Il coraggio di rischiare per la promessa di Dio

Domenica 12 maggio si celebra la 56° giornata di preghiera per le vocazioni. Per l’occasione Papa Francesco ha preparato un messaggio dal titolo che qui presentiamo in sintesi.

In questa Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni vorrei riflettere su come la chiamata del Signore ci rende portatori di una promessa e, nello stesso tempo, ci chiede il coraggio di rischiare con Lui e per Lui.
Vorrei soffermarmi brevemente su questi due aspetti – la promessa e il rischio – contemplando insieme a voi la scena evangelica della chiamata dei primi discepoli presso il lago di Galilea (Mc 1,16-20).

La promessa

Presso il lago di Galilea, Gesù è andato incontro a quei pescatori spezzando la «paralisi della normalità» e subito ha rivolto a loro una promessa: «Vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17).

La chiamata del Signore allora non è un’ingerenza di Dio nella nostra libertà; non è una “gabbia” o un peso che ci viene caricato addosso. Al contrario, è l’iniziativa amorevole con cui Dio ci viene incontro e ci invita ad entrare in un progetto grande, del quale vuole renderci partecipi, prospettandoci l’orizzonte di un mare più ampio e di una pesca sovrabbondante.

Se qualche volta ci fa sperimentare una “pesca miracolosa”, è perché vuole farci scoprire che ognuno di noi è chiamato – in modi diversi – a qualcosa di grande, e che la vita non deve restare impigliata nelle reti del non-senso e di ciò che anestetizza il cuore. La vocazione, insomma, è un invito a non fermarci sulla riva con le reti in mano, ma a seguire Gesù lungo la strada che ha pensato per noi, per la nostra felicità e per il bene di coloro che ci stanno accanto.

Il rischio

Naturalmente, abbracciare questa promessa richiede il coraggio di rischiare una scelta. I primi discepoli, sentendosi chiamati da Lui a prendere parte a un sogno più grande, «subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,18). Ciò significa che per accogliere la chiamata del Signore occorre mettersi in gioco con tutto sé stessi e correre il rischio di affrontare una sfida inedita; bisogna lasciare tutto ciò che vorrebbe tenerci legati alla nostra piccola barca, impedendoci di fare una scelta definitiva…
In sostanza, quando siamo posti dinanzi al vasto mare della vocazione, non possiamo restare a riparare le nostre reti, sulla barca che ci dà sicurezza, ma dobbiamo fidarci della promessa del Signore.

Vocazione battesimale

Penso anzitutto alla chiamata alla vita cristiana, che tutti riceviamo con il Battesimo e che ci ricorda come la nostra vita non sia frutto del caso, ma il dono dell’essere figli amati dal Signore, radunati nella grande famiglia della Chiesa.

Vocazioni diverse

Penso alla scelta di sposarsi in Cristo e di formare una famiglia, così come alle altre vocazioni legate al mondo del lavoro e delle professioni, all’impegno nel campo della carità e della solidarietà, alle responsabilità sociali e politiche, e così via … i contesti sociali e culturali in cui viviamo … hanno bisogno di cristiani coraggiosi e di autentici testimoni del Regno di Dio.

Nell’incontro con il Signore qualcuno può sentire il fascino di una chiamata alla vita consacrata o al sacerdozio ordinato. (…) Non c’è gioia più grande che rischiare la vita per il Signore! In particolare a voi, giovani, vorrei dire: non siate sordi alla chiamata del Signore!

Quale impegno?

Carissimi, non è sempre facile discernere la propria vocazione e orientare la vita nel modo giusto. Per questo, c’è bisogno di un rinnovato impegno da parte di tutta la Chiesa – sacerdoti, religiosi, animatori pastorali, educatori – perché si offrano, soprattutto ai giovani, occasioni di ascolto e di discernimento. C’è bisogno di una pastorale giovanile e vocazionale che aiuti la scoperta del progetto di Dio, specialmente attraverso la preghiera, la meditazione della Parola di Dio, l’adorazione eucaristica e l’accompagnamento spirituale.

Guardare a Maria con una domanda

Come è emerso più volte durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Panamá, dobbiamo guardare a Maria (…) La sua missione non è stata facile, eppure lei non ha permesso alla paura di prendere il sopravvento… domando a ognuno di voi: vi sentite portatori di una promessa? Quale promessa porto nel cuore, da portare avanti?

In questa Giornata, ci uniamo in preghiera chiedendo al Signore di farci scoprire il suo progetto d’amore sulla nostra vita, e di donarci il coraggio di rischiare sulla strada che Egli da sempre ha pensato per noi.

 

PREGHIERA PER LA 56° GIORNATA MONDIALE PER LE VOCAZIONI

Gesù buono,
tu vedi in noi
il germinare misterioso del buon seme
che hai gettato nella nostra vita
e il grano che cresce
insieme alla zizzania:
donaci di essere
terra fertile e spighe feconde
per portare il frutto da Te sperato.

Tu vedi in noi il lievito silente
da impastare nella massa del mondo
e l’acqua semplice che diventa
vino nuovo:
donaci di essere fermento vivo
ed efficace
per gonfiare di Te
l’umanità del nostro tempo
e di poter gustare
quel sapore buono ed allegro
della comunione
e del reciproco dono di sé.

Tu vedi in noi il tesoro nascosto
per il quale hai rinunciato
a tutti i tuoi averi
e la perla di grande valore
che hai comprato
a prezzo del tuo sangue:
donaci di desiderare e cercare la santità
come ricchezza inestimabile
per la nostra vita.

