MONS. TARDELLI A ROMA PER L’ASSEMBLEA GENERALE CEI

Si svolge a Roma in questi giorni (21-24 maggio) la 71a Assemblea Generale della CEI.

Anche Mons. Fausto Tardelli è impegnato con gli altri vescovi italiani nei lavori che quest’anno si concentrano attorno al tema: Quale presenza ecclesiale nell’attuale contesto comunicativo.
Una sessione sarà dedicata all’aggiornamento del Decreto generale concernente “Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza”; sono quindi previste alcune determinazioni in materia giuridico-amministrativa, tra cui la presentazione e l’approvazione della ripartizione delle somme derivanti dall’8xmille per l’anno 2018.

L’apertura dei lavori è stata affidata a Papa Francesco, che ieri, 21 maggio, incontrando i vescovi italiani ha rivolto un discorso breve e diretto su tre “preoccupazioni” che riproponiamo nella sintesi resa nota dalla CEI.

«Prima preoccupazione: la crisi delle vocazioni. “È in gioco la nostra paternità – ha detto Francesco -. È il frutto avvelenato della cultura del provvisorio e del relativismo, legata anche al calo delle nascite e agli scandali”. “È triste – ha aggiunto – vedere questa terra fertile e generosa di vocazioni entrare in una sterilità vocazionale senza trovare rimedi efficaci”.
Perché non pensare – ha suggerito – ad una più concreta e generosa condivisione fidei donum anche tra le diocesi italiane? Siete capaci di fare questo?”.
Seconda preoccupazione: povertà evangelica e trasparenza. “La povertà è madre della vita apostolica e muro che la protegge. Senza povertà non c’è servizio. Chi crede non può parlare di povertà e vivere come un faraone, conducendo una vita di lusso o gestendo i beni della Chiesa come fossero i propri”.
“Abbiamo il dovere – ha affermato Francesco – di gestire i beni con esemplarità, attraverso regole chiare e comuni. Nella CEI si è fatto molto in questi anni, ma si può fare ancora di più”.
Terza preoccupazione: riduzione e accorpamento delle diocesi. Papa Francesco ha ricordato di averne parlato già a maggio del 2013. “Si tratta – ha detto – di una esigenza pastorale studiata ed esaminata più volte. Già Paolo VI nel ‘64 e nel ‘66 aveva parlato di numero eccessivo delle diocesi. Un argomento datato e attuale, trascinato per troppo tempo. È ora di fare quello che è possibile fare”.
“Ora lascio a voi la parola – ha concluso il Pontefice – e vi ringrazio per la vostra parresia”.

Il dialogo è proseguito poi a porte chiuse, alla presenza del Papa e dei Vescovi solamente».

La relazione finale sui lavori di questa settimana sarà presentata dal Cardinale Gualtiero Bassetti, presidente CEI giovedì 24 maggio.

(ucs)




IL 21 MAGGIO È LA MEMORIA LITURGICA DI MARIA MADRE DELLA CHIESA

Segnaliamo al link che segue i testi liturgici ufficiali pubblicati dalla CEI per la memoria obbligatoria di Maria Madre della Chiesa, in vigore già da quest’anno liturgico.
La memoria cade il lunedì dopo la Pentecoste.

 

Testi per la celebrazione della nuova memoria di Maria Madre della Chiesa

Le memoria di Maria Madre della Chiesa è stata fortemente voluta da Papa Francesco ed è stata ufficializzata con Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 3 marzo ultimo scorso. Qui si legge che:

«Il Sommo Pontefice Francesco, considerando attentamente quanto la promozione di questa devozione possa favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei Pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana, ha stabilito che la memoria della beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, sia iscritta nel Calendario Romano nel Lunedì dopo Pentecoste e celebrata ogni anno.

Questa celebrazione ci aiuterà a ricordare che la vita cristiana, per crescere, deve essere ancorata al mistero della Croce, all’oblazione di Cristo nel convito eucaristico, alla Vergine offerente, Madre del Redentore e dei redenti».

Nel commento al Decreto da parte del prefetto della Congregazione per il Culto Divino, il Card. Robert Sarah, è ulteriormente spiegato il senso di questa memoria liturgica:

«Considerando l’importanza del mistero della maternità spirituale di Maria, che dall’attesa dello Spirito a Pentecoste (cf. At 1, 14), non ha mai smesso di prendersi maternamente cura della Chiesa pellegrina nel tempo, Papa Francesco ha stabilito che, il Lunedì dopo Pentecoste, la memoria di Maria Madre della Chiesa sia obbligatoria per tutta la Chiesa di Rito Romano. È evidente il nesso tra la vitalità della Chiesa della Pentecoste e la sollecitudine materna di Maria nei suoi confronti. Nei testi della Messa e dell’Ufficio il testo di At 1,12-14 illumina la celebrazione liturgica, come anche Gen 3, 9-15.20, letto alla luce della tipologia della nuova Eva, costituita “Mater omnium viventium” sotto la croce del Figlio Redentore del mondo.

L’auspicio è che questa celebrazione, estesa a tutta la Chiesa, ricordi a tutti i discepoli di Cristo che, se vogliamo crescere e riempirci dell’amore di Dio, bisogna radicare la nostra vita su tre realtà: la Croce, l’Ostia e la Vergine – Crux, Hostia et Virgo. Questi sono i tre misteri che Dio ha donato al mondo per strutturare, fecondare, santificare la nostra vita interiore e per condurci verso Gesù Cristo. Sono tre misteri da contemplare in silenzio (R. Sarah, La forza del silenzio, n. 57)».




ENZO BIANCHI A PISTOIA: DOVE VA LA CHIESA DI FRANCESCO?

Il Centro culturale Maritain – promosso nel 1977 dalla Chiesa di Pistoia come luogo di approfondimento sui problemi della fede cristiana all’incrocio con società e cultura contemporanea – propone quest’anno l’incontro con una figura amica e ormai nota anche fuori dagli ambienti ecclesiali: il fondatore della comunità di Bose e consultore del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani Enzo Bianchi.

Come già in diverse città italiane, egli verrà anche a Pistoia a proporre la sua analisi sul momento cruciale che la Chiesa cattolica sta vivendo con il pontificato di papa Francesco. Un papa che si è distinto per l’umanità dei suoi gesti, per la novità del suo stile, per la scommessa di presentare un volto di Chiesa che ascolta, dialoga con le altre religioni e con chi non crede, che si confronta sui temi della povertà, del lavoro, dell’ambiente.

