La Mariapoli a Cutigliano

Nel weekend del 22-23 giugno un’appuntamento eccezionale a cura del movimento dei Focolari

La Mariapoli, la “Città di Maria” è l’appuntamento caratteristico del Movimento dei Focolari.
In numerosi Paesi del mondo infatti, persone delle più varie provenienze si ritrovano per più giorni per vivere insieme un laboratorio di fraternità, alla luce dei valori universali del Vangelo.

Questa originale esperienza ha come linea guida la “regola d’oro” che invita a fare agli altri quello che si vorrebbe fosse fatto a sé. Sono giorni per sperimentare come sia possibile vivere nella quotidianità, ponendo a base di ogni rapporto l’ascolto, la gratuità il dono: un bozzetto di società rinnovata dall’amore. Le prime Mariapoli sono ormai lontane, organizzate circa 70 anni fa sulle Dolomiti a Tonadico, dove quest’anno i focolarini torneranno per una Mariapoli europea che costruirà la fraternità fra popoli diversi provenienti dalle nazioni europee dal 14 luglio all’11 agosto.

Per la Toscana abbiamo pensato di puntare a Cutigliano, un paese caratteristico della nostra montagna per sperimentare lì questi momenti di comunione, e immersi nella natura, dare vita alla nostra Mariapoli. Avremo occasioni di approfondimenti spirituali con lo scambio di testimonianze che porteranno sicuramente momenti di luce perché vissute nell’amore, ma anche di passeggiate e momenti ricreativi che faranno di questa occasione un fine settimana di gioia.

A Cutigliano il punto di ritrovo è previsto per venerdì 21 giugno all’albergo Villa Basilewsky alle ore 16, con l’assegnazione degli alloggi; la S. Messa è alle 17.30, seguirà la presentazione della Mariapoli.

Il sabato 22 il programma propone momenti all’aperto e incontri di spiritualità.
Domenica 23  la S. Messa e il pranzo, poi ci saranno i saluti finali con possibilità di partecipare alle 17.30 alla processione del Corpus Domini con l’infiorata.

Quota completa 150 Euro a persona. Per informazioni: Luciana Vignozzi: 339 6541308 – e Giuseppe Messeri: 334 7051795 – Per info: famberrettini@gmail.com .

Per motivi organizzativi è necessario iscriversi in questa pagina.
Si può partecipare anche per una giornata.




Una luminosa testimonianza di fede nella persecuzione

A seguito del recente viaggio del papa in Romania, durante il quale sono stati beatificati sette vescovi martiri del comunismo, rendiamo nota la testimonianza di suor Clara Laslau, prozia di due fratelli della nostra diocesi: don Cipriano, parroco di San Marcello e don Eusebiu Farcas, che sarà ordinato sacerdote il prossimo 30 giugno.

Nel suo recente viaggio in Romania Papa Francesco ha beatificato sette vescovi martiri greco-cattolici vittime della persecuzione comunista: Vasile Aftenie e Ioan Balan, Valeriu Traian Frentiu, Ioan Suciu, Tit Liviu Chinezu, Alexandru Rusu.
Con l’avvento del regime comunista infatti, a partire dal 1948 si scatenò in Romania una feroce persecuzione: «in quel triste periodo – ricorda il papa-, la vita della comunità cattolica era messa a dura prova dal regime dittatoriale e ateo: tutti i Vescovi, e molti fedeli, della Chiesa Greco-Cattolica e della Chiesa Cattolica di Rito Latino furono perseguitati e incarcerati». La testimonianza di questi martiri suscita oggi una forte impressione: «È eloquente quanto ha dichiarato durante la prigionia il Vescovo Iuliu Hossu: “Dio ci ha mandato in queste tenebre della sofferenza per donare il perdono e pregare per la conversione di tutti”».

Anche nella nostra diocesi di Pistoia vive il ricorda di una vittima delle persecuzioni del regime comunista. Si tratta di Suor Clara Laslau, suora del monastero di Sant’Agnese di Bucarest e parente di don Cipriano Farcas e del fratello Eusebio, che sarà ordinato sacerdote il prossimo 30 giugno. Una vocazione “familiare” che è anche il frutto della preghiera e della testimonianza di una prozia che ha duramente sofferto per la propria fede.

Suor Clara, nata nel 1912 nel villaggio di Pustiana presso Bacău, all’età di 17 anni entrò nella vita religiosa. Nel 1938 fu inviata alla Nunziatura apostolica a Bucarest, dove lavorò per 12 anni. Arrestata nel 1950 fu torturata nel tentativo di ottenere informazioni e condannata al carcere per alto tradimento. Rilasciata nel 1964, si ritirò nel “Monastero di Agnese” a Popeşti-Leordeni. È morta il 23 agosto 2009, all’età di 97 anni.
Ci piace dunque proporre un’intervista pubblicata sul numero di giugno 2007 della Rivista “Sacro Cuore”.

Ricorda ancora come avvenne l’arresto?

Ricordo benissimo. Verso le undici di sera salirono nella mansarda, sfondarono due porte e ci trovarono tutte nella cappella in preghiera col vescovo. Erano circa venti uomini, armati. […] Mi fecero salire in macchina con suor Tarsila e due soldati. Sentivo che non sarei più tornata.

Arrivati alla Polizia Segreta mi misero un paio di occhiali neri e fui bendata: ricordo solo che mi facevano scendere le scale e sentivo sempre più fresco. Quando mi tolsero gli occhiali, un ufficiale era seduto al suo tavolo e scriveva; accanto a lui vi erano due soldati. L’ufficiale mi gridò: “Spogliati”. “Sono religiosa, non posso togliermi il vestito davanti ad estranei”. Egli bestemmiava e gridava: “Levati quel vestito”. Non potevo sentire quelle urla e quelle bestemmie. Mi levai il velo e lo baciai. L’ufficiale seguitava a ridere e a vomitare bestemmie. Pensai all’umiliazione di Gesù spogliato delle sue vesti. Tolsi il vestito religioso e rimasi con la gonna e una camicia con le maniche corte. Era già passata mezzanotte e mi interrogarono fino al mattino.