Signore Gesù,
guarisci il nostro sguardo
perché nella realtà,
che già ci chiama
ad essere tuoi discepoli,
possiamo vedere l’Invisibile:
illumina i nostri occhi
affinché tutti
riconosciamo
e scegliamo
la bellezza della nostra vocazione.
Amen.




Il servita della tribù dei leoni

Un ricordo di Padre Benedetto Biagioli

Riposa nel piccolo cimitero di Iano, padre Benedetto Biagioli, nella terra dove trascorse i primi anni d’infanzia ma lontano da quell’Africa che aveva conquistato il suo cuore. D’altronde padre Benedetto era così, andava dove c’era bisogno, non dove piaceva a lui, e anche in punto di morte non espresso volontà in merito alla sepoltura: mettetemi dove pensate sia meglio per voi, ha lasciato detto.

A Pistoia, la sua diocesi, è poco conosciuto perché si chiamava ancora Oscar e aveva appena iniziato le elementari quando fu mandato a studiare dai Servi di Maria a Figline Valdarno, grazie a una benefattrice che fornì le risorse economiche alla sua numerosa famiglia. Cresciuto tra i frati, decise di rimanere, prese i voti, cambiando il nome in Benedetto, e poi divenne sacerdote, nel 1949. Due anni dopo, quando un padre missionario rientrato dallo Swatziland chiese rinforzi, decise di rispondere all’appello, con quello spirito che, dicevamo, lo ha contraddistinto sempre, mettendosi a disposizione di chi aveva bisogno.

Nel 1987 poi, il vescovo della vasta diocesi di Lugazi, in Uganda, per ascoltare il desiderio di alcuni suoi giovani che volevano diventare Servi di Maria, si rivolse alla missione servita più vicina che era appunto quella dello Swatziland (quattromila chilometri, come da Mosca a Madrid!) e ancora una volta, padre Benedetto lasciò quel che aveva iniziato per creare la parrocchia di Kisoga, non lontano dalle sponde nord del lago Victoria, ventimila anime che non avevano nemmeno una chiesa. Prima ancora di occuparsi dell’evangelizzazione, padre Benedetto volle riorganizzare e risistemare le venti scuole elementari già esistenti, creando poi quelle medie e superiori. La prima chiesa vera e propria arrivò dopo, nel 1994. Negli anni si aggiunsero rinforzi dall’Italia e soprattutto, nel 2000 si affiancarono ai fratelli due sorelle mantellate, suor Benizia e suor Giuditta, permettendo loro di avviare ancora altri progetti.

È lì che padre Benedetto spese venticinque anni della sua vita e lasciò un segno indelebile: i suoi parrocchiani lo avevano ribattezzato Kateregga della tribù ‘Mpologoma, ovvero “dei leoni”, nome che ne contraddistingueva perfettamente lo spirito combattivo e tenace.

Fu costretto a rientrare in Italia nel 2002 a causa di una malattia che necessitava di cure attente, e anche qua continuò ad esercitare il suo ministero con lo stesso stile, andando dove lo mandavano: a Massa Carrara, poi a Pisa, perfino a Manduria, in Puglia; fu anche priore a Firenze e dal 2009 rettore della basilica di San Clemente ai Servi a Siena. Solo negli ultimi tre anni, quando la malattia ormai galoppava, si fermò a Siena, dove morì il 23 aprile del 2015.

Rimase tuttavia fortemente legato alla sua Kisoga, come ricorda per esempio don Giacomelli che ne era amico: continuava con impegno e dedizione a raccogliere fondi per sostenere i progetti della parrocchia ugandese dove i fratelli serviti con le suore mantellate si spendono tuttora per la promozione umana e spirituale del popolo e dove padre Benedetto è venerato come un santo.
Suor Floriana, delle nostre Mantellate, che ha visitato la parrocchia ugandese andando a trovare lì sua sorella suor Giuditta, è rimasta colpita dal fatto che ogni pietra, ogni progetto rievoca il nome di padre Biagioli: la casa per anziani, intuizione e costruzione di padre Benedetto, le scuole, la chiesa naturalmente; tutti laggiù lo venerano al punto che vorrebbero poterne custodire la salma nella loro parrocchia.
Il nostro servita non è stato solo un gran lavoratore: impressionava chiunque si avvicinasse a lui l’atteggiamento assolutamente privo di giudizio nei confronti degli altri; il nipote Paolo, preside del liceo scientifico, sintetizza così i ricordi che conserva dello zio: «ci ha fatto assaporare la tenerezza di Dio». E sua moglie mi ha confidato: «non mi meraviglierei affatto se sentissi di qualche miracolo attribuito a padre Benedetto».

Beatrice Iacopini




Cercasi adulti credenti, credibili e felici di esserlo

Intervista a don Armando Matteo sulla relazione tra la Chiesa e le nuove generazioni alla luce dell’esortazione di Papa Francesco “Christus vivit

di Daniela Raspollini

Don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale all’Università Urbaniana di Roma e noto conoscitore del mondo giovanile, ci presenta la proprie riflessioni sull’esortazione post-sinodale di Papa Francesco “Christus vivit”.

Cosa l’ha colpita di più dell’esortazione di Papa Francesco “Christus vivit”?

Quello che mi ha colpito di più, nell’esortazione di papa Francesco “Christus vivit”, è l’affetto. Sì, l’incredibile affetto che questo papa esprime per le nuove generazioni. Un affetto che trova, forse, una spinta in più nella consapevolezza che il tempo che viviamo non è esattamente “un tempo per giovani”. E Francesco, questa cosa qui, la dice a tutto tondo da tanto tempo e la rimarca con vigore in questa Esortazione. Da una parte e all’altra del mondo, i nostri giovani non sono messi nella condizione di esprimere tutta quella potenzialità di energia e di creatività che è loro propria. E questo affetto diventa poi sinonimo di fiducia e diventa richiamo, appello, persino rimprovero ad una società di adulti e di vecchi che sempre di più si sono prostrati al culto della giovinezza, marginalizzando in modo vergognoso proprio i giovani.