Un messaggio che ha incontrato molto favore ma anche innescato discussioni e opposizioni dentro e fuori la Chiesa. 

Lo stesso Bianchi alcuni mesi addietro segnalava con preoccupazione la presenza nella Chiesa di conflitti «tra visioni opposte della collocazione della Chiesa nella compagnia degli uomini, tra strategie pastorali, tra modalità differenti di interpretare la fede, di concepire la liturgia», invitando a una riflessione che conduca alla «formazione di un’opinione pubblica ecclesiale animata da volontà di comunione».

Il Centro Maritain intende offrire un’opportunità di ripensamento e di dibattito su questi temi non solo in ambito ecclesiale ma a tutti i cittadini di Pistoia, nella convinzione che il messaggio e la realtà della Chiesa interessino tanto coloro che si dichiarano credenti quanto chiunque abbia a cuore la costruzione di società sempre più umane e vivibili per le presenti e le future generazioni.

M.M




NEL RICORDO DI DON TONINO PER DIVENTARE «UNA CHIESA COL GREMBIULE»

Mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio, racconta don Tonino Bello

Papa Francesco si è recato in visita ad Alessano e Molfetta in ricordo del servo di Dio Don Tonino Bello per il 25esimo anniversario della morte. Per l’occasione abbiamo voluto incontrare il vescovo di Cassano allo Jonio Mons. Francesco Savino per parlare di questo importante evento e riscoprire il carisma di Don Tonino Bello.

Eccellenza, mi è capitato di leggere un suo scritto dove sottolineava questo aspetto: «Nessuno si aspetti di trovare in Don Tonino qualche segno dei talenti soprannaturali di un oracolo: rimarrà deluso dal Tonino che si incontrava dal barbiere, oppure si incrociava in giro con la sua utilitaria o a piedi per le vie del paese». Cosa le è rimasto più impresso di questo suo vivere nella normalità di tutti i giorni in mezzo alla gente?

La grandezza di don Tonino consisteva nel vivere le relazioni sempre in modo bello, positivo, costruttivo. Era un “volto rivolto”. Faceva del volto dell’altro l’epifania del mistero della vita. Non era prigioniero del suo ruolo, era innamorato di Gesù e vedeva Gesù nell’incontro con l’altro, specialmente quando l’altro si manifestava nella fragilità, nell’impoverimento, nella problematicità. Non cedeva mai alla tentazione della disperazione e dello sconforto. Anche nei suoi ultimi giorni di vita, il suo volto consumato irradiava luce. Era  trasfigurato dall’incontro con Cristo, innamorato di Gesù risorto. Ogni persona che incontrava lo avvertiva e veniva “contagiato”.

Come ha conosciuto don Tonino? Quando è stato importante per la sua vita e il suo ministero?

Don Tonino è stato vescovo della diocesi di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi-Ruvo di Puglia, località assai vicine a Bitonto, la città dove vivevo, che è di un’altra diocesi. Da giovane prete avevo sentito parlare di lui e spesso andavo alle sue catechesi con alcuni giovani; poi l’ho incontrato, mi sono avvicinato a lui, gli sono stato accanto quanto potevo. Don Tonino ha contribuito ad alimentare, nei miei anni giovanili, la passione per il Vangelo, l’entusiasmo e la gioia. Sono stato attratto dall’intensità del suo rapporto con Cristo che viveva da innamorato. Egli ha sostenuto ed incoraggiato i miei primi passi di ministero sacerdotale.

Quando ho ricevuto la consacrazione episcopale, ho preso  don Tonino come punto di riferimento. Egli mi aveva regalato il diario di Oscar Romero con una  dedica brevissima che dice: «a don Ciccio… un vescovo fatto popolo». Quel dono, per la definizione che richiama sul vescovo Romero, è  per me una specie di vademecum.

Ha avuto occasione di definire don Tonino un «profeta della vita» il «Vescovo col grembiule»: da dove nascono queste definizioni?

«Profeta della vita» per tre motivi: perché “visse dentro”, fu un grande contemplativo, un uomo spirituale; “vide insieme”, e fu quindi uomo di grande comunione, che per lui non era omologazione e appiattimento, ma convivialità delle differenze; «profeta della vita» perché “vide oltre”. Il suo sguardo configurato a Cristo gli consentiva di abitare il dolore, la sofferenza; sapeva sempre stare dentro le piaghe della storia e andare oltre. Visse dentro, vide con, vide oltre: per questo per me è stato un profeta. Riconduceva ogni esperienza alla contemplazione e, al tempo stesso, ciò che contemplava era vita. È stato profeta della vita perché don Tonino non fuggiva mai dalla vita, la viveva a pieno, dava sempre alla vita – mi vengono in mente, ad esempio le lettere che scrisse al fratello carcerato, al fratello marocchino – un orizzonte di senso.

Venerdì 20 aprile Papa Francesco si è recato ad Alessano in Puglia per visitare la tomba del servo di Dio Don Tonino Bello.  Cosa pensa di questo atto di affetto del papa verso Don Tonino?

Papa Francesco in Puglia, sui luoghi di Ton Tonino, ha recato il lieto annuncio del messaggero del Signore e richiamato la memoria della cara esistenza di un vescovo che vive in eterno. Io sono stato a Molfetta come nel giorno del suo funerale, quando fui sopraffatto dalle lacrime, come tanti: una folla numerosissima piangeva la perdita un fratello maggiore. Eppure venivano in mente a tutti le parole che spesso don Tonino ripeteva quando ci vedeva smarriti: «La notte è buia… ma osiamo l’aurora!”.

Nel pontificato di Papa Francesco possiamo forse riconoscere dei tratti tipici di Don Tonino..

Io penso che l’episcopato di don Tonino abbia molte affinità con il pontificato di Francesco. Chiesa con il grembiule che serve e non si serve dei poveri, senza escludere nessuno, Chiesa in uscita e ospedale da campo, Chiesa che fa degli scartati le sue pietre angolari sono alcune delle espressioni comuni ai due. Quello che li accomuna mi pare sia soprattutto la dimensione contemplativa. Tra papa Francesco e don Tonino ci sono affinità nello stile pastorale, nella teologia, nella sensibilità. Appartengono entrambi alla stagione ecclesiale del Concilio Vaticano II.

