Tardelli: Fedeltà al Signore e discernimento per sognare in grande con i piedi per terra

Riprendiamo dal Corriere Fiorentino di venerdì 24 agosto il testo integrale dell’intervista di Paolo Ceccarelli al vescovo di Pistoia Fausto Tardelli «L’accoglienza non sia ideologia, ma chi chiude non è un cristiano». 

Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. 

Da Camaldoli il Movimento ecclesiale di impegno culturale lancia l’allarme sullo svuotamento della democrazia. Un tema su cui, ha scritto Riccardo Saccenti, riflette “una minoranza di cattolici italiani” mentre la maggioranza riscopre “una fede identitaria e esclusiva”. Monsignor Tardelli, respira anche lei questa divaricazione tra popolo ed élite cattolici?

Si la respiro, perché è così. Una divaricazione che deve far riflettere e che non va bene. Invece di stare a lamentarsi, sarebbe meglio domandarsi il perché e come sia successo. Non però partendo dalla presunzione che le élite abbiano per forza ragione su tutto e che il popolo della strada o che riempie le chiese sia fatto di gente che non capisce. Ci vuole ascolto sincero e capacità di mettersi in discussione. Occorre sforzarsi di capire i motivi. Forse ci sono domande e attese legittime che non hanno trovato risposta. Forse cose buone sono state comunicate male.

Certo che sono preoccupato per lo svuotamento della democrazia e per la barbarie che avanza. Sono molto preoccupato. Ci sono segnali inquietanti e foschi che non ci fanno stare per niente tranquilli, anche perché vanno oltre l’Italia e attraversano i continenti. Ma non serve fare proclami e gridare “al lupo, al lupo”. Certo occorre anche svegliare le coscienze e vigilare. Anche dire con chiarezza come gli apostoli quando è necessario: “Non possumus”. Soprattutto però bisogna costruire dal basso una nuova società e con molta umiltà e fatica compiere una vasta e capillare opera di educazione anche ecclesiale, soprattutto nei confronti dei e coi giovani, verso i quali abbiamo completamente fallito. Perché a preoccupare e tanto, non sono solo le uscite di questo o di quello, bensì il consenso che vi si coagula attorno.

Ma secondo lei quali devono essere le risposte della Chiesa alla rivolta politica e sociale anti establishment in moto in quasi tutto l’Occidente?

La chiesa deve convertirsi al suo Signore. Lo ha richiamato anche Papa Francesco nella sua recente lettera al popolo di Dio per le nefandezze della pedofilia: preghiera e digiuno. La Chiesa deve concentrarsi su Gesù Cristo che è il suo sposo e il suo Signore, accettando l’umiliazione di riconoscersi peccatrice in tante sue membra ma anche annunciandolo senza vergogna come la Via, la Verità e la Vita. Solo così sarà luce e sale.

Il problema principale della chiesa è la fedeltà al suo Signore, alla Verità fatta amore e all’amore reso autentico dalla Verità, non altro. Anche se ritengo che la Chiesa di oggi sia migliore di quello che sembra o di come la si dipinge, c’è bisogno di una profonda conversione e di una solida formazione cristiana, a partire da noi vescovi e preti, perché c’è sporcizia nella chiesa, c’è lassismo, mondanità, travisamento della fede trasmessa dagli apostoli, superficialità, indisciplina e, cosa più grave di tutte, mancanza di amore.

In questa profonda conversione, la chiesa deve anche imparare a leggere i “segni dei tempi”; non quelli che si pensa già di conoscere: quelli piuttosto che vengono fuori dal tempo che stiamo vivendo. Non può quindi per es. non osservare con attenzione questa rivolta che viene dalle persone e dai popoli contro una globalizzazione che cancella le identità, che ci vuole tutti intercambiabili e asettici, tutti uguali solo perché appunto senza identità, sottoposti a una burocrazia che ci amministra e alla finanza mondiale che oltre a non dare lavoro, ci vuole senza ideali, senza onore e dignità, senza patria, senza Dio, liberi solo di appagare i nostri istinti.

Uno dei cavalli di battaglia dei sovranisti è ovunque nel mondo quella contro i migranti. Papa Francesco ha perduto in popolarità anche tra i cattolici per le sue parole a favore dell’accoglienza, secondo un sondaggio realizzato da Demos per Repubblica. La Chiesa rischia di perdere contatto con il suo popolo proprio sul messaggio evangelico dell’accoglienza?

Il cristiano non si può dimenticare delle parole di Cristo: ero forestiero e mi avete accolto. La chiesa è un popolo formato da genti e culture diverse, dove l’accoglienza reciproca è legge. Al fondo, questo è chiaro. Molte delle nostre parrocchie sono guidate da africani o comunque da preti provenienti da altri continenti, immigrati pure loro. Se un cristiano è contro l’accoglienza di chi è in difficoltà o nel bisogno, semplicemente non è cristiano e farebbe bene a farsi un bell’esame di coscienza. Resta il fatto che occorre impegnarsi per fargli cambiare mentalità e non semplicemente condannarlo. Comunque, se non condivide, è libero di andarsene. Anche se ci dispiace, non ci fa paura rimanere in pochi.

La chiusura dunque non è accettabile. Bisogna però riconoscere che qualcuno ha fatto dell’immigrazione una questione ideologica, non umanitaria. Inoltre non si è voluto capire che la cosa andava organizzata in un modo diverso e non puramente emergenziale, perchè l’obiettivo è l’integrazione. Si è dato a intendere che tutto fosse chiaro nei flussi migratori, in particolare quelli che ci interessano da vicino, quelli cioè di giovani provenienti dall’Africa, anzi, da una certa parte dell’Africa; non si è spinto a sufficienza per una soluzione internazionale ed europea del problema e, a volte, anche le parole del Papa, sempre molto chiare, sono invece state strumentalizzate, finendo in modo manipolato nei vari organi di comunicazione.