L’esortazione parla di una pastorale giovanile che vede strutture in cui i giovani spesso non trovano risposte alle loro inquietudini. A suo avviso quali sono i limiti più diffusi nella pastorale giovanile?

Ci vuole un coraggio “da papa” per riconoscere tutto questo! Ma è la semplice verità. Non addosso responsabilità specifiche alla pastorale giovanile, i cui responsabili anzi si danno sempre un gran da fare. Ma come credenti, adulti e vecchi, facciamo una fatica matta a capire il grande fossato che si è creato tra le nuove generazioni e l’attuale cristianesimo. Ancora facciamo una fatica da matti a capire come è cambiato il modo di vivere oggi la giovinezza, da parte dei giovani veri, in un tempo in cui tutti noi – tutti noi adulti e vecchi – non pensiamo ad altro che a restare giovani per sempre! Per cui i limiti della pastorale giovanile sono i limiti dell’agire pastorale tout court: un agire pastorale spesso, troppo spesso, autoreferenziale, che continua ad andare bene per alcuni, sempre di meno e sempre più vecchi, e che non si rende conto di quanto è davvero cambiata la vita della gente. E che dunque non è più tempo di una pastorale del cambiamento, quanto di un vero e proprio cambiamento della pastorale.

Nel documento Papa Francesco afferma che i giovani hanno bisogno di una chiesa che non stia continuamente a condannare, a combattere su due o tre temi, fino a diventare talvolta irritante. Cosa suggerirebbe alla nostra chiesa in Italia?

Di mettere semplicemente in pratica ciò che 15 anni fa i nostri vescovi hanno scritto nella nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: dare priorità alla questione dell’adulto! Il punto è che oggi abbiamo, da una parte, adulti e vecchi che possono e non vogliono crescere e, dall’altra, giovani e ragazzi che vogliono e non possono crescere. È ormai un segreto di Pulcinella quello per i quale siamo in un deficit pazzesco circa la qualità veramente adulta degli adulti. Penso in particolare ai nati tra il 1954 e il 1984. Che siamo poi i papà, le mamme, i docenti, gli istruttori dei nostri giovani. In una parola: i loro modelli di vita! E che modelli! Se si pensa che per noi adulti i nostri modelli sono proprio i nostri figli e i nostri alunni.
In una parola: sta pure per finire il decennio dedicato dalla Chiesa italiana all’educazione, ma non è per nulla finita l’emergenza educativa. E quest’emergenza educativa è che ci servono al più presto adulti credenti, credibili e soprattutto felici di essere adulti. Ed è solo la Chiesa, insieme alla scuola, a poter e voler portare avanti questa battaglia. Le altre componenti della società, dalla politica all’economia, dalla cultura al mondo della comunicazione, giusto per citarne alcune, sono ben felici di aver a che fare con adulti che pensano solo a fare i giovani; insomma, con adulti imbecilli e permanentemente infelici!

Tra i tanti suggerimenti, inviti e riflessioni presenti nel documento c’è anche l’appassionato appello ai giovani affinché diventino “missionari coraggiosi” andando anche controcorrente; pensa che i giovani abbiano la voglia di accogliere e “vivere secondo Francesco”?

Questo vale già per alcuni dei nostri giovani e si può sperare che varrà per molti altri. D’altro canto, la nostra è una Chiesa “cattolica” e dunque differenti sono le situazioni in cui vanno a tradursi concretamente gli appelli e le indicazioni del magistero. Per il nostro Paese, penso che sia molto più pertinente l’indicazione di “Christus vivit” per la quale è l’intera comunità che si debba fare carico dell’annuncio del Vangelo e della cura delle nuove generazioni. Non si può più pensare di delegare questo ad un settore specifico. La situazione non è delle migliori da noi. Nelle nuove generazioni, aumenta la quota di chi si dichiara proprio fuori dalla tribù cattolica e spesso questo riguarda non solo i ragazzi e i giovani maschi, ma anche le ragazze e le giovani donne. Insomma, da noi il fenomeno più forte è che piccole atee crescono!

Il Papa parla di giovani con radici per affrontare il tema del rapporto tra generazioni. È davvero così sgangherato questo rapporto tra giovani e anziani?

Più che con gli anziani, la questione ha a che fare con gli adulti. Per intenderci, sono anziani i nati prima del 1954. In verità sono gli adulti che hanno mandato all’aria il rapporto tra le generazioni: per loro l’unico modello di esistenza accettabile e degno del desiderio umano è quello della giovinezza. Noi adulti, infatti, non vogliamo minimamente pensare a cose come adultità, maturità, responsabilità, generatività, passaggio di testimone. Ed è per questo che trattiamo i nostri figli non come i veri eredi del mondo, ma come piccole divinità da custodire, adorare e soprattutto contenere in confini bene limitati.

Crede che con il pontificato di Papa Francesco sia cambiato qualcosa nel rapporto tra i giovani e la Chiesa? Oppure che la tendenza sia comunque quella di un graduale allontanamento dalla Chiesa?

Noi cattolici facciamo statisticamente fatica a fidarci delle statistiche, e purtroppo le statistiche più recenti confermano l’esponenziale allontanamento delle nuove generazioni dall’universo cattolico. E ripeto, la cosa che deve interrogarci di più è che questo vale sia per i giovani maschi che per le giovani donne.

Il problema principale, a suo avviso, è la mancanza di credibilità e fiducia nei confronti della Chiesa o il venir meno della fede?