Forse si possono definire entrambi profeti di questo tempo: profeti di pace e misericordia..

Indubbiamente sì. Don Tonino Bello ha manifestato la sua dimensione profetica. Fuggiva dai riflettori, fuggiva il consenso. Oggi tutti parlano di lui, ma è stato segno di rottura con i poteri forti. Sulla pace è stato anche incompreso. Don Tonino ci ha educato a maturare una coscienza di pace e uno stile di mitezza. Era davvero  un mite che ha vissuto la pace come segno pasquale. “Pace” è, infatti, la prima parola del Risorto quando si ferma in mezzo ai discepoli.

Sono molti gli scritti che racchiudono il cuore e l’anima di Don Tonino Bello: può suggerirne qualcuno a chi intendesse conoscere questa figura?

Il modo migliore per conoscere don Tonino è leggere per intero l’opera omnia. Tutti i suoi scritti sono ricchissimi: mi viene in mente il suo libro sulla Madonna, donna del terzo giorno, ma consiglio di leggere anche le sue riflessioni sulla politica in Mistica arte. Lettere sulla politica, La meridiana. Egli definiva la politica come “mistica arte” senza separarla dalla spiritualità, perché ogni agire politico fosse finalizzato al bene comune fuori dalle logiche di tornaconto personale.

La sua causa di beatificazione si avvia alla conclusione?

Non conosco il punto dell’iter. Sappiamo tutti che il postulatore è morto improvvisamente qualche anno fa. Ma sono convinto che, per papa Francesco, don Tonino sia già santo e che la Chiesa presto lo riconoscerà tale. Dal “Diario di un curato di campagna” di Bernanos riprendo l’espressione conclusiva: «tutto è grazia». Ecco, don Tonino per me è stato ed è una grazia.

Daniela Raspollini




DIACONI: CUSTODI NEL SERVIZIO DELLA CHIESA

Riapre in diocesi il cammino per il diaconato permanente

La conferenza episcopale toscana ha redatto un nuovo documento sul diaconato permanente: «Custodi nel servizio della Chiesa. Orientamenti e norme per il diaconato permanente nelle chiese toscane» (novembre 2017).

Il testo è stato presentato giovedì 12 aprile dal vescovo Fausto Tardelli in occasione dell’incontro mensile con il clero diocesano.

Non si tratta di un documento dottrinale, ma di un testo che vuole essere concreto e attento alle mutate esigenze della realtà e che nella diocesi di Pistoia accompagna anche la riapertura del cammino al diaconato permanente dopo diversi anni di stop.

Nel documento, dopo una premessa sul carisma diaconale, vengono offerti alcuni orientamenti pastorali sul discernimento vocazione e la formazione; seguono alcune indicazioni relative all’esercizio del ministero diaconale.

Il testo evidenzia il carisma proprio dei diaconato che esprime la rappresentanza di Cristo in quanto servo. L’animazione della diaconia è un carisma. Proprio perché tutto il popolo cristiano viva la diaconia i candidati andranno individuati tra coloro che già la svolgono e mostrano una disponibilità al servizio. Per questo ogni candidatura dovrà fiorire all’interno di una comunità cristiana. Una valutazione speciale sarà poi riservata alla famiglia qualora il candidato sia coniugato. L’età minima per accedere alla formazione è per i coniugati 31 anni; 21 per i celibi.

Un capitolo importante riguarda la formazione, che pure -cosi come per il clero- non si esaurisce con l’ordinazione, ma è inserita in un cammino di formazione permanente. In merito si richiede un percorso di tre anni escluso l’anno propedeutico. La formazione al diaconato prevede infatti, un anno propedeutico dedicato al discernimento e alla formazione di base, così come richiesto anche a chi acceda al seminario in vista dell’ordinazione sacerdotale.

La formazione si articola in: umana, spirituale, teologica e pastorale.
Una particolare attenzione deve essere riservata anche alla famiglia qualora il diacono sia sposato.

Si richiede anche una solida preparazione intellettuale. Prioritariamente il piano degli studi dovrà avvalersi dove è possibile, degli Istituti di Scienze Religiose attraverso un triennio dilazionabile nel tempo in base alle esigenze personali del candidato. Occorre, comunque, essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore.

La formazione del diacono si apre anche alla missionarietà, secondo quanto indicato in Evangelii Gaudium. I diaconi, infatti, si caratterizzano come avanguardie.di una Chiesa in uscita. La loro formazione deve puntare anche alla «capillarità», perché il ministero sia diffuso nel territorio, particolarmente dove, in genere, la pastorale ordinaria non arriva. Il delegato episcopale, dovrà seguire il discernimento del candidato al diaconato.

La terza parte del documento precisa il ruolo del tutto speciale del diaconato nella conversione missionaria della Chiesa. Anche la chiesa di Pistoia è orientata ad aprirsi sempre più alla missione. Su questo impegno si concentrerà a partire dal triennio 2020-2023.

Il diacono è chiamato ad operare nelle diverse pastorali di ambiente: lavoro, scuola, carcere, sanità…, secondo la triplice forma in cui si esprime la diaconia: liturgia, predicazione e carità (LG 29).

L’ultimo capitolo del documento è dedicato a obblighi e diritti del diacono richiamandone alcune peculiarità: incardinazione, missione canonica.
Laddove ci sia l’esigenza il diacono potrà svolgere una funzione di supplenza nelle parrocchie. Il sacerdote potrà quindi rivestire la funzione di moderatore pastorale, mentre il diacono ricevere l’incarico di cura pastorale. Nel loro servizio, inoltre, i diaconi possono anche essere destinati alla cura delle comunità cristiane disperse.

Chi volesse saperne di più è invitato a contattare il proprio parroco.

(ucs)




SIRIA: L’IMPEGNO DELLA CHIESA ITALIANA

Intervista a don Francesco Soddu direttore Caritas nazionale

Sette anni di ‘guerra sporca’ non hanno spento il desiderio di bellezza dei giovani siriani

 

Sull’interminabile conflitto in Siria Papa Francesco ha levato più volte un appello per la pace e per garantire corridoi umanitari a una popolazione stremata da violenze e difficoltà di ogni genere. Anni di stragi e violenze, alimentate da una complessa situazione internazionale, rischiano infatti di cadere nell’indifferenza globale. Caritas Italiana è impegnata da tempo in questa grave crisi umanitaria. Per approfondire la situazione siriana abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Soddu, direttore della Caritas Italiana.