Quanto al sondaggio di Repubblica, ci andrei molto piano a dire che il papa paga per la sua posizione sui migranti…. Si tratta di una opinabilissima interpretazione dei dati. Pressappochismo, lo definirei…. Quando Papa Benedetto perdeva consensi, per cosa pagava, allora?

A Pistoia e anche fuori hanno fatto discutere alcune uscite pubbliche di don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro divenuto famoso per la foto in piscina con alcuni profughi. Da vescovo come ha vissuto le polemiche che ne sono seguite?

Le ho vissute con grande dolore. Primo perché contro un sacerdote che pur con i limiti che tutti abbiamo cerca di aiutare il prossimo in difficoltà, ho visto scatenarsi una montagna incredibile di insulti e di odio, persino con vere e proprie minacce e l’assurda pretesa di controllo da parte di forze politiche di estrema destra – cose tutte assolutamente inaccettabili e che mi hanno rattristato non poco; secondo, anche perché ritengo che l’uso abituale della provocazione non serva assolutamente a niente, non costruisca ponti e non faccia cambiare idea ad alcuno. Inoltre, l’esposizione mediatica è l’ultima cosa che aiuta l’integrazione dei giovani immigrati, i quali hanno bisogno piuttosto di tranquillità e serenità per trovare la propria strada in pace.

Non c’è il rischio che alcune provocazioni fatte in nome dell’accoglienza danneggino anche la causa dei migranti?

Si, dal mio punto di vista, si. Bisogna cercare di risolverli, i problemi delle persone, non acuirli. Se l’obiettivo è, come io ritengo, l’integrazione, ci si deve domandare che cosa la favorisca e cosa invece la ostacoli, operando con pazienza per superare gli ostacoli e per renderla possibile.

Lei ha più volte richiamato i cattolici all’impegno in politica. Ma concretamente questo impegno come deve realizzarsi? Pensare a una nuova Dc nel 2018 sembra una forma di antiquariato…

Come ho avuto modo di scrivere recentemente, le difficoltà sono grandi e non ci sono strade già segnate o scorciatoie. Si tratta di costruire un tessuto, una trama sociale. Prioritario ritengo che i cattolici – riscoprendo la propria identità – si parlino, si confrontino, senza anatemi reciproci, nel rispetto, nel dialogo, alla ricerca di ciò che è giusto e possibile oggi per il bene comune.

Bisogna anche imparare a leggere la realtà mutevole dei nostri giorni; misurandosi con essa così com’è e sforzandosi di trovare prospettive di pensiero e di azione, facendo tesoro delle numerose e belle esperienze di prossimità già presenti silenziosamente ma efficacemente nel territorio nazionale. Coltivando cioè un sogno, un progetto; un progetto però che sia anche un metodo applicabile, un modo, uno stile basato sul discernimento, fatto di idee grandi e tradotto in cose concrete e possibili già oggi, fecondato dalla dottrina sociale della chiesa, aperto a tutti anche ai non cattolici, soprattutto sognato e costruito ogni giorno insieme alle nuove generazioni, capace quindi di scaldare il cuore dei giovani. Infine, cosa non meno importante, attorno al quale saper costruire con tenacia e determinazione un consenso capillare e convinto.




Conoscere e superare le dipendenze oggi

Come affrontare il crescente consumo di droghe? Intervista a Franco Burchietti, presidente del CEIS di Pistoia

di Daniela Raspollini

 Indagini recenti affermano la crescita preoccupante del consumo di droghe nel nostro paese. Una piaga che attraversa anche il nostro territorio e che non può essere sottovalutata. Franco Burchietti, presidente del CEIS, il Centro di Solidarietà di Pistoia, ci illustra il fenomeno indicando criticità e possibili vie duscita.

Dalla nascita del Centro ad oggi come è cambiato l’approccio dei giovani alla droga?

Mentre negli anni ‘70 e ‘80 il rapporto con la droga era una piaga sociale con un forte impatto nella vita quotidiana delle città, legato soprattutto al consumo endovena di eroina (le siringhe in ogni luogo!), oggi il fenomeno droga si è profondamente trasformato, tanto da non essere spesso più avvertito come problema rilevante. Tuttavia la tossicodipendenza, o per meglio dire le dipendenze, sono ormai quotidianamente in evoluzione e, negli ultimi 10 anni, il fenomeno ha visto un mutamento enorme, nelle forme (di dipendenza), nelle sostanze abusate e persino nelle modalità di assunzione. Oggi, ad esempio, soprattutto in Italia, si registra una crescita esponenziale dell’uso di psicofarmaci anche fra i giovani e di nuove sostanze acquistate online. La maggior parte dei giovani “sperimentatori” di sostanze si rivolge alle cosiddette nuove droghe o droghe di sintesi, progettate e costruite in laboratorio, caratterizzate da rischi e danni specifici. Questa fluidità del fenomeno chiede ai servizi di ripensare continuamente l’adeguatezza dei propri interventi. Di contro, invece, operiamo con un sistema di intervento che fa riferimento ad una normativa di quasi 30 anni fa e che ci costringe ad inseguire questa problematica senza mai raggiungerla. La complessità del “fenomeno” delle dipendenze necessita di interventi altamente qualificati e fortemente connessi ai bisogni mutevoli e variegati del territorio.

I giovani percepiscono i rischi legati alle droghe leggere?

