveri sono i primi abilitati a riconoscere la presenza di Dio e a dare testimonianza della sua vicinanza nella loro vita. In questa giornata si può cogliere anche un messaggio di speranza?

Certamente sì. Il messaggio del Papa ed il Salmo 34, da cui è tratto il titolo del messaggio per quest’anno («Questo povero grida ed il Signore lo ascolta») contiene in sé un chiaro messaggio di Speranza. Il salmista fa esperienza in prima persona di povertà, sa trasformarla però in un canto di lode e di ringraziamento al Signore perché spera con certezza e sperimenta sulla propria pelle che il suo grido è ascoltato dal Signore. Il Signore poi non si limita all’ascolto ma risponde a questo grido con la sua azione liberante, che è azione di guarigione. Il povero grida a Dio nella speranza di essere ascoltato ma anche con la certezza di essere liberato. La sua speranza è fondata sull’amore di Dio che non abbandona chi si affida a lui.

Daniela Raspollini




Un “piano Marshall” per i cristiani d’Iraq

Intervista ad Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla chiesa che soffre – Italia.
Tra il 23 e 25 novembre sarà in diocesi un sacerdote iracheno per sensibilizzare i fedeli sulla situazione dei cristiani in medio oriente.

Sarà prossimamente a Pistoia, tra il 23 e il 25 novembre un sacerdote iracheno della piana di Ninive, tristemente famosa per i massacri e le distruzioni operate contro i cristiani dallo Stato Islamico. La sua presenza è coordinata da ACS (Aiuto alla Chiesa che soffre). Aiuto alla Chiesa che Soffre è una fondazione di diritto pontificio nata nel 1947 per sostenere la Chiesa in tutto il mondo, con particolare attenzione laddove è perseguitata. Abbiamo rivolto alcune domande ad Alessandro Monteduro, presidente ACS-Italia per conoscere meglio la situazione dei cristiani in Iraq e l’impegno di ACS.

Come si presenta la situazione dopo la distruzione dei villaggi cristiani di Ninive da parte dell’Isis?

La ricostruzione nella Piana di Ninive continua, e prosegue anche il “Piano Marshall” di Aiuto alla Chiesa che Soffre per sostenere i cristiani d’Iraq. Dall’8 maggio 2017, giorno dell’apertura dei primi cantieri nei villaggi di Bartella, Karamless e Qaraqosh, i risultati raggiunti sono straordinari. Secondo l’ultimo aggiornamento del 6 novembre scorso, i cristiani rientrati nell’intera Piana di Ninive sono 41.057. Le abitazioni private distrutte o danneggiate dai jihadisti in due anni sono state 14.035; le proprietà finora riparate sono state 5.746. A coordinare i lavori è il Comitato per la Ricostruzione di Ninive, istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese d’Iraq, caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa, con la collaborazione di ACS. Dall’inizio dell’avanzata dell’ISIS nel giugno 2014, ACS ha sostenuto progetti emergenziali e umanitari in Iraq per un totale di quasi 40 milioni di euro. Ciò fa della Fondazione la prima organizzazione nella Piana di Ninive per entità di aiuti.

ACS offre un aiuto importante e concreto alla popolazione di quelle terre nella ricostruzione, ma resta anche il problema della sofferenza spirituale che ha lasciato la violenza dell’ISIS. La gente come affronta questa difficoltà?

La mission di ACS non è solo umanitaria, al contrario è squisitamente pastorale. Ogni nostro progetto ha lo scopo ultimo di agevolare l’evangelizzazione in territori in cui la persecuzione crea ostacoli apparentemente insormontabili. Da parte loro i cristiani di queste nazioni reagiscono con fortezza e fede. Ho visto molte croci sui containers nei quali erano ospitate le famiglie sfollate. Il loro esempio deve insegnare molto ad un’Europa che ha largamente abbandonato le proprie radici cristiane.

Papa Francesco esorta a favorire la permanenza di famiglie nella loro terra d’origine. Che speranza c’è a riguardo?

Il Papa come sempre è lungimirante. I corridoi umanitari, infatti, non rappresentano un’autentica soluzione. Sappiamo dai diretti interessati che i cristiani perseguitati non vogliono emigrare, al contrario vogliono restare in patria. Per questo motivo, gli unici corridoi umanitari che reputiamo necessari sono quelli “di ritorno”. ACS ha coerentemente avviato la ricostruzione di abitazioni e luoghi di culto anche in Siria. Dal 2011 all’agosto 2018 la Fondazione ha finanziato progetti a favore delle comunità cristiane siriane per un totale di 27.428.485 euro.

Quale sarà il futuro del cristianesimo in quelle terre?

Lo sa solo la Provvidenza. Certamente noi abbiamo il dovere di fare quanto è in nostro potere. Anzitutto è necessario pregare per le Cristianità di queste nazioni, in secondo luogo è opportuno continuare a diffondere informazione di qualità per sensibilizzare adeguatamente l’opinione pubblica, in terzo luogo è particolarmente utile sostenere, sulla base della personale disponibilità finanziaria, i progetti di aiuto ai fratelli sofferenti.