Come Caritas italiana in che modo avete potuto portare aiuto al popolo siriano?

Abbiamo sostenuto il popolo siriano sin dallo scoppio della crisi, attraverso Caritas Siria e attraverso altre espressioni della Chiesa locale, come ordini religiosi, diocesi locali e comunità monastiche. L’intervento si è concentrato soprattutto su aiuti di urgenza, vista la gravissima situazione, ma non sono mancati interventi di formazione e affiancamento ai partner locali e piccoli interventi di ricostruzione e riabilitazione.

Il vostro supporto a Caritas Siria quali campi di interventi ha interessato?

Sicuramente moltissimo è stato fatto nell’ambito degli aiuti di urgenza: una catastrofe come quella che vive la Siria dal 2011 richiede purtroppo uno sforzo enorme per salvare più vite possibile. Ci sono stati quindi molti progetti di distribuzione di aiuti di urgenza (alimentari e non), contributi al reddito attraverso vouchers, contributo all’alloggio per tutti i milioni di sfollati interni, e un ampio progetto di aiuti sanitari sia per le vittime del conflitto (feriti, mutilati, invalidi) sia per patologie ordinarie. Un grosso sforzo è stato dedicato poi alla ricostruzione e riabilitazione del settore educativo: abbiamo contribuito a ristrutturare scuole, fornire kit scolastici e organizzare corsi di formazione specifici. Nel corso di questi 7 anni abbiamo poi sostenuto Caritas Siria con un contributo tecnico, offerto da nostri operatori esperti, che insieme ad altro staff internazionale hanno aiutato i colleghi siriani a gestire questo periodo difficilissimo. Per il futuro immediato ci vorremmo concentrare anche su progetti che aiutino un percorso di pace e riconciliazione, puntando soprattutto sui giovani.

C’è un aspetto che spesso rimane in ombra: cioè l’impegno di tanti volontari disposti a rischiare la vita ogni giorno a servizio di chi ha bisogno. Quanti sono e dove operano?

In questi anni Caritas Siria ha potuto contare su quasi 4.000 volontari in tutto il paese, che hanno contribuito a svolgere le attività umanitarie e pastorali in collaborazione con lo staff dei sette uffici regionali e le Chiese parrocchiali. Purtroppo nel corso di questi anni anche loro sono stati vittime dirette della guerra, due in particolare sono rimasti uccisi durante lo svolgimento del loro servizio, altri feriti. Molti sono dovuti scappare, abbandonare la propria terra e cercare una nuova vita all’estero, moltissimi hanno perso familiari e amici. Ma chi rimane rappresenta davvero un segno di speranza: di fronte a tanto orrore sono riusciti a trovare la forza per attivarsi e dare il proprio contributo a chi sta peggio. Nella ricerca condotta lo scorso anno in collaborazione con Caritas Siria abbiamo potuto costatare che addirittura il volontariato è aumentato in questi anni, nonostante la tragedia c’è ancora chi pensa al prossimo, in modo disinteressato, aiutando cristiani e mussulmani senza distinzione.

 Non è sempre facile comprendere le dinamiche del conflitto siriano. Certamente sono tanti gli interessi internazionali che alimentano questa situazione. Stando a stretto rapporto con la popolazione che idea vi siete fatti?

Si tratta di una guerra sporca, alimentata da vari interessi internazionali, di potenze sia regionali sia internazionali. Come hanno detto in molti è una sorta di guerra mondiale combattuta sulla pelle del popolo siriano. Vari gli attori sul campo. Ognuno per il proprio interesse geopolitico ha ritenuto opportuno alimentare il conflitto, da una parte o dall’altra, anche contro la popolazione civile. Il sogno di libertà gridato nelle piazze dai giovani siriani nel marzo del 2011, si è tramutato presto in un incubo fatto di repressioni violente, incarceramenti e torture. In questo scenario è subentrato l’intervento internazionale, che ha armato e finanziato gruppi di ribelli e di terroristi, tramutando un moto rivoluzionario in una assurda guerra tra fazioni di mercenari. Purtroppo è una guerra con molti colpevoli, e tra questi ci siamo anche noi, italiani ed europei, che abbiamo assistito inermi ai tanti massacri, senza indignarci abbastanza, senza sforzarci di perseguire un vero processo di pace, presi nel nostro egoismo, vittime della paura del terrorismo e dei profughi. Un’Europa più unita e consapevole della propria storia e della propria identità avrebbe forse potuto giocare quel ruolo di mediazione e di freno che le Nazioni Unite non sono state in grado di giocare.

Quali sono stati i progetti che hanno avuto un esito positivo per le città di Aleppo e Homs e quali quelli che tuttora state portando avanti?

Di fronte a tale tragedia è impossibile parlare di esito positivo, la catastrofe è tale che nessun intervento è sufficiente. Abbiamo cercato di fare il massimo aiutando chi era sopravvissuto ad anni di assedio e mesi di bombardamenti. Ci rincuora però sapere che ora sia la Caritas di Aleppo sia quella di Homs sono delle organizzazioni solide, capaci, che oltre a tanta motivazione (quella l’avevano anche prima) hanno le capacità e le competenze per portare aiuto alla popolazione. La Caritas ad esempio, grazie ai suoi operatori di Aleppo, è stata la prima realtà ad essere operativa nella zona est della città, dopo la fine dell’assedio e dei bombardamenti governativi.

Il lavoro da fare è ancora purtroppo enorme, prima di tutto nel campo dell’assistenza umanitaria, ma da qualche mese abbiamo iniziato progetti anche nell’ambito della ricostruzione delle abitazioni e della riabilitazione di piccole attività economiche, perché la popolazione ha bisogno di ritrovare un minimo di indipendenza economica.

Aleppo ha ancora voglia di rinascere?

Certamente, il desiderio è tanto, ma purtroppo è veramente difficile capire da dove iniziare per ricostruire una prima base di normalità. Anche perché la guerra e i massacri non sono finiti, e la “pacificazione” di una regione non è sufficiente a garantire il futuro, perché la pace non è l’assenza di guerra, è molto di più. Purtroppo vediamo infatti che anche in quelle zone dove l’intensità dei conflitti è diminuita, i bisogni sono enormi, sia materiali sia comunitari. Con l’aiuto di tutti sarà possibile rinascere, ma c’è bisogno veramente di uno sforzo collettivo che punti all’assistenza, alla riabilitazione e allo sviluppo di percorsi di pace e riconciliazione.