Fondamentalmente no. Già la differenzazione tra droghe leggere e droghe pesanti, pur importante in rapporto ai percorsi pedagogico-terapeutici e riabilitativi, sembra portare verso una diffusione culturale che distingue tra ciò che fa male e ciò che non lo fa. Tutte le sostanze stupefacenti hanno effetti dannosi a livello psico-fisico, anche la cannabis con il suo principio attivo (THC). Tuttavia il persistere di un dibattito sulla legalizzazione e sul concetto di “leggere” ha come conseguenza una importante sottovalutazione del fenomeno e delle sue conseguenze. A volte anche nelle stesse famiglie: «nostro figlio si fa ogni tanto una canna…».

Come possono i genitori rendersi conto che i propri figli hanno problemi di dipendenza? Quali sono i “campanelli di allarme”? Quali i consigli vi sentite di dare loro?

Non è facile per una famiglia accorgersi in tempo che il proprio figlio, il proprio fratello o marito o moglie .. ha iniziato a fare uso di droghe. Ed è ancora più difficile accettare l’idea che questo sia avvenuto. Spesso la notizia è un fulmine a ciel sereno. Purtroppo le famiglie che decidono subito di consultare qualcuno che sappia indicare il giusto comportamento sono relativamente poche. Per disinformazione, per vergogna o per sbagliato senso di protezione, per sopravvalutazione delle proprie forze o sottovalutazione del problema, passa purtroppo un lungo periodo prima che qualcuno della famiglia decida di chiedere aiuto e consigli fuori dalle mura domestiche. La famiglia deve prestare particolare attenzione al comportamento del figlio, specialmente se osserva dei cambiamenti netti (rendimento scolastico, rapporto con i familiari, relazioni con gli altri, interessi). Se ci troviamo di fronte ad un progressivo ed indubbio mutamento del comportamento, con buona probabilità si sta osservando la presenza di un disagio importante che richiede l’intervento di uno specialista. Per aiutare l’adolescente ad accettare l’aiuto di uno specialista è opportuno non focalizzarsi tanto e solo sulla dannosità del “farsi le canne”, cosa che produrrebbe incomprensione e conseguente chiusura, bensì focalizzarsi sul malessere evidente (tristezza, chiusura verso gli altri, senso di inadeguatezza). Il nostro “sportello famiglia” è sempre aperto: basta rivolgersi alla sede di P.zza dei Servi (0573/368701), anche scrivendo a primicolloqui@ceispt.org, o ad una delle tre comunità terapeutiche, i cui riferimenti sono facilmenti reperibili sul sito: www.ceispt.org .

Quali sono, in base alla vostra esperienza, le problematiche più urgenti da affrontare?

Credo che abbiamo oggi di fronte tre ambiti principali di impegno:

  1. sviluppare maggiormente l’azione di prevenzione e contrasto alle dipendenze, tenendo anche conto delle sue nuove forme quali, ad esempio, il gioco d’azzardo.
  2. rafforzare il lavoro sulla fascia di età “minori – giovani adulti”, fortemente in fase di crescita nell’uso di sostanze psico attive, compreso lo stesso alcool.
  3. trovare nuove forme di alleanza con tutte le “agenzie” formativo-educative, a partire dalla famiglia.

È urgente la necessità di organizzare campagne di informazione e prevenzione; a questo proposito il Ceis come opera sul territorio?

In ambito territoriale della Provincia di Pistoia non esiste al momento un sistema pubblico e strutturato di sensibilizzazione e formazione di giovani adolescenti e delle famiglie. Il Ceis da anni, tuttavia, svolge interventi significativi di informazione – sensibilizzazione nelle scuole secondarie superiori; interventi che necessitano, ovviamente, di una loro sistematizzazione e generalizzazione a tutti gli Istituti scolastici superiori presenti sul territorio, nonché un pieno coinvolgimento delle famiglie, che costituiscono a nostro avviso -voglio ripetere- una delle “agenzie” primarie di formazione, prevenzione e contrasto a stili di vita scorretti.

In tal senso il Ceis si sta attivando per mettere a punto un nuovo progetto più generale di prevenzione, da attivare già dal prossimo anno scolastico.

A tal proposito vorrei tuttavia sottolineare come la problematica “prevenzione” continui ad essere scarsamente considerata a livello istituzionale: da anni non esiste più in Italia un “Fondo antidroga” e che ogni Regione ha un approccio diverso sul tema e, purtroppo, senza un progetto sistematico ed uniforme per la prevenzione. Senza di essa e senza un investimento serio, semplicemente non c’è futuro, né speranza in una progressiva evoluzione a favore del benessere dei nostri ragazzi.




In Italia crescono dipendenze e consumo di droga

Il 26 giugno è la giornata mondiale contro la droga. Il CEIS di Pistoia, da decenni impegnato nel contrasto alle dipendenze e in percorsi di accompagnamento e recupero, rilancia il comunicato redatto dalla FICT (Federazione Italiana Comunità di Recupero) per questa giornata di sensibilizzazione.

«Secondo la relazione europea sulla droga 2018, l’Italia è il terzo paese europeo per uso della cannabis e ottiene il quarto posto per l’uso di cocaina. I dati dell’Osservatorio europeo corrispondono purtroppo alle stime rilevate dall’Osservatorio dati dei Centri federati alla FICT nell’anno 2017: su oltre 9.858 persone accolte, circa il 50% degli ospiti risulta aver iniziato con la cannabis, circa il 24% con la cocaina, a seguire  l’eroina e altre sostanze…».

«Tutti gli esperti del settore – afferma Luciano Squillaci, Presidente FICT – manifestano una crescente preoccupazione verso il mondo digitale ed il mercato online perché difficilmente controllabile: sono 270 mila ragazzi a rischio dipendenza da internet. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, ultimamente, ha riconosciuto ufficialmente la dipendenza da videogame come una patologia:  il “gaming disorder”,  il quale  è stato inserito nel capitolo sulle patologie mentali. I più coinvolti sono gli adolescenti dai 12 ai 15, 16 anni.