In quella notte del 19 luglio avevano arrestato noi della nunziatura e tutti i fratelli della cattedrale. Fu una notte tremenda: in ogni parrocchia avevano arrestato qualcuno. Per quattordici giorni ci interrogarono, poi ci trasferirono a Jilava, una prigione di Bucarest che scendeva fino a venti metri sotto terra. Mi assicuravano che mi avrebbero concesso subito la libertà, se avessi rinunciato alla vita religiosa. “Ho già fatto i voti perpetui al Signore e non a un semplice mortale”. “È solo una proposta”. Mi fecero anche un’altra proposta: “Se entri nella chiesa ortodossa, sei subito libera”. “No, io sono cresciuta nella chiesa cattolica e nella mia fede voglio morire”. “Non ti costringiamo, solo se tu vuoi”. La terza proposta: “Non occorre che tu rinunci alla vita religiosa, né alla fede cattolica. Puoi tornare in nunziatura, anche senza lavorare come prima. Basta che tu vada di parrocchia in parrocchia, guardi ciò che fanno i preti e venga a riferircelo. Ti paghiamo bene”. “Preferisco morire in prigione piuttosto che far la parte di Giuda”. Per sei mesi continuarono a farmi simili proposte.

Come era la vita a Jilava?

Le celle occupate da noi donne erano di circa sei metri per cinque. Sulle pareti della cella c’erano assi appoggiate su travi con sopra sacconi pieni di paglia. […]In questo ambiente dormivamo, strette come sardine, in settanta-ottanta donne, giovani e anziane. Potevamo coricarci solo sul fianco, perché non c’era posto per mettersi di schiena. Si può facilmente immaginare il terribile tanfo che regnava. [… ] Se si doveva lavare avevamo uno straccio grande come una mano, ci mancava poi l’acqua da bere. Ricevevamo circa tre gamelle di acqua al giorno e ci si aiutava. In estate la mancanza d’aria, il caldo e la puzza di quel locale erano davvero qualcosa di impossibile.

Come era il cibo?

Si mangiava, perché non c’era altro. A mezzogiorno di solito ci davano una gamella di orzo condito con il grasso tolto dalle frattaglie. Alle volte ci davano una poltiglia verde fatta con un po’ di foglie di cavolo. A cena si riceveva solo orzo cotto nell’acqua, ma almeno era pulito e non puzzava. A colazione c’era sempre una specie di polenta brodosa ed era una fortuna quando non era ammuffita. […]

Ci sono forse state anche delle torture?

Sì. Il 7 dicembre 1950 per esempio. Me lo ricordo ancora bene. Fui sottoposta a un duro interrogatorio, dalle sette fino alle dieci di sera. Erano in due, un ufficiale e un poliziotto. Il capitano stava seduto sul tavolo con i piedi in giù e io dovetti mettermi in piedi davanti a lui. Aveva gli stivali militari con le punte munite di archetti di ferro appositamente per colpire gli interrogati. Sedeva davanti a me e mi colpiva nelle gambe. Tac-tac, tac-tac. Faceva sempre così. A volte mi giravo, perché non ne potevo più dal dolore. Allora lui urlava, bestemmiava, mi colpiva con pugni sulla faccia e sul petto. […] Sanguinavo. Tutto questo trattamento durò tre ore. Volevano che dicessi ciò che volevano loro. Ringrazio il Signore che mi ha aiutato e mi ha dato la forza di non denunciare nessuno.
A un certo punto ricevetti un pugno molto forte sull’orecchio; sentii che si era rotto qualche cosa. Dissi che da quell’orecchio non ci sentivo più. Il poliziotto che mi aveva colpito bestemmiò e gridò che lo guardassi in viso. Mi colpì al petto con un pugno fortissimo. Dissi che sentivo sangue in bocca. Allora smisero di colpirmi.

Un giorno il giudice istruttore mi presentò una dichiarazione da firmare, in cui affermavo che il denaro lasciatomi dal nunzio era destinato ai vescovi e ai sacerdoti, per aiutare i partigiani, che combattevano contro i comunisti. […] “Non posso firmare, è una dichiarazione falsa. Quel denaro era per vivere”. Mi appioppò un paio di schiaffi da farmi vedere le stelle. Però così fui liberata dall’essere testimone in un processo. Molta gente era in prigione per false dichiarazioni.

Suor Clara, pensando alle torture passate o a quelle possibili in futuro non ha mai avuto momenti di cedimento, di abbattimento, di dubbio?

Sì, ci fu un momento di inferno. Negli interrogatori sentivo sempre bestemmie e oscenità contro il Santo Padre e la Chiesa, vedevo che loro avevano la forza. I nostri vescovi erano tutti in prigione. Fui tentata di pensare che ormai tutto era perduto, che era inutile resistere. […] Andavo avanti e indietro nella cella, continuavo a pregare, invocavo il Signore con tutto il cuore, ma non scorgevo via d’uscita. Mi sentivo perduta. Finalmente il Signore mi venne in aiuto. Sentii risuonare dentro di me la voce del Santo Padre: “ È desiderio e volontà della Chiesa che i missionari e le missionarie in tempo di persecuzione non abbandonino il campo. Devono restare al loro posto”. Sentii la voce della mia madre superiora: “Quello che hai fatto, l’hai fatto in ubbidienza”. In quel momento tutto il buio, la confusione e l’oscurità scomparvero e finirono anche gli interrogatori più difficili.

Mi dica del processo.

Il 7 marzo 1952 sono stata avvertita che il mio processo avrebbe avuto luogo il venerdì 19 aprile. Proprio il venerdì santo degli ortodossi. Al processo eravamo in quattordici. […] Quando tutti i quattordici imputati furono interrogati, iniziò la vera accusa. Il presidente a me disse che ero una spia del Vaticano, che avevo dato informazioni politiche al nunzio; che il Papa era il capo dei criminali […]. Quando sentii dire in un’aula pubblica, in un processo, che il Papa era il capo dei criminali, io che avevo servito per dodici anni la Santa Chiesa con amore e venerazione nella nunziatura, mi sentii trafiggere il cuore. In quel momento mi sentii invadere da una forza misteriosa, enorme, come se si fosse concentrata nel mio petto tutta la fede della mia povera famiglia di contadini della Moldavia, tutta la fede delle mie madri e sorelle del monastero. In quel momento io povera suora del Signore mi sentii fortissima; più forte di tutti i carri armati di Stalin.

Sentii che dovevo parlare. Sapevo che avrei aggravato la mia pena, ma non me importava proprio nulla. Con calma, ma fermissima dissi: “Chiedo la parola. Signor presidente, lei ha affermato che il Papa è il capo dei criminali. No, signor presidente, il Santo Padre non è il capo dei criminali, il Santo Padre è il rappresentate del Signore, il Santo Padre è il capo della Chiesa cattolica di tutto il mondo. Avete imprigionato tutti i vescovi, tanti sacerdoti e suore e laici cattolici. Avete abolito la chiesa cattolica di rito bizantino e avete costretto con la violenza centinaia di migliaia di persone cattoliche a passare alla religione ortodossa.