Qualche anno fa Caritas Italiana e Caritas Siria hanno voluto indagare sulla situazione dei giovani nella nazione siriana. A partire da questa prima ricerca quali progetti avete in cantiere per aiutare le giovani generazioni?

La ricerca è stata molto importante perché ci ha fatto capire, dati alla mano, che nel paese ci sono ancora centinaia di giovani che hanno voglia di mettersi in gioco. Nonostante i tanti che non ci sono più (morti o costretti a partire) chi è rimasto ha voglia di ricominciare, di impegnarsi per il proprio futuro e per il futuro del suo paese. Abbiamo scoperto un grande desiderio di “bellezza”: moltissimi hanno espresso il desiderio di tornare a studiare ma anche di impegnarsi in attività artistiche, come la musica, il teatro e le arti figurative. Come se di fronte a tanto orrore i giovani avessero bisogno di nutrire il loro spirito con l’arte. Per questo con Caritas Siria abbiamo avviato il progetto “come fiori tra le macerie”, per la creazione di laboratori artistici residenziali, dove avviare i giovani a quello che potrebbe essere una professione ma non solo. Il primo vedrà la luce a Damasco speriamo entro il 2018. Si tratterà di un laboratorio di restauro artistico e di produzione di mosaici tradizionali, un centro dove offrire percorsi formativi ai giovani, per dare loro una possibilità professionale concreta, lavorando alla ricostruzione materiale e culturale del proprio paese. Al tempo stesso sarà un simbolo di pace: giovani siriani, senza distinzione di religione, impareranno insieme come ristrutturare le opere d’arte delle moschee e delle Chiese del loro paese, così come dei monumenti civili. Per questo oltre ai corsi tecnici offriremo anche formazione alla pace e riconciliazione, che questi giovani possano essere degli ambasciatori di pace, in mezzo a tanto orrore, come fiori che spuntano all’improvviso tra le macerie, tenaci e delicati al tempo stesso.

Daniela Raspollini




FEDE, RELIGIONE E RELIGIONI OGGI: UNA CONVERSAZIONE TRA MARCO VANNINI E ROBERTO CELADA BALLANTI

Sabato 17 marzo il Centro culturale “J. Maritain” propone una conversazione tra Marco Vannini e Roberto Celada Ballanti

Il prossimo incontro del Centro Culturale Maritain è dedicato alla presentazione del volume “Il muro del paradiso” di Marco Vannini e Roberto Celada Ballanti. Entrambi gli autori saranno presenti per una conversazione che riproporrà i temi del libro. L’incontro, che avrà luogo nell’aula magna del Seminario alle ore 17, sarà moderato da Beatrice Iacopini.

Nel loro “Il muro del Paradiso. Dialoghi sulla religione nel terzo millennio” (Lorenzo de’Medici Press, Firenze 2017), Roberto Celada Ballanti, docente di filosofia della religione e del dialogo interreligioso e Marco Vannini, filosofo e studioso di mistica, epigoni degli antichi filosofi che nel tempo dell’otium discutevano amichevolmente le grandi questioni della vita, conversano sul destino della religione e della fede nell’immobile calura estiva di un giardino versiliese: due percorsi di ricerca, due visioni del mondo che si incontrano e si intrecciano, ricchi di dense suggestioni ispirate ad una schiera di autori classici e contemporanei, capaci di affascinare il lettore e stimolarlo ad interrogarsi e approfondire.

I due filosofi, a partire ciascuno dalla propria storia intellettuale, convergono su un punto centrale: che l’elemento religioso, la tensione verso l’Assoluto, è qualcosa non solo di connaturato ma di essenziale nell’uomo; è orizzonte di senso per l’esistenza e denominatore comune dell’umanità. Ispirato il primo dalla luminosa tradizione umanistica di Cusano, Erasmo, Bruno, l’altro dall’amore per la grecità e per quella mistica che in occidente ne ha salvato e tramandato l’essenza, entrambi si fanno araldi di una tradizione alta, in cui filosofare è soprattutto indagare Dio e l’anima, e attingere a ciò che è universale, che appartiene a tutti gli uomini al di là delle connotazioni culturali specifiche.

Percorrere una via del genere oggi può essere arduo, ma denota la presa in carico di un serio compito etico, in tempi in cui una lettura superficiale degli eventi ha gioco facile nel proporre il fatto religioso piuttosto come elemento retrogrado che divide e suscita guerre e oppressioni; in tempi in cui è diffusa e comune la sensazione che nessun orizzonte di senso contenga e illumini il nostro essere nel mondo.

Nel dialogo che il Centro Maritain propone, si alterneranno letture dal testo e interventi dei due autori, in cui avranno occasione di emergere la filosofia profonda e spiazzante di Marco Vannini – una vita dedicata alla traduzione e allo studio di mistici quali Meister Eckhart, Margherita Porete, Enrico Suso, Giovanni Taulero – e l’originale lettura del fenomeno religioso e di nuovi orizzonti di dialogo tra le religioni di Roberto Celada Ballanti.

Beatrice Iacopini




SI SALVI CHI PUÒ? LA LETTERA “PLACUIT DEO” DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

Abbiamo ancora bisogno di salvezza? Se si tratta di sfuggire alla retrocessione o di acciuffare (o mantenere) il seggio in parlamento facilmente possiamo dire di sì. Siamo ancora ‘attuali’, o meglio, siamo ancora comprensibili quando parliamo di “salvezza”? Il recente documento della Congregazione della Dottrina della Fede Placuit Deo, firmato dal prefetto Luis F. Ladaria il 22 febbraio 2018, sulla scorta del magistero recente di Papa Francesco, insiste su «alcuni aspetti della salvezza cristiana che possono essere oggi difficili da comprendere a causa delle recenti trasformazioni culturali».

Il testo, piuttosto breve, propone una densa sintesi di soteriologia cattolica che riprende il filo di un noto documento elaborato alla vigilia del nuovo millennio cioè la dichiarazione Dominus Iesus (2000). Placuit Deo lo recupera sviluppando il nesso inscindibile, già proposto in quel testo, tra Gesù Cristo quale unico mediatore della salvezza che ha comunicato agli uomini in quanto verbo Incarnato (cap. IV), la Chiesa corpo di Cristo, sacramento universale di salvezza del genere umano (cap. V) e l’esigenza di «comunicare la fede, in attesa del Salvatore» (cap. VI).