 Corriamo il pericolo di non saper leggere e monitorare il disagio dei nostri ragazzi con una politica che sembra abbia abdicato al proprio ruolo, normalizzando l’abuso di sostanze e le dipendenze come un male necessario del nostro tempo, magari costruendoci sopra business interessanti, come nel caso del gioco d’azzardo.

Strategie politiche inesistenti, problemi di budget che rendono difficoltoso il diritto alla cura (solo l’11% dei tossicodipendenti hanno la possibilità di accedere ad una comunità terapeutica), investimenti nella prevenzione ridotti zero.

Ci vuole una scelta coraggiosa, – afferma Squillaci – che rimetta al centro del dibattito la persona con i suoi bisogni. È necessario che il Governo nazionale e quello regionale si prendano realmente carico del problema, con investimenti adeguati al reale fabbisogno, a cominciare dai percorsi di prevenzione strutturati all’interno delle scuole e nei luoghi di aggregazione giovanili. Occorre fermarsi e ridisegnare il modello, innovare, ricostruire il sistema di cura, fondando gli interventi sulle evidenze scientifiche che in questi anni sono state validate, uscendo dalle logiche auto-riproduttive e salvifiche ormai appartenenti ad un passato remoto. Ed occorre farlo subito».

 «Fino a 30 anni fa -dice Squillaci- ancora si parlava di eroinomani, persone che volevano stare “fuori dal gruppo”. Poi, dagli anni ‘90, abbiamo avuto la diffusione della cocaina e delle droghe “ricreative”, quelle che servivano per uno scopo opposto, che miglioravano la perfomance, e consentivano di “stare nel gruppo”.

Negli ultimi 15 anni abbiamo: da una parte, il boom delle NPS (nuove sostanze psicoattive), delle droghe sintetiche, degli psicofarmaci; e dall’altra l’aumento esponenziale delle dipendenze “comportamentali”, quelle senza sostanza, come il gioco d’azzardo o le psicosi da internet dipendenza. Eppure, nonostante questa costante evoluzione, il sistema italiano di contrasto e cura è rimasto fermo al modello classico, pensato e costruito per l’eroina, disegnato da una normativa, il DPR 309/90, di quasi 30 anni fa. Non è un caso che sui 140mila tossicodipendenti in trattamento, 120mila abusano di eroina quale sostanza primaria. Il nostro modello di cura, ormai vetusto e ancora fondato sulla sostanza, invece che sulla persona, non è più capace di rispondere con efficacia ad un’epidemia in preoccupante e costante aumento. È come se si volesse curare ancora oggi la tubercolosi con i sanatori, o la peste con i salassi».

Info: comunicazione@fict.it

(comunicato)




MONS. TARDELLI: PER LA DIFESA DI OGNI VITA INNOCENTE

Nella recente esortazione di Papa Francesco “Gaudete et exultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, trovo al n.101: «La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù e in ogni forma di scarto».

Affermazioni chiare e precise che vanno a correggere quello strabismo di cui spesso soffriamo per il quale finiamo pure per contrapporci all’interno della stessa chiesa. La difesa e la promozione della vita umana, dal momento del concepimento e per tutte le fasi della vita, fino alla sua naturale conclusione è compito imprescindibile per chi voglia dare ancora un senso alla parola umanità e tanto più per un cristiano.

Dispiace profondamente allora sentir parlare dell’aborto come un diritto ed è triste vedere l’esultanza di chi gode per la vittoria dei sì all’abrogazione del divieto d’aborto in Irlanda o per la introduzione della legge 194 in Italia, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario. Non prima di tutto però, perché si è modificato l’ordinamento giuridico che influisce sempre sul vivere civile, ma perché non è difficile scorgere dietro tutto questo l’idea di un diritto che non è tale, bensì prevaricazione del più forte contro il diritto del più debole, di chi viene considerato un “non-uomo” ma solo un grumo di sangue.

Fa però ugualmente dispiacere e dispiacere profondo vedere le persone senza lavoro o con un lavoro precario, non sano, pericoloso, mal retribuito e da schiavi; vedere licenziare persone solo per fare più profitto; registrare così spesso incidenti sul lavoro che non possono essere attribuiti frettolosamente alla disattenzione dei lavorati; come fa piangere il cuore vedere una società che scarta le persone, che rifiuta i migranti, che abbandona o maltratta i vecchi. Nell’ingiustizia sociale si manifesta una radicale offesa della persona umana e del suo creatore che l’ha voluta con una dignità inalienabile, a sua immagine e somiglianza.

Fausto Tardelli, vescovo




IL FENOMENO DELLE MIGRAZIONI CON GLI OCCHI DELLA FEDE

ROMA – «Venticinque anni fa, la Commissione ecclesiale per le migrazioni pubblicava il documento Ero forestiero e mi avete ospitato, interpretando e accompagnando il fenomeno dell’immigrazione nei suoi inizi e sviluppi in Italia “con gli occhi della fede”. A venticinque anni di distanza avvertiamo la necessità, come pastori, di condividere una riflessione sul tema dell’immigrazione». Così i vescovi italiani si rivolgono alle comunità cristiane, nella lettera pubblicata lo scorso 20 maggio, che ricorda i venticinque anni del documento scritto nel pieno della prima grande crisi migratoria nel cuore del mediterraneo.

«L’immigrazione nel 1993 era un fenomeno “nuovo” ed emergente – si legge nel documento – di cui non si riusciva ancora a cogliere le dimensioni e le prospettive. Secondo i dati del Ministero dell’Interno gli immigrati regolari in Italia erano infatti 987.405, in maggioranza europei dell’Unione Europea e dell’Europa orientale». Oggi il totale dei migranti supera i 5 milioni, di cui, va detto, oltre la metà è rappresentato da donne, bambini e minori non accompagnati. Una semplice rassegna dei dati può smontare alcuni luoghi comuni e mettere a fuoco il fenomeno migratorio.