Volete costruire la vostra dittatura atea, distruggendo la chiesa, imprigionando, uccidendo. Era giusto che il nunzio apostolico informasse il Santo Padre sulla sorte dei suoi figli. Ha detto la pura verità. Era giusto che in occidente si sapesse…”.

A questo punto l’avvocato difensore, che mi era stato imposto, mi interruppe dicendo: “Signor Presidente, non badi a quello che ha detto, perché è analfabeta”. (Un’analfabeta, che parlava quattro lingue!) Il vescovo Ioan Dragomir parlò quasi un’ora. Iniziò dicendo: “Signor presidente, noi ringraziamo Dio che ci dona la grazia di essere giudicati proprio oggi, venerdì santo”.Il presidente lo interruppe gridando: “Cosa vuoi? Vuoi convertirci? Smettila”. Ma egli continuò imperterrito: “Gesù fu venduto da Giuda per trenta denari d’argento, condannato, crocifisso”.

“Vuoi catechizzarci? Finiscila!”[…] Il processo durò dalle otto del mattino fino alle dieci di sera. Alla fine i membri del tribunale si alzarono in piedi, il presidente lesse le condanne. A me diedero quattordici anni.
Finita la lettura delle condanne, il vescovo Dragomir intonò il Christus vincit. Cantammo per tre volte: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat.
Cantavo e avevo gli occhi lucidi. Per la gioia.

Intervista realizzata da Don Antonio Rossi [Trascrizione dalla rivista “Sacro Cuore”, giugno 2007]




Social network: spazio di comunione o specchio di solitudine?

Nel messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali un invito a riscoprirsi membra gli uni degli altri a partire dalle social communities.

Se guardo nello specchio dei miei social, quale profilo distinguo?

Potrebbe essere il primo e già impegnativo proposito per vivere la prossima giornata mondiale della Comunicazioni sociali che si celebra domenica 2 giugno, solennità dell’Ascensione.  Papa Francesco ha reso noto a gennaio, in occasione della memoria di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, il suo messaggio per il 2019. Il testo punta l’attenzione al mondo social, evidenziando luci ed ombre dell’ambiente digitale in cui trascorriamo buona parte delle nostre giornate, invitando a ripensare il modo in cui stiamo sulla rete. O meglio, il modo in cui ci stiamo da cristiani.

L’ambiente digitale rispecchia i guai del nostro tempo: solitudine, individualismo, frammentazione, pregiudizio, narcisismo; qui la violenza verbale arriva a ferire quanto se non di più di quella fisica, il bullismo si fa cyberbullismo, il desiderio cade nella pornografia. Così – afferma il papa – la rete assomiglia piuttosto «a una ragnatela capace di intrappolare» che ad un mare di opportunità e contatti che apre all’altro, anche in capo al mondo.

Se la metafora della rete rivela ormai anche il suo lato oscuro, finisce pure per suonare un po’ datata. Di fatto Papa Francesco propone nel messaggio di passare ad una nuova, felice metafora: «quella del corpo e delle membra che San Paolo usa per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce. La metafora del corpo e delle membra -continua il papa- ci porta a riflettere sulla nostra identità, che è fondata sulla comunione e sull’alterità».

Come al solito la Parola ci riporta su un piano differente, quello in cui sei costretto a guardarti dentro, per considerare, anche nello specchio dei social, la tua relazione con il Signore e gli altri. Per il cristiano, infatti, pure il “nemico” chiede di essere visto con occhi differenti. «Come cristiani ci riconosciamo tutti membra dell’unico corpo di cui Cristo è il capo. Questo ci aiuta a non vedere le persone come potenziali concorrenti, ma a considerare anche i nemici come persone.

Non c’è più bisogno dell’avversario per auto-definirsi, perché lo sguardo di inclusione che impariamo da Cristo ci fa scoprire l’alterità in modo nuovo (…) Dalla fede in un Dio che è Trinità consegue che per essere me stesso ho bisogno dell’altro.  Sono veramente umano, veramente personale, solo se mi relaziono agli altri».

Insomma, lo specchio dei social, da cui perlustro e navigo in rete, può diventare la lente con cui guardo chi sta dietro il profilo che ho davanti. Chi si svela, si cela o si rivela attraverso un social network? Forse qualcuno che mi attende o è ferito, solo, o incattivito. Per capire chi sono il miglior specchio è il volto dell’altro.

La conclusione del messaggio del papa ci ricorda un altro aspetto quasi sorprendente. Il paradigma di un mondo connesso per il cristiano non è facebook, neppure whatsapp, ma la santa messa. Non c’è realtà più capace di esprimere la connessione di questa. Qui Gesù sorpassa alla grande Steve Jobs e al confronto Zuckerberg è un pivello.

Nella santa messa la connessione è comunicazione, diventa comunione. Presente e passato (la storia della Salvezza) si tengono insieme attraverso la Parola proclamata e ascoltata – la stessa in tutte le chiese del mondo-, il Cielo e la terra si incontrano. Tutti “in rete” attraverso l’unico pane e l’unico calice – gli stessi in ogni parte del globo – entriamo in comunione con il corpo e il sangue di Cristo presente nelle sacre specie. La frammentazione e la solitudine sono superate per il dono dello Spirito Santo che ci fa «un solo corpo e un solo Spirito». La messa è lo spazio della connessione ecclesiale, nella quale preghiamo gli uni per gli altri, ricordiamo il vescovo del luogo e il nome del papa, preghiamo con i santi e per i defunti.  È anche il luogo in cui possiamo imparare a vivere relazioni nuove e rinnovate. Non c’è spazio per gli haters, non c’è violenza o isolamento, ma una scuola di tenerezza e di comunione, di misericordia, di dono di sé. La messa chiede ascolto, tempo e anche silenzio. L’eucaristia custodisce il segreto della festa e della gioia. Ci ricorda che è proprio oggi il tempo di passare dal like all’amen.

«La Chiesa stessa – scrive Francesco – è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sul “like”, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».

Ci avevi mai pensato?

Ugo Feraci – Ufficio Comunicazioni Sociali e Cultura

 

Quant’è comunità la tua community?

Dalle parole del Papa un piccolo test per valutare la propria vita social personale e comunitaria.

Prendendo spunto da alcuni passaggi del messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali  ricaviamo un piccolo “esame di coscienza” personale e/o comunitario che potrebbe accompagnare la giornata di domenica 2 giugno e qualche riflessione comunitaria. Una sorta di test di auto valutazione sulla propria vita social che non ha altra pretesa che quella di farci pensare a come stiamo online.

VAI AL TEST ONLINE…




Assemblea generale CEI: nel comunicato finale una nomina “pistoiese”

Incarico nazionale per un sacerdote della nostra diocesi

Si è appena conclusa la 73a assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. L’esito dei lavori è riassunto nel comunicato finale pubblicato oggi 23 maggio.