Consapevole di dire qualcosa di poco condiviso nella Chiesa italiana, in tutti i miei saggi sostengo che, con i giovani, la vera questione è quella della fede. Nonostante tutto il nostro gran da fare, nelle parrocchie, negli oratori, nei movimenti e nelle associazioni, la mancanza di testimonianza di fede cristiana vissuta, da parte dei genitori e degli altri adulti della società, impedisce ai giovani di comprendere che cosa la fede cristiana abbia a che fare con il loro personale processo di definizione della propria identità adulta. Insomma, la fede è, per loro, sempre di più una questione da bambini e finché si rimane bambini. Per questo, poi, ad un certo punto lasciano la comunità cattolica e diminuisce radicalmente l’interesse per la fede cristiana. E la lasciano senza sbattere le porte e senza alcun sentimento di colpa. In “Evangelii gaudium”, Papa Francesco parla giustamente di rottura della trasmissione generazionale della fede all’interno del popolo cattolico e a mio avviso alla radice di questo fenomeno c’è proprio quella “adorazione della giovinezza”, che egli stigmatizza in “Christus vivit”; una tale adorazione fa sì, come già detto, che per noi adulti e vecchi la vita al massimo e il massimo della vita sia “restare giovane”. Questo per noi adulti e vecchi vale più di Dio, più del Vangelo, più della Chiesa. O meglio è questo, per noi, il nostro dio, il nostro vangelo, la nostra chiesa. Sotto queste condizioni, come potremmo indicare/testimoniare allora ai giovani il legame, che pur esiste, tra vita adulta compiuta e sequela di Gesù? Da qui si deve ripartire. Al più presto.




Nel centro storico “il sentiero dei bambini colorati”

Il Centro Sportivo Italiano comitato di Pistoia e la Federazione Italiana Scuole Materne organizzano sabato 30 marzo 2019, una passeggiata per le vie del centro storico di Pistoia dalle ore 15,00, con ritrovo in piazza dello Spirito Santo. A spiegarci il senso di questo evento Silvia Noci, responsabile del CSI di Pistoia.

Qual è il significato di questa iniziativa, “Il sentiero dei bambini colorati”, che volete proporre alla città?

La nostra associazione sportiva è da sempre vicina ai bambini cercando di applicare il principio di “educare attraverso lo sport”. Quest’anno proprio in occasione del nostro 75° compleanno vogliamo coinvolgere maggiormente tante realtà del nostro comune e della nostra provincia.

Dove si svolgerà e qual è il programma?

Ci ritroveremo con i bambini delle Scuole Materne e le loro famiglie in Piazza Spirito Santo ed attraverseremo con un corteo coloratissimo le strade del centro storico toccando la Sala, Piazza del Duomo, fino ad arrivare all’Area Verde dietro la Chiesa di San Bartolomeo in Pantano dove i bimbi saranno intrattenuti da artisti di strada ed animatori sportivi.

Come è nata questa collaborazione con la Fism?

Il nostro Ente di promozione Sportiva ha sempre affiancato in passato il Coni per la promozione sportiva negli istituti scolastici, sia delle scuole elementari che materne. E ora continuiamo questa collaborazione con La Fism per portare un’ora di attività motoria a settimana in ogni classe. Oltretutto siamo parte del mondo cattolico che la Fism rappresenta nell’area scolastica.

Con i piccoli partecipanti anche il nostro vescovo Fausto: cosa vi aspettate da questo incontro?

È fondamentale che il mondo cattolico diocesano diventi un collante tra la realtà scolastica e quella sportiva e la presenza di monsignor Tardelli a queste nostre iniziative rafforza questo percorso.

D.R.




La fede in Siria tiene accesa la speranza

Don Ihab Alrachid, sacerdote della diocesi di Damasco, racconta le sofferenze e le speranze dei cristiani in Siria. Don Ihab offrirà la sua testimonianza a Pistoia in occasione della Veglia per i missionari martiri di sabato 23 marzo.

Don Ihab, lei è sacerdote di rito greco-melchita cattolico della diocesi di Damasco (Siria). Può raccontarci qualcosa della sua chiesa e della sua storia?

Sì, io sono sacerdote della chiesa greco melchita cattolica di Damasco. La nostra chiesa è molto antica ed è in comunione con quella di Roma. Seguiamo un rito bizantino che risale a san Giovanni Crisostomo. La nostra, dopo quella ortodossa, è la seconda chiesa in Siria. Personalmente ho frequentato il seminario maggiore dal 1992 al 1998 in Libano a Beirut, nel 1999 sono stato ordinato sacerdote a Damasco, dove ho lavorato come segretario presso il vescovo che è anche il patriarca della nostra Chiesa greco melchita cattolica. Sono stato poi a Roma per motivi di studio; qui ho conseguito la Licenza al Pontificio Istituto Orientale e nel 2010 ho discusso il dottorato in Diritto Canonico all’Università Lateranense. Poi ho fatto ritorno in Siria per qualche anno. Adesso sono di nuovo a Roma a perfezionare i miei studi alla Sacra Rota.

Com’è cambiata la situazione per i cristiani con la guerra?