Detto questo, per cogliere la novità del nuovo documento mi pare significativo il capitolo centrale (cap. III), dal titolo «L’aspirazione umana alla salvezza».
Chi ha in mente i testi conciliari, in particolare Gaudium et Spes, si accorge quanto sia mutato l’orizzonte culturale. Le grandi domande di senso esplicitate magistralmente in quel testo, come il tema della morte, il problema dell’ateismo anche nelle sue forme sistematiche, l’attesa di un “uomo nuovo” inclusa dentro le attese più o meno messianiche delle ideologie marxiste, la liberazione propagandata dai maestri del sospetto, si inseriscono soltanto marginalmente nel documento odierno.

Placuit Deo parla ormai dell’uomo post-moderno, chiuso ai grandi racconti di senso proposti dalle ideologie e anche ad un sistema di riferimento cristiano di fatto irrecuperabile. Ma forse anche il termine post-moderno non ci dice più molto. Probabilmente non è più l’uomo del logos, ma –mi suggerisce l’acuto pensiero del gesuita Gaetano Piccolo- l’uomo del ‘pathos’. È l’uomo della techne, aggiungerei, anzi, degli algoritmi che sembrano conoscerlo meglio di quanto potrebbe conoscersi da solo. Il documento recita: «l’uomo percepisce, direttamente o indirettamente, di essere un enigma: Chi sono io che esisto, ma non ho in me il principio del mio esistere? Ogni persona, a suo modo, cerca la felicità, e tenta di conseguirla facendo ricorso alle risorse che ha a disposizione. Tuttavia, questa aspirazione universale non è necessariamente espressa o dichiarata; anzi, essa è più segreta e nascosta di quanto possa apparire, ed è pronta a rivelarsi dinanzi a particolari emergenze».
Le grandi aspirazioni dell’uomo dunque, non sembrano più così evidenti alla coscienza dell’uomo contemporaneo. La ricerca della felicità -ci suona quasi sconcertante- «è più segreta e nascosta di quanto possa apparire». L’uomo del 2018 si trova ormai chiuso dentro un orizzonte prevalentemente individualistico: «non ho in me il principio del mio esistere». Il suo problema sembra legato principalmente all’esigenza di mantenere inalterata la propria condizione ottimale di sussistenza. Le domande di senso arrivano quando le cose vanno male economicamente, quando arriva la malattia, se c’è mancanza di «pace interiore e di una serena convivenza col prossimo».
La salvezza si riduce alle esigenze di un centro benessere, ad una terapia dell’anima e del corpo che elimini le difficoltà. È la vittoria dell’emozione sul sentimento, del presente sul futuro. Non vengono meno tensioni lodevoli: «alla lotta di conquista del bene si affianca la lotta di difesa dal male: dall’ignoranza e dall’errore, dalla fragilità e dalla debolezza, dalla malattia e dalla morte». Si tratta però, a ben vedere, di un fatto di risorse, intellettuali, tecniche, biologiche.

Le risposte che cerca l’uomo contemporaneo, e che talvolta sembra individuare, si chiudono in quanto è “a portata di mano”. Fatto che implica due conseguenze pericolose: 1) illudersi di auto-salvarsi; 2) considerare manipolabile tutto ciò che ci circonda.

L’illusione dell’autosalvezza si esprime in due tendenze “mondane” dai nomi antichi che Papa Francesco, pur dentro un contesto più morale che teoretico, ha ripetuto spesso: pelagianesimo e gnosticismo.

Secondo la prima, come spiega bene il testo, «l’individuo, radicalmente autonomo, pretende di salvare sé stesso, senza riconoscere che egli dipende, nel più profondo del suo essere, da Dio e dagli altri». È il primato della morale o dell’ingegno umano sulla grazia.

La seconda «presenta una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo». Basta un’adeguata forma di conoscenza che facilmente superi i limiti storici di un Dio fatto uomo, per elevare la persona e liberarla «dal corpo e dal cosmo materiale, nei quali non si scoprono più le tracce della mano provvidente del Creatore, ma si vede solo una realtà priva di senso, aliena dall’identità ultima della persona, e manipolabile secondo gli interessi dell’uomo».

Di fronte a queste due tendenze che papa Francesco ha ben stigmatizzato sia in Evangelii Gaudium (n. 94) che nel suo discorso alla Chiesa Italiana in occasione del Convegno Ecclesiale di Firenze (2015), il documento propone il valore centralissimo della salvezza cristiana. Ne offre quasi una definizione, laddove afferma che «la salvezza consiste nella nostra unione con Cristo, il quale, con la sua Incarnazione, vita, morte e risurrezione, ha generato un nuovo ordine di relazioni con il Padre e tra gli uomini, e ci ha introdotto in quest’ordine grazie al dono del suo Spirito».

Ritroviamo qui il nesso inscindibile Gesù Cristo-salvezza-Chiesa proposto da Dominus Iesus, ma con la particolare sottolineatura della salvezza come “unione” con Cristo. C’è dunque un mistero di comunione dentro la salvezza cristiana che l’uomo contemporaneo è chiamato a riscoprire.

Comunione con Dio, perché, si legge in Placuit Deo, «niente di creato può soddisfare del tutto l’uomo, perché Dio ci ha destinati alla comunione con Lui e il nostro cuore –come ricorda Agostino – sarà inquieto finché non riposi in Lui».

Comunione con il Creato, che non può essere ridotto a realtà esterna, materiale e manipolabile. L’enciclica Laudato si’ ci ha riproposto la risposta cristiana con grande suggestione: «Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio» (n. 84).

Comunione con i fratelli. «Peccando, – si legge nel Documento della Congregazione per la Dottrina della Fede – l’uomo ha abbandonato la sorgente dell’amore, e si perde in forme spurie di amore, che lo chiudono sempre di più in sé stesso. È questa separazione da Dio – da Colui che è fonte di comunione e di vita – che porta alla perdita dell’armonia tra gli uomini e degli uomini con il mondo». Può commentare bene ancora un numero di Laudato si’: «Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra» (n. 92).