Chi sono i migranti presenti nel nostro paese? Forse sorprende sapere che oltre il 50% dei migranti proviene principalmente dall’Europa Centro-Orientale; capolista la Romania con il  22,9% del totale e a seguire Albania, Marocco, Cina e Ucraina. La nota della CEI ci illustra altri dati significativi: «Nel 2016 circa 24.000 sono stati i matrimoni misti o tra immigrati (14,1% del totale dei matrimoni); 72.000 i nuovi nati da famiglie straniere (14,8% sul totale)». Numeri importanti che rivelano, per contrasto, la flessione di matrimoni e nascite in un paese sempre più vecchio.

E i rifugiati e richiedenti asilo? «Alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti».

Se i migranti crescono, occorre tenere presente anche gli italiani hanno lasciato il paese con una cifra in costante aumento. In 25 anni circa 5 milioni sono emigrati, raggiungendo il numero dei nuovi arrivati.

I Vescovi italiani – negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 – hanno ricordato che il fenomeno delle migrazioni è «senza dubbio una delle più grandi sfide educative».  D’altra parte non si possono negare le criticità di un contesto socio economico per niente roseo in cui «l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese». Eppure, affermano i vescovi «l’opera educativa deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione».

«Riconosciamo – si legge nel documento – che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose».

Allo stesso tempo, si precisa nel documento che «il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente». Non è pensabile leggere il fenomeno migratorio senza questo sguardo globale, in cui molti fattori dell’immigrazione sono frutto di scelte politiche ed economiche discutibili dei paesi più ricchi. «Occorre dunque – è uno dai passi più forti del documento – pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente, ovunque si trovino, poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani».

Le migrazioni, d’altra parte sono un inequivocabile segno dei tempi. «Leggere le migrazioni come “segno dei tempi”» e un presupposto necessario che chiede «uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno». La lettura della realtà invita a comprendere che non c’è altra via rispetto all’integrazione; un obiettivo che il documento propone di raggiungere a tappe.

  1. Dalla paura …all’incontro

Il primo passo è individuato nel primo incontro, dove ci si deve confrontare con la diversità. Ed è in questa diversità che emerge la paura: «la mia paura e quella che prova lo straniero. La sua paura – si precisa nella nota– è quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. La mia è quella di ritrovarmi di fronte ad uno sconosciuto che è entrato nella “mia” terra, che è presente nel “mio” spazio e che, nonostante sia solo, mi lascia intravvedere che forse molti altri lo seguiranno». «Queste paure sono legittime, – ha ricordato recentemente papa Francesco – Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto».

Per passare dalla paura all’incontro occorre intraprendere «un cammino esigente e a volte faticoso a cui le nostre comunità non possono sottrarsi, ne va della nostra testimonianza evangelica. Si tratta di riconoscere l’altro nella sua singolarità, dignità, valore umano inestimabile e desiderare di fargli posto, di accettarlo. Tutto ciò senza rinnegare la nostra cultura e le nostre tradizioni, ma riconoscendo che ve ne sono altre ugualmente degne».

  1. Dall’incontro …alla relazione

Solo «da un incontro vero nasce la relazione e il dialogo (…) Un dialogo che non ha come fine l’uniformità, ma il camminare insieme, il ricercare un “consenso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. È nel dialogo, allora, che si modificano i pregiudizi, le immagini, gli stereotipi (…) siamo interrogati sulle nostre certezze e sulla nostra identità». Le reazioni di rigetto che talvolta suscita l’immigrazione, in altre parole, non fa altro che mettere in luce «un atteggiamento presente nelle società occidentali e che non le è direttamente connesso: il crescente individualismo».

  1. Dalla relazione… all’interazione

Il passaggio più difficile è l’ultima tappa del cammino: l’integrazione, ovvero «un processo che non assimila, non omologa, ma riconosce e valorizza le differenze; che ha come obiettivo la formazione di società plurali in cui vi è riconoscimento dei diritti, in cui è permessa la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità». Un passaggio in cui la Chiesa non può certamente fare tutto, ma può accompagnare, sussidiariamente, lo Stato e le istituzioni internazionali.




MONS. TARDELLI A ROMA PER L’ASSEMBLEA GENERALE CEI

Si svolge a Roma in questi giorni (21-24 maggio) la 71a Assemblea Generale della CEI.

Anche Mons. Fausto Tardelli è impegnato con gli altri vescovi italiani nei lavori che quest’anno si concentrano attorno al tema: Quale presenza ecclesiale nell’attuale contesto comunicativo.
Una sessione sarà dedicata all’aggiornamento del Decreto generale concernente “Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza”; sono quindi previste alcune determinazioni in materia giuridico-amministrativa, tra cui la presentazione e l’approvazione della ripartizione delle somme derivanti dall’8xmille per l’anno 2018.

L’apertura dei lavori è stata affidata a Papa Francesco, che ieri, 21 maggio, incontrando i vescovi italiani ha rivolto un discorso breve e diretto su tre “preoccupazioni” che riproponiamo nella sintesi resa nota dalla CEI.