Prima della guerra in Siria avevamo una certa libertà religiosa: professavamo senza pericolo la nostra fede, potevamo festeggiare liberamente le nostre feste. Anzi, le feste cristiane erano feste pubbliche, così pure il giorno di riposo, che generalmente è il venerdì e il sabato in Medio Oriente, era tutelato per i cristiani. Quanti erano impiegati statali potevano arrivare al lavoro un po’ più tardi, così da permettere la frequenza della messa. Con la guerra, che ormai dura da otto anni, sono cambiate tante cose, specialmente là dove sono entrati i gruppi di terroristi armati. Questa gente, quasi tutta proveniente dall’estero, è venuta per rapire e uccidere, specialmente i cristiani. Tanti sono morti per la fede in Siria. Come ha detto papa Francesco «i martiri portano avanti il Regno di Dio, seminano cristiani per il futuro». Tanti erano i martiri nei primi secoli ma ora, di nuovo, è grande il numero di quanti perdono la vita per la fede cristiana.
Purtroppo, ormai, molti cristiani sono andati via dalla Siria. Non c’è una cifra esatta, ma pensiamo circa la metà. È una perdita importante. Adesso sono sparsi in tutto il mondo; tanti cristiani sono fuggiti negli Stati Uniti, in Canada, Australia, per salvare la loro vita.

Crede che ritorneranno?

Non ne abbiamo la sicurezza. Ma questa è la nostra terra, la terra dove è nato il Salvatore. Anche il Papa ha detto: «Vogliamo affermare ancora una volta che non è possibile immaginare il Medio Oriente senza cristiani».

Ci sono alcuni episodi che lo hanno colpito in questi anni di violenza e di guerre?

Conoscevo tre persone che abitavano in un villaggio a 55 km da Damasco, il villaggio di Lula. Il 90% della popolazione lì è fatto da cristiani. Tre persone sono morte, una dopo l’altra, uccise dai terroristi perché non hanno accettato di rinnegare la loro fede cristiana. Io personalmente conoscevo tutti e tre, ma uno in particolare che svolgeva il compito di sacrestano nella chiesa del villaggio. Ci ha raccontato il fatto la sorella di uno di loro, che nascosta ha visto come i terroristi hanno ucciso il fratello senza poter reagire. Se l’avessero trovata sarebbe toccato anche a lei. Se i terroristi vedono le ragazze le violentano e poi le rapiscono, oppure se si rifiutano le uccidono subito.

Come si vive oggi la fede in Siria?

In Siria le nostre chiese sono ancora piene di fedeli dopo otto anni di guerra. Anche se andare in chiesa diventa molto pericoloso. Molti sono morti cercando di arrivarci. Un ragazzo che conoscevo, membro del coro della mia ex parrocchia, mentre stava andando in chiesa per guidare le prove del coro dei bambini è morto per la caduta di un razzo. Eppure le nostre chiese sono piene di fedeli. In Siria, nonostante tutto, siamo ancora molto attaccati alla fede e mi dispiace quando vedo qui in Italia o in Europa le chiese vuote. Dobbiamo ritornare alle radici del cristianesimo.

Qual è l’impegno di Aiuto alla Chiesa che soffre in Siria? Quali progetti e quali priorità ci sono adesso?

ACS, sapendo che ero studente a Roma, mi ha contattato per andare in giro a offrire una testimonianza. Questa fondazione di diritto pontificio è entrata in Siria per aiutare i cristiani rimasti in patria che ora sono bisognosi di tutto. La guerra ha portato tante distruzioni, anche molte chiese sono state distrutte. Aiuto alla Chiesa che Soffre ha aiutato finora molte comunità, sia per la ricostruzione delle chiese che per la vita quotidiana dei fedeli. Il progetto che proporremo a Pistoia riguarda la città di Lattakia e il sostegno alla tante famiglie di sfollati che vivono lì e sono bisognose di tutto.
Appena ho un po’ di tempo cerco di offrire la mia testimonianza, per raccontare com’era prima la situazione dei cristiani e com’è adesso. In Siria cristiani e musulmani andavano d’accordo. Ricordo che San Giovanni Paolo II nel 2001 ha potuto visitare la Grande Moschea di Damasco dove si trovano i resti di Giovanni Battista. Prima la situazione era molto diversa.

Quale futuro immagina per il suo paese?

Non possiamo perdere la speranza. La situazione è molto migliorata. Adesso i gruppi terroristici sono stati respinti in gran parte. Speriamo che la Siria ritorni come prima e specialmente che i cristiani possano tornare. Preghiamo perché questa guerra possa finire al più presto. Vorrei, infine, ringraziare la Diocesi di Pistoia per questo invito e per l’opportunità di testimoniare che cosa hanno subito i cristiani in Siria.

Daniela Raspollini




A Pistoia la sede di “Scholas Occurrentes”: la ‘scuola’ di Papa Francesco

Presentazione a San Callisto a Roma delle nuovi sedi della “Schola Occurrentes”, l’organizzazione internazionale per la formazione e l’incontro dei giovani supportata dal Santo Padre. Per l’Italia, oltre Roma, Pistoia è stata scelta come sede per la formazione degli educatori della scuola.

Mons. Tardelli, che oggi sarà assieme al Papa per la presentazione ufficiale del progetto, afferma: «una vera benedizione del cielo per la nostra diocesi e per la città di Pistoia». Possibile una visita del Santo Padre.

PISTOIA – Stupisce ancora Papa Francesco. Stupisce, emoziona e regala alla chiesa di Pistoia un dono inaspettato: la sede di “Schola Occurentes”, la fondazione internazionale di diritto pontificio, voluta fortemente da Papa Francesco, che ha come obiettivo la formazione dei giovani attraverso il dialogo, l’incontro, la conoscenza di sé, i linguaggi universali come la musica e l’arte.  La scuola, che lavora su scala internazionale, avrà sede nel monastero delle Benedettine nel centro di Pistoia e ospiterà i percorsi di formazione degli educatori, provenienti da tutto il mondo.

Oggi, giovedì 21 marzo alle 15, il vescovo Tardelli parteciperà alla presentazione – in diretta web in tutto il mondo – delle nuove sedi della Schola Occurrentes,  a fianco di Papa Francesco nella sede principale della fondazione in piazza San Callisto a Roma.