Nel comunicato della CEI sono elencate anche le nomine ratificate all’interno dell’assemblea. Tra di esse siamo lieti di notare la presenza di un giovane sacerdote della nostra diocesi: Don Elia Matija, parroco di Carmignano, che è stato nominato “Coordinatore nazionale della pastorale dei cattolici albanesi in Italia“.

Don Elia Matija, è nato infatti in Albania, in un piccolo villaggio (Sheldi) vicino a Scutari, il 27 aprile 1980. Dopo un periodo di formazione nel seminario interdiocesano diretto dai Gesuiti Elia ha lasciato il suo paese, per raggiungere fortunosamente l’Italia e qui iniziare un’esperienza lavorativa. Nel 2003 tuttavia, Elia ha riconsiderato la chiamata al Signore e dopo essere entrato nella Fraternità Apostolica di Gerusalemme di Pistoia ha vissuto qui gli anni di formazione al sacerdozio. Adesso Elia è un sacerdote diocesano, incardinato nella Chiesa di Pistoia. Elia ha svolto la sua attività pastorale presso l’ospedale San Jacopo di Pistoia, quindi come vicario parrocchiale di Lamporecchio. Attualmente è anche Direttore dell’Ufficio per la pastorale dei Migranti.

Ci congratuliamo con don Elia, augurandogli un buon lavoro in questo nuovo e importante incarico ecclesiale.

Il comunicato finale CEI

Il comunicato finale si apre con un riferimento al discorso di apertura di Papa Francesco, centrato sui temi della collegialità e sinodalità, dei processi matrimoniali e dei rapporti tra vescovo e sacerdoti. Poiché la sinodalità è dimensione costitutiva della Chiesa il Papa ha invitato a praticare una sinodalità “dal basso all’alto”, aperta dunque al coinvolgimento dei laici, come una sinodalità “dall’alto al basso”, cioè secondo le indicazioni tracciate dal papa stesso in occasione del convegno ecclesiale di Firenze. Circa la riforma dei processi matrimoniali Francesco raccomanda “celerità e gratuità delle procedure”, mentre invita a coltivare con attenzione il rapporto tra vescovo e sacerdoti, “vera e propria spina dorsale su cui si regge la comunità diocesana”.

Il comunicato, quindi affronta tre punti:

  1. Una triplice preoccupazione; in primo luogo per la riforma del terzo settore, che non valorizza, ma mortifica l’associazionismo e l’operoso contributo dei corpi intermedi; in secondo luogo per le prossime elezioni europee, turbate da paure, chiusure e “polarizzazioni ideologiche” cui occorre contrapporre il patrimonio che nasce dell’umanesimo cristiano, attento a promuovere tutti i valori legati alla persona e alla sua dignità; infine, in terzo luogo, per le zone del centro Italia segnate dal terremoto e ancora lontane da un ritorno alla normalità.
  2. Tempo di missione.  La Chiesa in Italia si è interrogata sulle modalità e gli strumenti per una nuova presenza missionaria. Le conclusioni dei lavori suggeriscono un “recupero di una spiritualità missionaria” per, “uscire” e “stare con”; la valorizzazione del rientro di presbiteri e laici fidei donum; la priorità della Parola, anche attraverso la costituzione di piccoli gruppi del Vangelo. Tante le piste e le indicazioni di lavoro, orientate all’intreccio tra vita e fede, alla missione coniugata con le opere nella fraternità, nell’incontro e nell’accoglienza dell’altro, nell’attenzione ai più deboli e poveri.
  3. Il minore al centro. Nel corso dei lavori sono state approvate le Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Un testo di grande rilievo per la vita pastorale della chiesa italiana che tiene come punto centrale la cura e la protezione dei più piccoli e vulnerabili come valori supremi da tutelare.

Scarica il comunicato finale

 




Un progetto scolastico per superare la globalizzazione dell’indifferenza

L’impegno dell’Ufficio Scuola diocesano e Caritas Pistoia per far riflettere le nuove generazioni sulle nuove povertà, le migrazioni, lo stato sociale

Dal 2015 l’Ufficio Scuola diocesano (Servizio per l’I.R.C.) e Caritas Pistoia collaborano con gli Istituti superiori nella formazione degli studenti all’interno della Diocesi di Pistoia.

Nel corso degli ultimi anni gli sviluppi e le radicali trasformazioni all’interno del nostro contesto sociale hanno portato alla necessità di aprire una riflessione con le nuove generazioni, con la finalità di educarle a leggere con attenzione e spirito critico l’ambiente circostante. Per questa ragione agli insegnanti sono stati proposti alcuni percorsi da presentare ai ragazzi con tematiche estremamente attuali come le nuove povertà, l’intercultura, le nuove migrazioni e infine una riflessione sullo stato sociale, verso una prospettiva di welfare generativo.

Gli incontri in classe, realizzati e condotti da due operatori sociali, hanno sia avuto il metodo della lezione frontale sia quello più interattivo di dialogo con i ragazzi, anche grazie all’uso di proiezioni di filmati, diapositive e testimonianze.

L’oggetto di studio, come detto, ha interessato diversi ambiti; il primo dei quali ha riguardato la presentazione e la sensibilizzazione verso la tematica delle nuove povertà, in particolare attraverso l’illustrazione del metodo Caritas, volto alla promozione umana delle persone in difficoltà, e la presentazione delle opere segno attive sul territorio.

In secondo luogo la riflessione ha riguardato il fenomeno storico, culturale e politico delle migrazioni; da un lato attraverso la conoscenza delle rotte migratorie che vanno dall’Africa al Mar Mediterraneo, dall’altra verso la prospettiva dell’intercultura come scambio e non solo scontro nei confronti di tutto ciò che è diverso da noi.

Infine l’analisi sullo stato sociale, specialmente quello italiano, ha portato alla necessità di una nuova visione di welfare, verso un’ottica generativa in cui la persona prima di tutto è portatrice di risorse che può mettere a disposizione nella propria comunità.

Tutte queste riflessioni sono state stimolate e portate avanti durante l’anno scolastico dai vari insegnanti, che hanno visto in questo progetto il possibile punto di partenza verso un pensiero che stimoli il ragazzo ad essere ancora più consapevole e protagonista dei propri spazi e di conseguenza dell’intera comunità.




Il coraggio di rischiare per la promessa di Dio

Domenica 12 maggio si celebra la 56° giornata di preghiera per le vocazioni. Per l’occasione Papa Francesco ha preparato un messaggio dal titolo che qui presentiamo in sintesi.