«Prima preoccupazione: la crisi delle vocazioni. “È in gioco la nostra paternità – ha detto Francesco -. È il frutto avvelenato della cultura del provvisorio e del relativismo, legata anche al calo delle nascite e agli scandali”. “È triste – ha aggiunto – vedere questa terra fertile e generosa di vocazioni entrare in una sterilità vocazionale senza trovare rimedi efficaci”.
Perché non pensare – ha suggerito – ad una più concreta e generosa condivisione fidei donum anche tra le diocesi italiane? Siete capaci di fare questo?”.
Seconda preoccupazione: povertà evangelica e trasparenza. “La povertà è madre della vita apostolica e muro che la protegge. Senza povertà non c’è servizio. Chi crede non può parlare di povertà e vivere come un faraone, conducendo una vita di lusso o gestendo i beni della Chiesa come fossero i propri”.
“Abbiamo il dovere – ha affermato Francesco – di gestire i beni con esemplarità, attraverso regole chiare e comuni. Nella CEI si è fatto molto in questi anni, ma si può fare ancora di più”.
Terza preoccupazione: riduzione e accorpamento delle diocesi. Papa Francesco ha ricordato di averne parlato già a maggio del 2013. “Si tratta – ha detto – di una esigenza pastorale studiata ed esaminata più volte. Già Paolo VI nel ‘64 e nel ‘66 aveva parlato di numero eccessivo delle diocesi. Un argomento datato e attuale, trascinato per troppo tempo. È ora di fare quello che è possibile fare”.
“Ora lascio a voi la parola – ha concluso il Pontefice – e vi ringrazio per la vostra parresia”.

Il dialogo è proseguito poi a porte chiuse, alla presenza del Papa e dei Vescovi solamente».

La relazione finale sui lavori di questa settimana sarà presentata dal Cardinale Gualtiero Bassetti, presidente CEI giovedì 24 maggio.

(ucs)




IL 21 MAGGIO È LA MEMORIA LITURGICA DI MARIA MADRE DELLA CHIESA

Segnaliamo al link che segue i testi liturgici ufficiali pubblicati dalla CEI per la memoria obbligatoria di Maria Madre della Chiesa, in vigore già da quest’anno liturgico.
La memoria cade il lunedì dopo la Pentecoste.

 

Testi per la celebrazione della nuova memoria di Maria Madre della Chiesa

Le memoria di Maria Madre della Chiesa è stata fortemente voluta da Papa Francesco ed è stata ufficializzata con Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 3 marzo ultimo scorso. Qui si legge che:

«Il Sommo Pontefice Francesco, considerando attentamente quanto la promozione di questa devozione possa favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei Pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana, ha stabilito che la memoria della beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, sia iscritta nel Calendario Romano nel Lunedì dopo Pentecoste e celebrata ogni anno.

Questa celebrazione ci aiuterà a ricordare che la vita cristiana, per crescere, deve essere ancorata al mistero della Croce, all’oblazione di Cristo nel convito eucaristico, alla Vergine offerente, Madre del Redentore e dei redenti».

Nel commento al Decreto da parte del prefetto della Congregazione per il Culto Divino, il Card. Robert Sarah, è ulteriormente spiegato il senso di questa memoria liturgica:

«Considerando l’importanza del mistero della maternità spirituale di Maria, che dall’attesa dello Spirito a Pentecoste (cf. At 1, 14), non ha mai smesso di prendersi maternamente cura della Chiesa pellegrina nel tempo, Papa Francesco ha stabilito che, il Lunedì dopo Pentecoste, la memoria di Maria Madre della Chiesa sia obbligatoria per tutta la Chiesa di Rito Romano. È evidente il nesso tra la vitalità della Chiesa della Pentecoste e la sollecitudine materna di Maria nei suoi confronti. Nei testi della Messa e dell’Ufficio il testo di At 1,12-14 illumina la celebrazione liturgica, come anche Gen 3, 9-15.20, letto alla luce della tipologia della nuova Eva, costituita “Mater omnium viventium” sotto la croce del Figlio Redentore del mondo.

L’auspicio è che questa celebrazione, estesa a tutta la Chiesa, ricordi a tutti i discepoli di Cristo che, se vogliamo crescere e riempirci dell’amore di Dio, bisogna radicare la nostra vita su tre realtà: la Croce, l’Ostia e la Vergine – Crux, Hostia et Virgo. Questi sono i tre misteri che Dio ha donato al mondo per strutturare, fecondare, santificare la nostra vita interiore e per condurci verso Gesù Cristo. Sono tre misteri da contemplare in silenzio (R. Sarah, La forza del silenzio, n. 57)».




ENZO BIANCHI A PISTOIA: DOVE VA LA CHIESA DI FRANCESCO?

Il Centro culturale Maritain – promosso nel 1977 dalla Chiesa di Pistoia come luogo di approfondimento sui problemi della fede cristiana all’incrocio con società e cultura contemporanea – propone quest’anno l’incontro con una figura amica e ormai nota anche fuori dagli ambienti ecclesiali: il fondatore della comunità di Bose e consultore del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani Enzo Bianchi.

Come già in diverse città italiane, egli verrà anche a Pistoia a proporre la sua analisi sul momento cruciale che la Chiesa cattolica sta vivendo con il pontificato di papa Francesco. Un papa che si è distinto per l’umanità dei suoi gesti, per la novità del suo stile, per la scommessa di presentare un volto di Chiesa che ascolta, dialoga con le altre religioni e con chi non crede, che si confronta sui temi della povertà, del lavoro, dell’ambiente.

Un messaggio che ha incontrato molto favore ma anche innescato discussioni e opposizioni dentro e fuori la Chiesa. 

Lo stesso Bianchi alcuni mesi addietro segnalava con preoccupazione la presenza nella Chiesa di conflitti «tra visioni opposte della collocazione della Chiesa nella compagnia degli uomini, tra strategie pastorali, tra modalità differenti di interpretare la fede, di concepire la liturgia», invitando a una riflessione che conduca alla «formazione di un’opinione pubblica ecclesiale animata da volontà di comunione».