«Credo si tratti di una vera benedizione del cielo per la nostra diocesi e per la città di  Pistoia  – afferma con gioia il vescovo Tardelli – inaspettata, come tutte le sorprese del Signore».

L’idea di “Scholas Occurrentes” risale a un’esperienza lanciata a Buenos Aires nel 2001, sotto l’egida dell’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio. Il suo progetto di Escuelas hermanas (scuole sorelle) e di Escuelas de vicinos (scuole di quartiere) consisteva in una rete di centri educativi, composta da realtà pubbliche e private, laiche o confessionali, e aveva come scopo di educare all’impegno e al bene comune. Il successo di questa idea ha portato alla creazione di Scholas occurrentesun’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che lavora con le scuole e le comunità educative, con l’intento di coinvolgere tutti gli attori sociali per dar vita a una cultura dell’incontro e conseguire la pace attraverso l’educazione. Come si legge nel sito dell’organizzazione (www.scholasoccurrentes.org), l’obiettivo ideale che si cerca di realizzare è la trasformazione del mondo in un’aula senza pareti, in cui siano integrati tutti i bambini.

Creata nel 2015 con un decreto pontificio da papa Francesco, la realtà delle Scholas occurrentes desidera favorire la condivisione dei progetti promossi dalle scuole in vista di un arricchimento reciproco e sostenere le scuole con meno risorse, promuove l’educazione per tutti. Attualmente le Scholas sono operative in Argentina, Messico, Paraguay, Spagna, Italia, Città del Vaticano, ma l’organizzazione, grazie alle collaborazioni avviate con altre realtà, opera in 190 Paesi e in circa 445mila scuole e reti educative associate.

La cultura dell’incontro, descritta nei paragrafi dedicati alle questioni sociali nell’Evangelii gaudium del 2013, corrisponde per il papa alla figura del poliedro, che ha molti lati e molti volti, ma tutti formano un’unità piena di sfumature. È l’immagine dell’«unità nella diversità» (EG, n. 117) propugnata da papa Francesco, una «diversità riconciliata» (EG, n. 230), che deve cercare punti di contatto reali per raggiungere qualcosa di più di un «consenso a tavolino» (EG, n. 218).

Michael Cantarella




La Toscana da San Francesco

I Comuni della regione offriranno l’olio che arde sulla tomba del Patrono d’Italia. Un programma di iniziative spirituali e culturali per prepararsi al pellegrinaggio di ottobre

Saranno i Comuni della Toscana ad offrire, quest’anno, l’olio per la lampada che arde dinanzi alla tomba di San Francesco, ad Assisi: ogni anno infatti le diverse regioni italiane si alternano in questo gesto di omaggio al Patrono d’Italia. In vista di questo appuntamento, che sarà nei giorni 3 e 4 ottobre prossimi, la macchina organizzativa si è già messa in moto. La Conferenza Episcopale Toscana ha affidato ai vescovi Rodolfo Cetoloni (Grosseto) e Giovanni Roncari (Pitigliano-Sovana-Orbetello), entrambi francescani, il compito di coordinare tutta la fase di preparazione, che porterà la Toscana, nelle sue rappresentanze ecclesiali e civili, a compiere questo gesto di devozione e di affidamento al patrono d’Italia i prossimi 3-4 ottobre. Sono stati loro, insieme al cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze e Presidente della Conferenza Episcopale Toscana, a presentare questa mattina nei locali della Curia arcivescovile di Firenze le iniziative in programma e il Messaggio che i Vescovi toscani hanno scritto per l’occasione.

«Con cuore fraterno e paterno – scrivono i Vescovi – invitiamo tutti gli uomini e le donne della Toscana, i fedeli e le popolazioni delle nostre terre con le loro istituzioni, a rispondere generosamente e di persona a questo invito: Quest’anno… la Toscana da san Francesco!»

Nei giorni scorsi, nel convento francescano di San Salvatore al Monte, a Firenze, si è riunito infatti per la prima volta il tavolo dei delegati di ciascuna delle 18 Diocesi toscane e dei rappresentanti della famiglia francescana toscana, per iniziare il cammino. Sono molto gli aspetti di cui tenere conto nell’organizzare il pellegrinaggio della Toscana ad Assisi. Questioni logistiche ed organizzative, ma non solo: rinnovare la tradizione – per la Toscana, l’ultima volta era stata nel 1999 – di offrire l’olio ad Assisi è prima di tutto ritornare alla sorgente del messaggio che san Francesco ha lasciato e che continua ad essere provocazione profetica anche per gli uomini e le donne di questa generazione. L‘offerta dell’olio si concretizzerà con  il gesto attraverso cui nella festa di San Francesco, il 4 ottobre, come vuole la tradizione, il sindaco del Capoluogo di regione riaccende la lampada. Già dal pomeriggio del 3 ottobre ci saranno momenti di preghiera, mentre la giornata del 4 culminerà con la benedizione all’Italia con la reliquia del Santo.

Ci sarà, dunque, un «prima», che servirà a far sì che in tutte le Diocesi ci si incammini con il cuore già da adesso verso Assisi, ma ci sarà anche un «dopo», per fare in modo che questo gesto di devozione non si esaurisca il 4 ottobre, ma sia capace di generare nuovi, copiosi frutti in Toscana. D’altra parte il legame storico e spirituale di questa regione con san Francesco e il francescanesimo in generale è molto forte. Ne sono testimonianza i tanti luoghi nei quali il Poverello ha lasciato traccia del suo passaggio, a partire dal sacro monte de La Verna, dove Francesco ricevette le stimmate, senza dimenticare città e paesi ancora oggi sono custodi di una presenza francescana.