In questa Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni vorrei riflettere su come la chiamata del Signore ci rende portatori di una promessa e, nello stesso tempo, ci chiede il coraggio di rischiare con Lui e per Lui.
Vorrei soffermarmi brevemente su questi due aspetti – la promessa e il rischio – contemplando insieme a voi la scena evangelica della chiamata dei primi discepoli presso il lago di Galilea (Mc 1,16-20).

La promessa

Presso il lago di Galilea, Gesù è andato incontro a quei pescatori spezzando la «paralisi della normalità» e subito ha rivolto a loro una promessa: «Vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17).

La chiamata del Signore allora non è un’ingerenza di Dio nella nostra libertà; non è una “gabbia” o un peso che ci viene caricato addosso. Al contrario, è l’iniziativa amorevole con cui Dio ci viene incontro e ci invita ad entrare in un progetto grande, del quale vuole renderci partecipi, prospettandoci l’orizzonte di un mare più ampio e di una pesca sovrabbondante.

Se qualche volta ci fa sperimentare una “pesca miracolosa”, è perché vuole farci scoprire che ognuno di noi è chiamato – in modi diversi – a qualcosa di grande, e che la vita non deve restare impigliata nelle reti del non-senso e di ciò che anestetizza il cuore. La vocazione, insomma, è un invito a non fermarci sulla riva con le reti in mano, ma a seguire Gesù lungo la strada che ha pensato per noi, per la nostra felicità e per il bene di coloro che ci stanno accanto.

Il rischio

Naturalmente, abbracciare questa promessa richiede il coraggio di rischiare una scelta. I primi discepoli, sentendosi chiamati da Lui a prendere parte a un sogno più grande, «subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,18). Ciò significa che per accogliere la chiamata del Signore occorre mettersi in gioco con tutto sé stessi e correre il rischio di affrontare una sfida inedita; bisogna lasciare tutto ciò che vorrebbe tenerci legati alla nostra piccola barca, impedendoci di fare una scelta definitiva…
In sostanza, quando siamo posti dinanzi al vasto mare della vocazione, non possiamo restare a riparare le nostre reti, sulla barca che ci dà sicurezza, ma dobbiamo fidarci della promessa del Signore.

Vocazione battesimale

Penso anzitutto alla chiamata alla vita cristiana, che tutti riceviamo con il Battesimo e che ci ricorda come la nostra vita non sia frutto del caso, ma il dono dell’essere figli amati dal Signore, radunati nella grande famiglia della Chiesa.

Vocazioni diverse

Penso alla scelta di sposarsi in Cristo e di formare una famiglia, così come alle altre vocazioni legate al mondo del lavoro e delle professioni, all’impegno nel campo della carità e della solidarietà, alle responsabilità sociali e politiche, e così via … i contesti sociali e culturali in cui viviamo … hanno bisogno di cristiani coraggiosi e di autentici testimoni del Regno di Dio.

Nell’incontro con il Signore qualcuno può sentire il fascino di una chiamata alla vita consacrata o al sacerdozio ordinato. (…) Non c’è gioia più grande che rischiare la vita per il Signore! In particolare a voi, giovani, vorrei dire: non siate sordi alla chiamata del Signore!

Quale impegno?

Carissimi, non è sempre facile discernere la propria vocazione e orientare la vita nel modo giusto. Per questo, c’è bisogno di un rinnovato impegno da parte di tutta la Chiesa – sacerdoti, religiosi, animatori pastorali, educatori – perché si offrano, soprattutto ai giovani, occasioni di ascolto e di discernimento. C’è bisogno di una pastorale giovanile e vocazionale che aiuti la scoperta del progetto di Dio, specialmente attraverso la preghiera, la meditazione della Parola di Dio, l’adorazione eucaristica e l’accompagnamento spirituale.

Guardare a Maria con una domanda

Come è emerso più volte durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Panamá, dobbiamo guardare a Maria (…) La sua missione non è stata facile, eppure lei non ha permesso alla paura di prendere il sopravvento… domando a ognuno di voi: vi sentite portatori di una promessa? Quale promessa porto nel cuore, da portare avanti?

In questa Giornata, ci uniamo in preghiera chiedendo al Signore di farci scoprire il suo progetto d’amore sulla nostra vita, e di donarci il coraggio di rischiare sulla strada che Egli da sempre ha pensato per noi.

 

PREGHIERA PER LA 56° GIORNATA MONDIALE PER LE VOCAZIONI

Gesù buono,
tu vedi in noi
il germinare misterioso del buon seme
che hai gettato nella nostra vita
e il grano che cresce
insieme alla zizzania:
donaci di essere
terra fertile e spighe feconde
per portare il frutto da Te sperato.

Tu vedi in noi il lievito silente
da impastare nella massa del mondo
e l’acqua semplice che diventa
vino nuovo:
donaci di essere fermento vivo
ed efficace
per gonfiare di Te
l’umanità del nostro tempo
e di poter gustare
quel sapore buono ed allegro
della comunione
e del reciproco dono di sé.

Tu vedi in noi il tesoro nascosto
per il quale hai rinunciato
a tutti i tuoi averi
e la perla di grande valore
che hai comprato
a prezzo del tuo sangue:
donaci di desiderare e cercare la santità
come ricchezza inestimabile
per la nostra vita.

Signore Gesù,
guarisci il nostro sguardo
perché nella realtà,
che già ci chiama
ad essere tuoi discepoli,
possiamo vedere l’Invisibile:
illumina i nostri occhi
affinché tutti
riconosciamo
e scegliamo
la bellezza della nostra vocazione.
Amen.




Il servita della tribù dei leoni

Un ricordo di Padre Benedetto Biagioli

Riposa nel piccolo cimitero di Iano, padre Benedetto Biagioli, nella terra dove trascorse i primi anni d’infanzia ma lontano da quell’Africa che aveva conquistato il suo cuore. D’altronde padre Benedetto era così, andava dove c’era bisogno, non dove piaceva a lui, e anche in punto di morte non espresso volontà in merito alla sepoltura: mettetemi dove pensate sia meglio per voi, ha lasciato detto.

A Pistoia, la sua diocesi, è poco conosciuto perché si chiamava ancora Oscar e aveva appena iniziato le elementari quando fu mandato a studiare dai Servi di Maria a Figline Valdarno, grazie a una benefattrice che fornì le risorse economiche alla sua numerosa famiglia. Cresciuto tra i frati, decise di rimanere, prese i voti, cambiando il nome in Benedetto, e poi divenne sacerdote, nel 1949. Due anni dopo, quando un padre missionario rientrato dallo Swatziland chiese rinforzi, decise di rispondere all’appello, con quello spirito che, dicevamo, lo ha contraddistinto sempre, mettendosi a disposizione di chi aveva bisogno.