Il Centro Maritain intende offrire un’opportunità di ripensamento e di dibattito su questi temi non solo in ambito ecclesiale ma a tutti i cittadini di Pistoia, nella convinzione che il messaggio e la realtà della Chiesa interessino tanto coloro che si dichiarano credenti quanto chiunque abbia a cuore la costruzione di società sempre più umane e vivibili per le presenti e le future generazioni.

M.M




NEL RICORDO DI DON TONINO PER DIVENTARE «UNA CHIESA COL GREMBIULE»

Mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio, racconta don Tonino Bello

Papa Francesco si è recato in visita ad Alessano e Molfetta in ricordo del servo di Dio Don Tonino Bello per il 25esimo anniversario della morte. Per l’occasione abbiamo voluto incontrare il vescovo di Cassano allo Jonio Mons. Francesco Savino per parlare di questo importante evento e riscoprire il carisma di Don Tonino Bello.

Eccellenza, mi è capitato di leggere un suo scritto dove sottolineava questo aspetto: «Nessuno si aspetti di trovare in Don Tonino qualche segno dei talenti soprannaturali di un oracolo: rimarrà deluso dal Tonino che si incontrava dal barbiere, oppure si incrociava in giro con la sua utilitaria o a piedi per le vie del paese». Cosa le è rimasto più impresso di questo suo vivere nella normalità di tutti i giorni in mezzo alla gente?

La grandezza di don Tonino consisteva nel vivere le relazioni sempre in modo bello, positivo, costruttivo. Era un “volto rivolto”. Faceva del volto dell’altro l’epifania del mistero della vita. Non era prigioniero del suo ruolo, era innamorato di Gesù e vedeva Gesù nell’incontro con l’altro, specialmente quando l’altro si manifestava nella fragilità, nell’impoverimento, nella problematicità. Non cedeva mai alla tentazione della disperazione e dello sconforto. Anche nei suoi ultimi giorni di vita, il suo volto consumato irradiava luce. Era  trasfigurato dall’incontro con Cristo, innamorato di Gesù risorto. Ogni persona che incontrava lo avvertiva e veniva “contagiato”.

Come ha conosciuto don Tonino? Quando è stato importante per la sua vita e il suo ministero?

Don Tonino è stato vescovo della diocesi di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi-Ruvo di Puglia, località assai vicine a Bitonto, la città dove vivevo, che è di un’altra diocesi. Da giovane prete avevo sentito parlare di lui e spesso andavo alle sue catechesi con alcuni giovani; poi l’ho incontrato, mi sono avvicinato a lui, gli sono stato accanto quanto potevo. Don Tonino ha contribuito ad alimentare, nei miei anni giovanili, la passione per il Vangelo, l’entusiasmo e la gioia. Sono stato attratto dall’intensità del suo rapporto con Cristo che viveva da innamorato. Egli ha sostenuto ed incoraggiato i miei primi passi di ministero sacerdotale.

Quando ho ricevuto la consacrazione episcopale, ho preso  don Tonino come punto di riferimento. Egli mi aveva regalato il diario di Oscar Romero con una  dedica brevissima che dice: «a don Ciccio… un vescovo fatto popolo». Quel dono, per la definizione che richiama sul vescovo Romero, è  per me una specie di vademecum.

Ha avuto occasione di definire don Tonino un «profeta della vita» il «Vescovo col grembiule»: da dove nascono queste definizioni?

«Profeta della vita» per tre motivi: perché “visse dentro”, fu un grande contemplativo, un uomo spirituale; “vide insieme”, e fu quindi uomo di grande comunione, che per lui non era omologazione e appiattimento, ma convivialità delle differenze; «profeta della vita» perché “vide oltre”. Il suo sguardo configurato a Cristo gli consentiva di abitare il dolore, la sofferenza; sapeva sempre stare dentro le piaghe della storia e andare oltre. Visse dentro, vide con, vide oltre: per questo per me è stato un profeta. Riconduceva ogni esperienza alla contemplazione e, al tempo stesso, ciò che contemplava era vita. È stato profeta della vita perché don Tonino non fuggiva mai dalla vita, la viveva a pieno, dava sempre alla vita – mi vengono in mente, ad esempio le lettere che scrisse al fratello carcerato, al fratello marocchino – un orizzonte di senso.

Venerdì 20 aprile Papa Francesco si è recato ad Alessano in Puglia per visitare la tomba del servo di Dio Don Tonino Bello.  Cosa pensa di questo atto di affetto del papa verso Don Tonino?

Papa Francesco in Puglia, sui luoghi di Ton Tonino, ha recato il lieto annuncio del messaggero del Signore e richiamato la memoria della cara esistenza di un vescovo che vive in eterno. Io sono stato a Molfetta come nel giorno del suo funerale, quando fui sopraffatto dalle lacrime, come tanti: una folla numerosissima piangeva la perdita un fratello maggiore. Eppure venivano in mente a tutti le parole che spesso don Tonino ripeteva quando ci vedeva smarriti: «La notte è buia… ma osiamo l’aurora!”.

Nel pontificato di Papa Francesco possiamo forse riconoscere dei tratti tipici di Don Tonino..

Io penso che l’episcopato di don Tonino abbia molte affinità con il pontificato di Francesco. Chiesa con il grembiule che serve e non si serve dei poveri, senza escludere nessuno, Chiesa in uscita e ospedale da campo, Chiesa che fa degli scartati le sue pietre angolari sono alcune delle espressioni comuni ai due. Quello che li accomuna mi pare sia soprattutto la dimensione contemplativa. Tra papa Francesco e don Tonino ci sono affinità nello stile pastorale, nella teologia, nella sensibilità. Appartengono entrambi alla stagione ecclesiale del Concilio Vaticano II.