Il tavolo tra i delegati delle Diocesi e delle realtà francescane si riunirà di nuovo a breve, ma già molte idee sono state messe sul tavolo. «Ci saranno – ha spiegato il vescovo Cetoloni – iniziative più prettamente spirituali, a cui si è iniziato a pensare, per ancorare il gesto dell’offerta dell’olio ad una rilettura del messaggio francescano, così come ci saranno iniziative culturali per stimolare in tutti, credenti e non, la consapevolezza di quanto la Toscana abbia assorbito, nei secoli, il carisma del Poverello d’Assisi. E poi iniziative pensate per i giovani e proposte di comunicazione». Padre Roncari ha ricordato quello che le Fonti Francescane dicono del Poverello di Assisi: «Attraverso San Francesco, Gesù è tornato nel cuore di molti che lo avevano dimenticato. Anche oggi, in un’epoca di indifferenza religiosa, i santi sono il tramite per riscoprire Cristo». «L’appello – ha concluso il cardinale Betori – è alla comunità ecclesiale, ma anche alla comunità civile e alle sue istituzioni, perché questa sia l’occasione  per una riflessione su come il volto autentico dell’uomo che Cristo ci ha rivelato, e che Francesco ha saputo così ben interpretare, possa essere ispiratore di una società più giusta e più attenta alla dignità delle persone».

Giacomo D’Onofrio

Leggi il messaggio dei Vescovi Toscani




Lo sguardo che ti cambia la vita

Il cammino di conversione dell’attore Pietro Sarubbi, in scena a Montemurlo con un monologo dedicato a San Pietro.

Venerdì 22 febbraio a Montemurlo (Teatro sala Banti, ore 21) l’attore Pietro Sarubbi porta in scena lo spettacolo teatrale: «Seguimi. Da oggi ti chiamerai Pietro». Lo spettacolo racconta, con delicatezza e sensibilità, la storia di san Pietro apostolo. Pietro Sarubbi è attore, regista e docente di regia cinematografica, già interprete di Barabba nel film di Mel Gibson “The Passion”: un film che gli ha cambiato la vita. Durante le riprese infatti, attraverso il volto dell’interprete Jim Caviezel, lo sguardo di “Gesù” lo ha segnato profondamente, mettendo a nudo un’inquietudine e una ricerca di senso che portava da sempre nel cuore. Abbiamo raggiunto l’attore per raccogliere la sua testimonianza di vita e illustrarci il suo spettacolo.

Una prima occhiata alla sua biografia rivela un percorso davvero ricco e vario, ma anche segnato da una certa inquietudine. Qual è il filo rosso che lega tante esperienze diverse?

Certamente l’inquietudine è il filo rosso che ha tenuto insieme tante vicende. Un filo rosso legato ad un disagio, a una insoddisfazione, a un’inquietudine di cui non saprei indicare l’origine. Non ho un vero motivo che potrei individuare per dare nome a questa realtà, è una specie di malessere del cuore che ti porti dentro. Non ho mai capito. Forse, se penso a quando ero piccolo, posso ricollegarmi al fatto che i miei genitori erano emigrati del sud; io sono nato a Milano, ma avevo addosso qualcosa di diverso; non so cosa possa essere stato il motivo di questo disagio: forse il mio sentirmi diverso, un po’ più grande di statura dei miei compagni di classe …sta di fatto che l’inquietudine è andata aumentando con la vita e questo ha fatto sì che desiderando sfuggire a questa morsa, sfuggissi a me stesso e trovassi anche un modo di allontanarmi dalla realtà. Ho cioè fatto l’attore, fuggendo in qualche modo anche a delle responsabilità oggettive, quasi  per nascondermi. Fare l’attore, infatti, mi permetteva di stare dentro un’inquietudine continua, sempre sul filo del rasoio, in una condizione propria di questo mestiere. Noi attori ogni volta che abbiamo un provino siamo sotto giudizio e in ogni spettacolo c’è un pubblico che “per soli 10 franchi” come diceva Diderot giudica la tua vita. Ma il giudizio alla fine puoi sempre allontanarlo da te per farlo ricadere sul personaggio che interpreti, sulla maschera del momento. Insomma, una sfida continua, con una sorta di malessere che mi ha accompagnato per tanti anni. Fino al film con Mel Gibson. Lì è accaduto un incontro con Dio che mi ha cambiato la vita, ma ci è voluto un anno intero per comprendere fino in fondo cosa stava succedendo. Ci è voluta una compagnia perché non ero attrezzato, non avevo riferimenti. È impossibile essere cristiani da soli: c’è bisogno di una compagnia che ti richiama alla realtà, alla concretezza, sollevando sempre il dubbio, le attese, il non sentirsi male.

La sua conversione ha inevitabilmente toccato anche la sua vita familiare. Cosa è cambiato?

All’inizio in famiglia c’è stato un po’ di stupore, un po’ di stranezza, mi vedevano tutti molto cambiato. Ma non è stato difficile e poi i bambini sono attratti dalla bellezza, da nuovi sorrisi (Pietro Sarubbi ha cinque figli, ndr), e in una nuova compagnia non hanno fatto fatica a fidarsi. Loro si sono fidati subito, io invece, a volte ero sospettoso, ho vissuto più resistenze, più fatica. Certamente non è che la conversione ti metta al sicuro da fatiche o dolori. Non è che il mondo sia diviso in credenti felici e atei tristi: non c’è nessun dubbio che qualcuno possa lamentare questa stranezza. Ma se Dio è arrivato a sacrificare suo Figlio – il Figlio amato – senza scontare niente a Lui, come pretendere che sconti a noi? Il cristiano è fatto per un cammino faticoso, per un cammino continuo, ma lo attende il paradiso. Quanto viviamo di bello, di significativo è un anticipo di questa realtà, ma se ci fosse tutto ora, se fossimo già ora perfettamente felici …che paradiso sarebbe? Anche avere la possibilità di vedere e leggere le storie dei santi è già un anticipo di Paradiso.