Ad oggi quali sono le opere concretamente realizzate da ACS?

Mi limito ai dati definitivi del 2017. Per quanto riguarda le aree di intervento, si confermano al primo posto i progetti di costruzione e ricostruzione (32,8% degli aiuti), con ben 1.212 tra cappelle, chiese, conventi, seminari e centri pastorali edificati o restaurati. Seguono gli aiuti umanitari e di emergenza (15,7%), una parte dell’impegno ACS che si amplia di anno in anno, e le intenzioni di Sante Messe (15,4%). Nel 2017 hanno beneficiato di questo particolare sostegno, fondamentale in aree povere in cui i sacerdoti non possono contare su nessun altra forma di sussistenza, 40.383 sacerdoti e religiosi, uno ogni 10 nel mondo, i quali hanno celebrato 1.504.105 Sante Messe secondo le intenzioni dei benefattori di ACS, ovvero una Santa Messa ogni 21 secondi. Importante anche il supporto alla formazione dei seminaristi: sono stati 13.643 quelli aiutati nel 2017, e quindi uno ogni 9 nel mondo. ACS ha inoltre provveduto al sostentamento di 12.801 religiose, ovvero una ogni 52 nel mondo, con un incremento di oltre il 15% rispetto al 2016.

Altri ambiti di interventi riguardano la traduzione e la pubblicazione di testi religiosi e l’apostolato mediatico, ovvero il sostegno a mezzi di comunicazione quali radio e tv cristiane, i corsi di formazione per laici, e l’acquisto di mezzi di trasporto per agevolare la pastorale di missionari e missionarie. Sono stati 1.120 i mezzi di trasporto donati nel 2017: 424 automobili, 257 motociclette, 429 biciclette, 4 camion, 3 pullman e 3 barche.

In questo quadro è stato estremamente rilevante il sostegno dei benefattori italiani. Nel 2017 ACS-Italia ha visto un incremento di circa il 9% della raccolta, che ha raggiunto quota 3.679.035 euro.  Un altro dato significativo è il rilevante aumento del numero dei benefattori italiani, dai 10.949 del 2016 ai 13.012 dello scorso anno. Molti dei progetti concretizzatisi grazie al contributo italiano sono stati realizzati in Iraq e in Siria. Tra le offerte a beneficio dei cristiani siriani ricordiamo in particolare la campagna di Natale 2017, per un totale di oltre 250.000 euro, e il progetto Goccia di latte, che con una raccolta di oltre 207.000 euro ha permesso di donare latte in polvere a tanti bambini cristiani di Aleppo.

Avete promosso un progetto di ricostruzione molto importante; si tratta di un’operazione eccezionale per i Cristiani in Iraq, ce ne può parlare?

Si tratta del più volte citato “Piano Marshall”, che noi abbiamo chiamato “Ritorno alle radici”. Dopo la sconfitta militare dell’ISIS i cristiani d’Iraq hanno espresso il desiderio di fare ritorno ai loro villaggi nella Piana di Ninive, ormai liberati. Senza un aiuto esterno, tuttavia, non sarebbero stati in grado di riparare le loro case, né le infrastrutture pubbliche. Il costo della ricostruzione delle sole abitazioni private è stato infatti stimato in 250 milioni di dollari; inoltre, nel mutevole quadro politico della Piana di Ninive, hanno avuto difficoltà a far valere il loro diritto al ritorno. Per scongiurare il rischio della scomparsa del Cristianesimo in Iraq, e riconoscendo il diritto al ritorno di ogni persona che si trova nella condizione di sfollato, le tre Chiese cristiane presenti nella Piana di Ninive (caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa) hanno istituito, con il sostegno di Aiuto alla Chiesa che Soffre, il Comitato per la Ricostruzione di Ninive (Nineveh Reconstruction Committee – NRC) in modo da: promuovere e finanziare il ritorno dei cristiani ai rispettivi villaggi; pianificare e monitorare la riedificazione e rendere conto dell’utilizzo dei fondi ricevuti; informare l’opinione pubblica sullo stato di avanzamento del ritorno dei cristiani in Iraq; invitare tutti i governi e la comunità internazionale a intraprendere le necessarie azioni politiche al fine di assicurare a tali cristiani il rispetto del diritto a far ritorno alle proprie case.

ACS, impegnando parte della generosità dei propri benefattori, ha finanziato la ristrutturazione delle case mentre continuava ad offrire cibo e alloggio agli sfollati cristiani della Piana ancora in attesa di rientrare nei propri villaggi. Ho già fatto cenno alla situazione attuale con i dati aggiornati. Si tratta di un “cantiere aperto”, che testimonia la straordinaria generosità dei cattolici, anche dei fedeli italiani, i quali, al contrario da tanti stereotipi, sono concretamente solidali con i loro fratelli sofferenti in ogni parte del mondo.

Daniela Raspollini