Forse si possono definire entrambi profeti di questo tempo: profeti di pace e misericordia..

Indubbiamente sì. Don Tonino Bello ha manifestato la sua dimensione profetica. Fuggiva dai riflettori, fuggiva il consenso. Oggi tutti parlano di lui, ma è stato segno di rottura con i poteri forti. Sulla pace è stato anche incompreso. Don Tonino ci ha educato a maturare una coscienza di pace e uno stile di mitezza. Era davvero  un mite che ha vissuto la pace come segno pasquale. “Pace” è, infatti, la prima parola del Risorto quando si ferma in mezzo ai discepoli.

Sono molti gli scritti che racchiudono il cuore e l’anima di Don Tonino Bello: può suggerirne qualcuno a chi intendesse conoscere questa figura?

Il modo migliore per conoscere don Tonino è leggere per intero l’opera omnia. Tutti i suoi scritti sono ricchissimi: mi viene in mente il suo libro sulla Madonna, donna del terzo giorno, ma consiglio di leggere anche le sue riflessioni sulla politica in Mistica arte. Lettere sulla politica, La meridiana. Egli definiva la politica come “mistica arte” senza separarla dalla spiritualità, perché ogni agire politico fosse finalizzato al bene comune fuori dalle logiche di tornaconto personale.

La sua causa di beatificazione si avvia alla conclusione?

Non conosco il punto dell’iter. Sappiamo tutti che il postulatore è morto improvvisamente qualche anno fa. Ma sono convinto che, per papa Francesco, don Tonino sia già santo e che la Chiesa presto lo riconoscerà tale. Dal “Diario di un curato di campagna” di Bernanos riprendo l’espressione conclusiva: «tutto è grazia». Ecco, don Tonino per me è stato ed è una grazia.

Daniela Raspollini




DIACONI: CUSTODI NEL SERVIZIO DELLA CHIESA

Riapre in diocesi il cammino per il diaconato permanente

La conferenza episcopale toscana ha redatto un nuovo documento sul diaconato permanente: «Custodi nel servizio della Chiesa. Orientamenti e norme per il diaconato permanente nelle chiese toscane» (novembre 2017).

Il testo è stato presentato giovedì 12 aprile dal vescovo Fausto Tardelli in occasione dell’incontro mensile con il clero diocesano.

Non si tratta di un documento dottrinale, ma di un testo che vuole essere concreto e attento alle mutate esigenze della realtà e che nella diocesi di Pistoia accompagna anche la riapertura del cammino al diaconato permanente dopo diversi anni di stop.

Nel documento, dopo una premessa sul carisma diaconale, vengono offerti alcuni orientamenti pastorali sul discernimento vocazione e la formazione; seguono alcune indicazioni relative all’esercizio del ministero diaconale.

Il testo evidenzia il carisma proprio dei diaconato che esprime la rappresentanza di Cristo in quanto servo. L’animazione della diaconia è un carisma. Proprio perché tutto il popolo cristiano viva la diaconia i candidati andranno individuati tra coloro che già la svolgono e mostrano una disponibilità al servizio. Per questo ogni candidatura dovrà fiorire all’interno di una comunità cristiana. Una valutazione speciale sarà poi riservata alla famiglia qualora il candidato sia coniugato. L’età minima per accedere alla formazione è per i coniugati 31 anni; 21 per i celibi.

Un capitolo importante riguarda la formazione, che pure -cosi come per il clero- non si esaurisce con l’ordinazione, ma è inserita in un cammino di formazione permanente. In merito si richiede un percorso di tre anni escluso l’anno propedeutico. La formazione al diaconato prevede infatti, un anno propedeutico dedicato al discernimento e alla formazione di base, così come richiesto anche a chi acceda al seminario in vista dell’ordinazione sacerdotale.

La formazione si articola in: umana, spirituale, teologica e pastorale.
Una particolare attenzione deve essere riservata anche alla famiglia qualora il diacono sia sposato.

Si richiede anche una solida preparazione intellettuale. Prioritariamente il piano degli studi dovrà avvalersi dove è possibile, degli Istituti di Scienze Religiose attraverso un triennio dilazionabile nel tempo in base alle esigenze personali del candidato. Occorre, comunque, essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore.

La formazione del diacono si apre anche alla missionarietà, secondo quanto indicato in Evangelii Gaudium. I diaconi, infatti, si caratterizzano come avanguardie.di una Chiesa in uscita. La loro formazione deve puntare anche alla «capillarità», perché il ministero sia diffuso nel territorio, particolarmente dove, in genere, la pastorale ordinaria non arriva. Il delegato episcopale, dovrà seguire il discernimento del candidato al diaconato.

La terza parte del documento precisa il ruolo del tutto speciale del diaconato nella conversione missionaria della Chiesa. Anche la chiesa di Pistoia è orientata ad aprirsi sempre più alla missione. Su questo impegno si concentrerà a partire dal triennio 2020-2023.

Il diacono è chiamato ad operare nelle diverse pastorali di ambiente: lavoro, scuola, carcere, sanità…, secondo la triplice forma in cui si esprime la diaconia: liturgia, predicazione e carità (LG 29).

L’ultimo capitolo del documento è dedicato a obblighi e diritti del diacono richiamandone alcune peculiarità: incardinazione, missione canonica.
Laddove ci sia l’esigenza il diacono potrà svolgere una funzione di supplenza nelle parrocchie. Il sacerdote potrà quindi rivestire la funzione di moderatore pastorale, mentre il diacono ricevere l’incarico di cura pastorale. Nel loro servizio, inoltre, i diaconi possono anche essere destinati alla cura delle comunità cristiane disperse.

Chi volesse saperne di più è invitato a contattare il proprio parroco.

(ucs)