Comunione con l’integralità della nostra persona, fatta di anima e corpo. «È tutta la persona, infatti, in corpo e anima, che è stata creata dall’amore di Dio a sua immagine e somiglianza, ed è chiamata a vivere in comunione con Lui». La salvezza che ci consegna Cristo ci sana, nella nostra umanità corrotta dal peccato, bisognosa della grazia divina, e ci eleva allo stesso tempo, secondo il principio spirituale che custodiamo con la nostra umanità, chiamata ad una vocazione divina.

Comunione della Chiesa. È tramite la Chiesa che ci raggiunge la salvezza di Cristo perché nessuno si salva da solo. Abbiamo bisogno di vivere le relazioni che «nascono dal Figlio di Dio incarnato e che formano la comunione della Chiesa». Relazioni che a partire dal Battesimo, sperimentiamo negli altri sacramenti. La materialità umile dei sacramenti (l’acqua, il pane, il vino, l’olio, il prete..) ci sottrae alla menzogna di una salvezza meramente interiore e rimanda alla verità della carne viva di Cristo che tocchiamo, in modo singolare, nei fratelli più poveri e sofferenti». Resta implicita, su questo punto, la fatica che si registra, anche tra i cattolici, nel tenere insieme liturgia e vita, nella tensione tra una spiritualità privatistica e l’apertura al fratello. Vi si legge, forse, anche il rischio di una pratica sacramentale spesso interpretata secondo riduzionismi formali o ritualità senza grazia, fraintesa secondo la categoria del diritto soggettivo e non secondo la comunione di grazia.

Comunione con tutto il genere umano. La salvezza cristiana non può lasciare indifferenti, ma spinge tutti i fedeli alla “conversione missionaria” su cui insiste Papa Francesco, poiché «la salvezza integrale, dell’anima e del corpo, è il destino finale al quale Dio chiama tutti gli uomini».

Placuit Deo invita a uscire dalle ristrettezza di una visione mondana che di fatto rende superflua la rivelazione divina, a partire da una riscoperta della propria misura umana, creata per aprirsi alla comunione. Il documento, dunque, non propone soltanto una reazione ai rischi di certa spiritualità e mentalità contemporanee, ma può anche aiutare pastoralmente ad affrontare il tema della salvezza a partire dalle nostre più profonde esigenze di comunione. Papa Francesco lo fa parlandoci di casa comune, di misericordia, del «piacere spirituale di essere popolo», della dimensione sociale dell’evangelizzazione, ma soprattutto attraverso quel “primear” di Dio che ribadisce il Suo primato: è Lui che, sempre primo ci “primerea”, ci aspetta, fa risplendere in Gesù Cristo «la profonda verità […] su Dio e sulla salvezza degli uomini».

Ugo Feraci




COL GIOCO NON SI SCHERZA: UN INCONTRO CON GLI STUDENTI SU GIOCO D’AZZARDO, MAFIE, CITTADINANZA ATTIVA

La mattina di mercoledì 21 febbraio, presso il Liceo scientifico di Pistoia, si svolgerà il secondo incontro del Progetto “Società e Cittadino” che, giunto alla 20° edizione, quest’anno affronta la tematica “Gioco d’azzardo, mafie, cittadinanza attiva”.

Il primo incontro, alla presenza di circa 300 studenti delle Scuole Superiori pistoiesi, ha avuto luogo la mattina del 25 gennaio presso il Piccolo Teatro Mauro Bolognini dove è andato in scena lo spettacolo di Teatro Civile “Gran Casinò. Storie di chi gioca con la pelle degli altri” della Compagnia Itineraria Teatro. Uno spettacolo per dire no al gioco d’azzardo legale o illegale che sia.

Nel prossimo appuntamento gli studenti incontreranno il Dott. Luca Gorrone Funzionario Direzione Divisione Anticrimine Questura di Pistoia, la Dott.ssa Simona Neri Responsabile Anci Toscana Progetto Ludopatie e Bullismo e Don Armando Zappolini Presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA), impegnato con l’associazione Libera, Portavoce nazionale della campagna contro il gioco d’azzardo “Mettiamoci in gioco”.

Una bella occasione per approfondire il fenomeno della diffusione del gioco d’azzardo e dei connessi problemi di dipendenza la cui gravità non è ancora adeguatamente percepita.

Il progetto “Società e Cittadino” è nato nell’a.s. 1998/99 dalla collaborazione dei due Licei pistoiesi, Liceo classico “N. Forteguerri” e Liceo scientifico “A. di Savoia Duca d’Aosta” con il Servizio Istruzione della Provincia di Pistoia con l’intento di promuovere una cultura dei diritti umani, della solidarietà e della cittadinanza responsabile.

La rete di scuole attualmente comprende oltre al Liceo “N. Forteguerri” (scuola capofila) l’Istituto Professionale “L. Einaudi”, il Liceo scientifico “Amedeo di Savoia”, l’Istituto Tecnico “S. Fedi/E.Fermi”, il Liceo Paritario “Suore Mantellate”, il Liceo “C. Salutati” di Montecatini Terme e l’Istituto Omnicomprensivo di San Marcello Pistoiese.

Quest’anno l’attenzione è rivolta prevalentemente al gioco d’azzardo legale e illegale e alla connessa problematica della diffusione della ludopatia.

Oltre alla Provincia di Pistoia promotrice del progetto, collaborano “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, il Comune di Pistoia e la sottosezione pistoiese dell’Associazione Nazionale Magistrati firmatari di un protocollo di intesa, con le scuole in rete, al fine di programmare in modo congiunto attività di educazione alla legalità democratica dirette agli istituti superiori della nostra provincia. Negli ultimi anni ha offerto il proprio contributo anche il Gruppo Biblioteca degli Avvocati del Tribunale di Pistoia e per l’anno in corso si è sviluppata una collaborazione anche con l’Equipe Nuovi Stili di Vita della Diocesi di Pistoia.

All’inizio di maggio è previsto l’evento conclusivo, in cui gli studenti porteranno il frutto del loro percorso di studio e riflessione.

(Alessandra Pastore – Libera)




LA TERRA SANTA: IERI-OGGI. MONS. PIZZABALLA AD AGLIANA IN RICORDO DI ALBERTO GORI PATRIARCA DI GERUSALEMME

Terra Santa ieri e oggi: un incontro ad Agliana in ricordo di Mons. Alberto Gori, custode di Terra Santa e Patriarca Latino di Gerusalemme.