Nel 1987 poi, il vescovo della vasta diocesi di Lugazi, in Uganda, per ascoltare il desiderio di alcuni suoi giovani che volevano diventare Servi di Maria, si rivolse alla missione servita più vicina che era appunto quella dello Swatziland (quattromila chilometri, come da Mosca a Madrid!) e ancora una volta, padre Benedetto lasciò quel che aveva iniziato per creare la parrocchia di Kisoga, non lontano dalle sponde nord del lago Victoria, ventimila anime che non avevano nemmeno una chiesa. Prima ancora di occuparsi dell’evangelizzazione, padre Benedetto volle riorganizzare e risistemare le venti scuole elementari già esistenti, creando poi quelle medie e superiori. La prima chiesa vera e propria arrivò dopo, nel 1994. Negli anni si aggiunsero rinforzi dall’Italia e soprattutto, nel 2000 si affiancarono ai fratelli due sorelle mantellate, suor Benizia e suor Giuditta, permettendo loro di avviare ancora altri progetti.

È lì che padre Benedetto spese venticinque anni della sua vita e lasciò un segno indelebile: i suoi parrocchiani lo avevano ribattezzato Kateregga della tribù ‘Mpologoma, ovvero “dei leoni”, nome che ne contraddistingueva perfettamente lo spirito combattivo e tenace.

Fu costretto a rientrare in Italia nel 2002 a causa di una malattia che necessitava di cure attente, e anche qua continuò ad esercitare il suo ministero con lo stesso stile, andando dove lo mandavano: a Massa Carrara, poi a Pisa, perfino a Manduria, in Puglia; fu anche priore a Firenze e dal 2009 rettore della basilica di San Clemente ai Servi a Siena. Solo negli ultimi tre anni, quando la malattia ormai galoppava, si fermò a Siena, dove morì il 23 aprile del 2015.

Rimase tuttavia fortemente legato alla sua Kisoga, come ricorda per esempio don Giacomelli che ne era amico: continuava con impegno e dedizione a raccogliere fondi per sostenere i progetti della parrocchia ugandese dove i fratelli serviti con le suore mantellate si spendono tuttora per la promozione umana e spirituale del popolo e dove padre Benedetto è venerato come un santo.
Suor Floriana, delle nostre Mantellate, che ha visitato la parrocchia ugandese andando a trovare lì sua sorella suor Giuditta, è rimasta colpita dal fatto che ogni pietra, ogni progetto rievoca il nome di padre Biagioli: la casa per anziani, intuizione e costruzione di padre Benedetto, le scuole, la chiesa naturalmente; tutti laggiù lo venerano al punto che vorrebbero poterne custodire la salma nella loro parrocchia.
Il nostro servita non è stato solo un gran lavoratore: impressionava chiunque si avvicinasse a lui l’atteggiamento assolutamente privo di giudizio nei confronti degli altri; il nipote Paolo, preside del liceo scientifico, sintetizza così i ricordi che conserva dello zio: «ci ha fatto assaporare la tenerezza di Dio». E sua moglie mi ha confidato: «non mi meraviglierei affatto se sentissi di qualche miracolo attribuito a padre Benedetto».

Beatrice Iacopini




Cercasi adulti credenti, credibili e felici di esserlo

Intervista a don Armando Matteo sulla relazione tra la Chiesa e le nuove generazioni alla luce dell’esortazione di Papa Francesco “Christus vivit

di Daniela Raspollini

Don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale all’Università Urbaniana di Roma e noto conoscitore del mondo giovanile, ci presenta la proprie riflessioni sull’esortazione post-sinodale di Papa Francesco “Christus vivit”.

Cosa l’ha colpita di più dell’esortazione di Papa Francesco “Christus vivit”?

Quello che mi ha colpito di più, nell’esortazione di papa Francesco “Christus vivit”, è l’affetto. Sì, l’incredibile affetto che questo papa esprime per le nuove generazioni. Un affetto che trova, forse, una spinta in più nella consapevolezza che il tempo che viviamo non è esattamente “un tempo per giovani”. E Francesco, questa cosa qui, la dice a tutto tondo da tanto tempo e la rimarca con vigore in questa Esortazione. Da una parte e all’altra del mondo, i nostri giovani non sono messi nella condizione di esprimere tutta quella potenzialità di energia e di creatività che è loro propria. E questo affetto diventa poi sinonimo di fiducia e diventa richiamo, appello, persino rimprovero ad una società di adulti e di vecchi che sempre di più si sono prostrati al culto della giovinezza, marginalizzando in modo vergognoso proprio i giovani.

L’esortazione parla di una pastorale giovanile che vede strutture in cui i giovani spesso non trovano risposte alle loro inquietudini. A suo avviso quali sono i limiti più diffusi nella pastorale giovanile?

Ci vuole un coraggio “da papa” per riconoscere tutto questo! Ma è la semplice verità. Non addosso responsabilità specifiche alla pastorale giovanile, i cui responsabili anzi si danno sempre un gran da fare. Ma come credenti, adulti e vecchi, facciamo una fatica matta a capire il grande fossato che si è creato tra le nuove generazioni e l’attuale cristianesimo. Ancora facciamo una fatica da matti a capire come è cambiato il modo di vivere oggi la giovinezza, da parte dei giovani veri, in un tempo in cui tutti noi – tutti noi adulti e vecchi – non pensiamo ad altro che a restare giovani per sempre! Per cui i limiti della pastorale giovanile sono i limiti dell’agire pastorale tout court: un agire pastorale spesso, troppo spesso, autoreferenziale, che continua ad andare bene per alcuni, sempre di meno e sempre più vecchi, e che non si rende conto di quanto è davvero cambiata la vita della gente. E che dunque non è più tempo di una pastorale del cambiamento, quanto di un vero e proprio cambiamento della pastorale.

Nel documento Papa Francesco afferma che i giovani hanno bisogno di una chiesa che non stia continuamente a condannare, a combattere su due o tre temi, fino a diventare talvolta irritante. Cosa suggerirebbe alla nostra chiesa in Italia?

Di mettere semplicemente in pratica ciò che 15 anni fa i nostri vescovi hanno scritto nella nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: dare priorità alla questione dell’adulto! Il punto è che oggi abbiamo, da una parte, adulti e vecchi che possono e non vogliono crescere e, dall’altra, giovani e ragazzi che vogliono e non possono crescere. È ormai un segreto di Pulcinella quello per i quale siamo in un deficit pazzesco circa la qualità veramente adulta degli adulti. Penso in particolare ai nati tra il 1954 e il 1984. Che siamo poi i papà, le mamme, i docenti, gli istruttori dei nostri giovani. In una parola: i loro modelli di vita! E che modelli! Se si pensa che per noi adulti i nostri modelli sono proprio i nostri figli e i nostri alunni.
In una parola: sta pure per finire il decennio dedicato dalla Chiesa italiana all’educazione, ma non è per nulla finita l’emergenza educativa. E quest’emergenza educativa è che ci servono al più presto adulti credenti, credibili e soprattutto felici di essere adulti. Ed è solo la Chiesa, insieme alla scuola, a poter e voler portare avanti questa battaglia. Le altre componenti della società, dalla politica all’economia, dalla cultura al mondo della comunicazione, giusto per citarne alcune, sono ben felici di aver a che fare con adulti che pensano solo a fare i giovani; insomma, con adulti imbecilli e permanentemente infelici!

Tra i tanti suggerimenti, inviti e riflessioni presenti nel documento c’è anche l’appassionato appello ai giovani affinché diventino “missionari coraggiosi” andando anche controcorrente; pensa che i giovani abbiano la voglia di accogliere e “vivere secondo Francesco”?

Questo vale già per alcuni dei nostri giovani e si può sperare che varrà per molti altri. D’altro canto, la nostra è una Chiesa “cattolica” e dunque differenti sono le situazioni in cui vanno a tradursi concretamente gli appelli e le indicazioni del magistero. Per il nostro Paese, penso che sia molto più pertinente l’indicazione di “Christus vivit” per la quale è l’intera comunità che si debba fare carico dell’annuncio del Vangelo e della cura delle nuove generazioni. Non si può più pensare di delegare questo ad un settore specifico. La situazione non è delle migliori da noi. Nelle nuove generazioni, aumenta la quota di chi si dichiara proprio fuori dalla tribù cattolica e spesso questo riguarda non solo i ragazzi e i giovani maschi, ma anche le ragazze e le giovani donne. Insomma, da noi il fenomeno più forte è che piccole atee crescono!

Il Papa parla di giovani con radici per affrontare il tema del rapporto tra generazioni. È davvero così sgangherato questo rapporto tra giovani e anziani?

Più che con gli anziani, la questione ha a che fare con gli adulti. Per intenderci, sono anziani i nati prima del 1954. In verità sono gli adulti che hanno mandato all’aria il rapporto tra le generazioni: per loro l’unico modello di esistenza accettabile e degno del desiderio umano è quello della giovinezza. Noi adulti, infatti, non vogliamo minimamente pensare a cose come adultità, maturità, responsabilità, generatività, passaggio di testimone. Ed è per questo che trattiamo i nostri figli non come i veri eredi del mondo, ma come piccole divinità da custodire, adorare e soprattutto contenere in confini bene limitati.

Crede che con il pontificato di Papa Francesco sia cambiato qualcosa nel rapporto tra i giovani e la Chiesa? Oppure che la tendenza sia comunque quella di un graduale allontanamento dalla Chiesa?

Noi cattolici facciamo statisticamente fatica a fidarci delle statistiche, e purtroppo le statistiche più recenti confermano l’esponenziale allontanamento delle nuove generazioni dall’universo cattolico. E ripeto, la cosa che deve interrogarci di più è che questo vale sia per i giovani maschi che per le giovani donne.

Il problema principale, a suo avviso, è la mancanza di credibilità e fiducia nei confronti della Chiesa o il venir meno della fede?

Consapevole di dire qualcosa di poco condiviso nella Chiesa italiana, in tutti i miei saggi sostengo che, con i giovani, la vera questione è quella della fede. Nonostante tutto il nostro gran da fare, nelle parrocchie, negli oratori, nei movimenti e nelle associazioni, la mancanza di testimonianza di fede cristiana vissuta, da parte dei genitori e degli altri adulti della società, impedisce ai giovani di comprendere che cosa la fede cristiana abbia a che fare con il loro personale processo di definizione della propria identità adulta. Insomma, la fede è, per loro, sempre di più una questione da bambini e finché si rimane bambini. Per questo, poi, ad un certo punto lasciano la comunità cattolica e diminuisce radicalmente l’interesse per la fede cristiana. E la lasciano senza sbattere le porte e senza alcun sentimento di colpa. In “Evangelii gaudium”, Papa Francesco parla giustamente di rottura della trasmissione generazionale della fede all’interno del popolo cattolico e a mio avviso alla radice di questo fenomeno c’è proprio quella “adorazione della giovinezza”, che egli stigmatizza in “Christus vivit”; una tale adorazione fa sì, come già detto, che per noi adulti e vecchi la vita al massimo e il massimo della vita sia “restare giovane”. Questo per noi adulti e vecchi vale più di Dio, più del Vangelo, più della Chiesa. O meglio è questo, per noi, il nostro dio, il nostro vangelo, la nostra chiesa. Sotto queste condizioni, come potremmo indicare/testimoniare allora ai giovani il legame, che pur esiste, tra vita adulta compiuta e sequela di Gesù? Da qui si deve ripartire. Al più presto.




Nel centro storico “il sentiero dei bambini colorati”

Il Centro Sportivo Italiano comitato di Pistoia e la Federazione Italiana Scuole Materne organizzano sabato 30 marzo 2019, una passeggiata per le vie del centro storico di Pistoia dalle ore 15,00, con ritrovo in piazza dello Spirito Santo. A spiegarci il senso di questo evento Silvia Noci, responsabile del CSI di Pistoia.

Qual è il significato di questa iniziativa, “Il sentiero dei bambini colorati”, che volete proporre alla città?

La nostra associazione sportiva è da sempre vicina ai bambini cercando di applicare il principio di “educare attraverso lo sport”. Quest’anno proprio in occasione del nostro 75° compleanno vogliamo coinvolgere maggiormente tante realtà del nostro comune e della nostra provincia.

Dove si svolgerà e qual è il programma?

Ci ritroveremo con i bambini delle Scuole Materne e le loro famiglie in Piazza Spirito Santo ed attraverseremo con un corteo coloratissimo le strade del centro storico toccando la Sala, Piazza del Duomo, fino ad arrivare all’Area Verde dietro la Chiesa di San Bartolomeo in Pantano dove i bimbi saranno intrattenuti da artisti di strada ed animatori sportivi.

Come è nata questa collaborazione con la Fism?

Il nostro Ente di promozione Sportiva ha sempre affiancato in passato il Coni per la promozione sportiva negli istituti scolastici, sia delle scuole elementari che materne. E ora continuiamo questa collaborazione con La Fism per portare un’ora di attività motoria a settimana in ogni classe. Oltretutto siamo parte del mondo cattolico che la Fism rappresenta nell’area scolastica.