Al cinema teatro Moderno intervengono Mons. Pierbattista Pizzaballa, oggi amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme e fino allo scorso anno Custode di Terra Santa.

Presenti il vescovo di Pistoia, mons. Fausto Tardelli e il vescovo di Grosseto Rodolfo Cetoloni, frate minore francescano, attivo in numerosi progetti di solidarietà per la Terra Santa e il medio oriente. Modera Mauro Banchini.

La serata, organizzata dall’Associazione Amici della Terra Santa di Pistoia, fa luce su un personaggio chiave della storia del medio Oriente, in anni assai complessi e decisivi per Israele e la Palestina, cioè tra gli anni quaranta e il 1970.

Paolo Pieraccini, storico, esperto di Terra Santa, traccia il profilo di Mons Gori, frate minore, custode capace di grande diplomazia, specialmente durante il conflitto arabo-israeliano e vicende storiche straordinarie: il Concilio Vaticano II, il pellegrinaggio di Paolo VI in Terra Santa -il primo di un papa- la guerra dei sei giorni, il settembre nero 1970. Ne emerge una personalità con grande capacità di discernimento e di giudizio tra parti spesso in conflitto.

Mons. Pizzaballa fa luce sulla situazione attuale in terra santa. «Il medio oriente non è più lo stesso dopo la guerra in Siria. Non sappiamo ancora cosa sarà». Tante le parti in gioco, il conflitto tra sciiti e sunniti, Israele e Palestina. «Si va verso il settarismo tribale, etnico, religioso». In questo contesto «i cristiani sono in difficoltà. Proprio perché trasversali».

Mons. Pizzaballa, che è chiamato a guidare le regioni dipendenti dal Patriarcato Latino di Gerusalemme, si trova ad operare in una realtà grande e variegata: Giordania, Cipro, Israele, Libano e «in una fase di transizione, in cui è assente una grande politica capace di portare la pace».

«Profughi, confini, Gerusalemme; questi i grandi problemi di Israele, dai tempi di Mons. Gori fino ad oggi».
«Oggi però ci sono anche aspetti positivi. Le relazioni tra comunità cristiane sono diverse. Le famiglie vivono insieme. I restauri a Betlemme e al Santo Sepolcro dicono anche questo. Si lavora insieme nelle scuole». I cristiani diminuiscono ma imparano a vivere insieme.

«Tanti cristiani se ne vanno. Ma vedo anche determinazione a restare. È il momento dei piccoli gesti di pace. Tantissimi giovani con tante attività e molto volontariato». E poi ci sono «piccoli gesti di pace tra cristiani, musulmani ed ebrei. Che vanno contro l’opinione comune. Gemellaggi, incontri. Non tutto è perduto». «La sfida dei prossimi anni sarà quella del dialogo interreligioso. A partire dalla comune umanità. Le scuole cristiane sono luoghi di incontro importantissimi».

«Nel Medio Oriente, tra i cristiani, c’è ancora tanto bene. Ad esempio desiderio di leggere insieme la Parola di Dio. Di custodire la speranza anche nella persecuzione. Di educare nella tragedia umanitaria di Gaza». Raggi di luce che fanno sperare per la rinascita della Terra Santa.

(redazione)

PISTOIA – «La via migliore per assicurare la pace del paese e i diritti di ciascuna parte sarebbe, a nostro avviso, quella di mettere la Palestina sotto il mandato di una Potenza indicata dall’ONU. Qualora la divisione non si potesse evitare, insistere perché Gerusalemme con il suo hinterland (retroterra) venga internazionalizzata senza ritardo e siano assicurati il libero accesso e la libertà di culto nei vari Santuari disseminati in Giudea, Galilea, e i diritti religiosi alla Chiesa cattolica».

Con queste parole mons. Alberto Gori, nativo di Agliana (diocesi di Pistoia) allora Custode di Terra Santa, presentava a Pio XII la situazione in Palestina a pochi mesi della nascita dello stato d’Israele. Era il 1948, l’alba di settant’anni di conflitti la cui dinamica ancora oggi gioca un ruolo fondamentale nell’intero scacchiere geopolitico del Medio Oriente.

Della bella (e quasi sconosciuta) figura di mons. Gori si parlerà il prossimo giovedì 22 febbraio ad Agliana in una serata dedicata all’analisi della situazione della Terra Santa e dei cristiani in medio oriente.
Sarà ospite d’onore della serata mons. Pierbattista Pizzaballa, oggi amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme e fino allo scorso anno Custode di Terra Santa. Sarà presente il vescovo di Pistoia, mons. Fausto Tardelli e il vescovo di Grosseto Rodolfo Cetoloni, frate minore francescano, attivo in numerosi progetti di solidarietà per la Terra Santa e il medio oriente.

L’iniziativa, patrocinata dalla Diocesi di Pistoia e dalla Regione Toscana, è stata organizzata dell’associazione pistoiese “Insieme per la Terra Santa” fondata da mons. Cesare Tognelli e presieduta da Franco Niccolai con l’obiettivo di favorire contatti, anche attraverso pellegrinaggi, fra Pistoia e il Vicino Oriente.

La serata si aprirà con la Santa Messa celebrata nella parrocchia di san Piero a Agliana (Piazza Gramsci) presieduta da Mons. Pizzaballa e concelebrata dai vescovi Tardelli e Cetoloni.

Alle ore 21 (presso il Teatro Cinema “Moderno”, Piazza Anna Magnani 1) avrà luogo la conferenza con gli interventi di mons. Pizzaballa e dello storico Paolo Pieraccini, studioso della figura di mons. Gori.

Per 12 anni Mons. Alberto Gori fu Custode di Terra Santa e per i successivi 21 fu Patriarca latino di Gerusalemme, ricoprendo dunque importanti incarichi ecclesiali dal 1937 al 1970. Alla sua morte, il 25 novembre 1970, fu sepolto nella cattedrale di Gerusalemme.
Era nato il 9 febbraio 1889 ad Agliana (Pistoia) e vestì l’abito di Francesco nel settembre 1907, all’età di 18 anni. Dopo aver prestato servizio militare da sacerdote nella prima guerra mondiale, il suo nome divenne strettamente legato alla Terra Santa da quando (era l’8 febbraio 1919) fu inviato a Gerusalemme a servizio della Custodia francescana.

(comunicato)