Con i piccoli partecipanti anche il nostro vescovo Fausto: cosa vi aspettate da questo incontro?

È fondamentale che il mondo cattolico diocesano diventi un collante tra la realtà scolastica e quella sportiva e la presenza di monsignor Tardelli a queste nostre iniziative rafforza questo percorso.

D.R.




La fede in Siria tiene accesa la speranza

Don Ihab Alrachid, sacerdote della diocesi di Damasco, racconta le sofferenze e le speranze dei cristiani in Siria. Don Ihab offrirà la sua testimonianza a Pistoia in occasione della Veglia per i missionari martiri di sabato 23 marzo.

Don Ihab, lei è sacerdote di rito greco-melchita cattolico della diocesi di Damasco (Siria). Può raccontarci qualcosa della sua chiesa e della sua storia?

Sì, io sono sacerdote della chiesa greco melchita cattolica di Damasco. La nostra chiesa è molto antica ed è in comunione con quella di Roma. Seguiamo un rito bizantino che risale a san Giovanni Crisostomo. La nostra, dopo quella ortodossa, è la seconda chiesa in Siria. Personalmente ho frequentato il seminario maggiore dal 1992 al 1998 in Libano a Beirut, nel 1999 sono stato ordinato sacerdote a Damasco, dove ho lavorato come segretario presso il vescovo che è anche il patriarca della nostra Chiesa greco melchita cattolica. Sono stato poi a Roma per motivi di studio; qui ho conseguito la Licenza al Pontificio Istituto Orientale e nel 2010 ho discusso il dottorato in Diritto Canonico all’Università Lateranense. Poi ho fatto ritorno in Siria per qualche anno. Adesso sono di nuovo a Roma a perfezionare i miei studi alla Sacra Rota.

Com’è cambiata la situazione per i cristiani con la guerra?

Prima della guerra in Siria avevamo una certa libertà religiosa: professavamo senza pericolo la nostra fede, potevamo festeggiare liberamente le nostre feste. Anzi, le feste cristiane erano feste pubbliche, così pure il giorno di riposo, che generalmente è il venerdì e il sabato in Medio Oriente, era tutelato per i cristiani. Quanti erano impiegati statali potevano arrivare al lavoro un po’ più tardi, così da permettere la frequenza della messa. Con la guerra, che ormai dura da otto anni, sono cambiate tante cose, specialmente là dove sono entrati i gruppi di terroristi armati. Questa gente, quasi tutta proveniente dall’estero, è venuta per rapire e uccidere, specialmente i cristiani. Tanti sono morti per la fede in Siria. Come ha detto papa Francesco «i martiri portano avanti il Regno di Dio, seminano cristiani per il futuro». Tanti erano i martiri nei primi secoli ma ora, di nuovo, è grande il numero di quanti perdono la vita per la fede cristiana.
Purtroppo, ormai, molti cristiani sono andati via dalla Siria. Non c’è una cifra esatta, ma pensiamo circa la metà. È una perdita importante. Adesso sono sparsi in tutto il mondo; tanti cristiani sono fuggiti negli Stati Uniti, in Canada, Australia, per salvare la loro vita.

Crede che ritorneranno?

Non ne abbiamo la sicurezza. Ma questa è la nostra terra, la terra dove è nato il Salvatore. Anche il Papa ha detto: «Vogliamo affermare ancora una volta che non è possibile immaginare il Medio Oriente senza cristiani».

Ci sono alcuni episodi che lo hanno colpito in questi anni di violenza e di guerre?

Conoscevo tre persone che abitavano in un villaggio a 55 km da Damasco, il villaggio di Lula. Il 90% della popolazione lì è fatto da cristiani. Tre persone sono morte, una dopo l’altra, uccise dai terroristi perché non hanno accettato di rinnegare la loro fede cristiana. Io personalmente conoscevo tutti e tre, ma uno in particolare che svolgeva il compito di sacrestano nella chiesa del villaggio. Ci ha raccontato il fatto la sorella di uno di loro, che nascosta ha visto come i terroristi hanno ucciso il fratello senza poter reagire. Se l’avessero trovata sarebbe toccato anche a lei. Se i terroristi vedono le ragazze le violentano e poi le rapiscono, oppure se si rifiutano le uccidono subito.

Come si vive oggi la fede in Siria?

In Siria le nostre chiese sono ancora piene di fedeli dopo otto anni di guerra. Anche se andare in chiesa diventa molto pericoloso. Molti sono morti cercando di arrivarci. Un ragazzo che conoscevo, membro del coro della mia ex parrocchia, mentre stava andando in chiesa per guidare le prove del coro dei bambini è morto per la caduta di un razzo. Eppure le nostre chiese sono piene di fedeli. In Siria, nonostante tutto, siamo ancora molto attaccati alla fede e mi dispiace quando vedo qui in Italia o in Europa le chiese vuote. Dobbiamo ritornare alle radici del cristianesimo.

Qual è l’impegno di Aiuto alla Chiesa che soffre in Siria? Quali progetti e quali priorità ci sono adesso?

ACS, sapendo che ero studente a Roma, mi ha contattato per andare in giro a offrire una testimonianza. Questa fondazione di diritto pontificio è entrata in Siria per aiutare i cristiani rimasti in patria che ora sono bisognosi di tutto. La guerra ha portato tante distruzioni, anche molte chiese sono state distrutte. Aiuto alla Chiesa che Soffre ha aiutato finora molte comunità, sia per la ricostruzione delle chiese che per la vita quotidiana dei fedeli. Il progetto che proporremo a Pistoia riguarda la città di Lattakia e il sostegno alla tante famiglie di sfollati che vivono lì e sono bisognose di tutto.
Appena ho un po’ di tempo cerco di offrire la mia testimonianza, per raccontare com’era prima la situazione dei cristiani e com’è adesso. In Siria cristiani e musulmani andavano d’accordo. Ricordo che San Giovanni Paolo II nel 2001 ha potuto visitare la Grande Moschea di Damasco dove si trovano i resti di Giovanni Battista. Prima la situazione era molto diversa.

Quale futuro immagina per il suo paese?

Non possiamo perdere la speranza. La situazione è molto migliorata. Adesso i gruppi terroristici sono stati respinti in gran parte. Speriamo che la Siria ritorni come prima e specialmente che i cristiani possano tornare. Preghiamo perché questa guerra possa finire al più presto. Vorrei, infine, ringraziare la Diocesi di Pistoia per questo invito e per l’opportunità di testimoniare che cosa hanno subito i cristiani in Siria.

Daniela Raspollini