Parlando di santi viene subito da domandarle com’è nato in lei il desiderio di mettere in scena questo monologo su san Pietro…

Pietro ho imparato a conoscerlo nel mio tanto studiare, nel mio voler capire. All’inizio non sapevo nulla, e mi sentivo come un vaso vuoto. Così ho avvertito l’esigenza di approfondire e conoscere. Prima di arrivare allo spettacolo però, c’è stato un altro passaggio. Tutti mi chiedevano testimonianze e io la mettevo anche in maniera piacevole, ma mi accorgevo che molti venivano più per ridere che per capire. Così alla fine un amico mi ha invitato a pensare uno spettacolo teatrale. Dopo alcune esitazioni mi sono deciso di prendere sul serio l’idea. Pensavamo di mettere in scena la figura di Barabba, ma poi ho avuto tanti stimoli e segnali del tutto inaspettati che mi indicavano di continuo la figura di Pietro. Così ho scelto Pietro e alla fine mi sono accorto che questo san Pietro è molto simile a me. Il mio spettacolo racconta, infatti, il cammino di un poveraccio pieno di limiti, di peccati, di fatiche che alla fine riesce ad incontrare il Signore. Ci cammina tre anni insieme con la certezza di essere amato, fino al famoso “sì” di Pietro dove si arriva al culmine di questo cammino di santità (Gv 21,15-19). Sono ormai sette anni che porto in giro questo spettacolo e mi sono reso conto che piace molto: alla fine posso dire che è stata una buona intuizione. D’altra parte lo spettacolo è “solo Vangelo”, di lì prende spunto e riesce a dirne tutta la potenza. Io mi limito a dare fisicità, più forza alla parola evangelica.

Spesso è in giro per l’Italia per offrire testimonianze in parrocchie e oratori. Come accolgono i giovani la sua storia? Cosa le hanno trasmesso?

Quando incontro i giovani dico sempre questa cosa: c’è sempre qualcuno che vi può far credere che essere cristiani non sia da fighi, ma guardate che in realtà è da sfigati non credere a Gesù Cristo! Ecco, mi piace sfidarli. I ragazzi vogliono le cose sfidanti, ma certe. Faccio pellegrinaggi con ragazzi di venti anni che pregano e stanno in silenzio meglio di me. Vedo come ci stanno e resto stupito. Io – mi dico – pensavo di essere loro testimone e invece sono loro testimoni per me. Come adulti a volte riusciamo a dare ai ragazzi soltanto il peggio. Oggi vedo certi catechisti, certi animatori di grest e mi domando: quale ragazzino potrebbe essere attratto da certe proposte? A volte avremmo bisogno di staccarci dalle regole della pigrizia.

Cosa manca allora alla chiesa di oggi?

Direi che a volte manca l‘impegno, il cuore acceso, manca il sacro fuoco, il mettersi in gioco, la voglia di perdonarsi sul serio e volersi bene.

Daniela Raspollini

 

Pietro Sarubbi

Pietro nasce a Milano nel 1961. Inizia il suo percorso artistico lavorando nel circo, poi in televisione dal 1979 nella trasmissione Portobello. Debutta nel cabaret allo Zelig nel 1995. Dal 1985 partecipa a film-tv, fiction e sit-com di successo come “Casa Vianello”, “il maresciallo Rocca” e “Nebbie e delitti”. Recita in teatro e nel cinema con tanti registi italiani, ma sono i registi stranieri a sceglierlo per i ruoli più importanti: Daniele Finzi Pasca lo scrittura per anni nella compagnia internazionale del Teatro Sunil, John Madden per “Il mandolino del capitan Corelli” e Mel Gibson per il ruolo di Barabba in “The Passion of the Christ”. Autore SIAE rappresentato dal 1993, iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 2000, regista per il teatro, conduttore televisivo, scrittore, si occupa anche di formazione aziendale. È docente del corso di Regia presso Milano Cinema e Televisione, dipartimento di Fondazione Milano.




Quale sicurezza senza umanità?

Riceviamo e pubblichiamo il seguente comunicato

Una serata per riflettere sul decreto sicurezza

Sabato 16 febbraio a Pistoia, presso la Sala Soci Unicoop Firenze (accanto al COOP.fi di Viale Adua), si svolgerà un incontro pubblico sul tema “Quale sicurezza senza umanità?” organizzato da numerose realtà pistoiesi per condividere un momento di riflessione sulle concrete conseguenze del decreto sicurezza sulla vita di tanti migranti, sulle buone pratiche di accoglienza e di inclusione sociale costruite nel nostro territorio e sulla sicurezza dei cittadini.
All’iniziativa interverranno Annalisa Camilli, Domenico Gallo e mons. Roberto Filippini, vescovo di Pescia.

Annalisa Camilli è inviata della rivista Internazionale che negli ultimi anni ha seguito le rotte dei migranti e i loro viaggi verso l’Europa e gli episodi più gravi di razzismo in Italia. Domenico Gallo è magistrato, giudice presso la Corte di cassazione, impegnato nel mondo dell’associazionismo, del movimento per la pace ed attivo nei Comitati per la difesa della Costituzione. Mons. Roberto Filippini, vescovo della Diocesi di Pescia è anche il delegato della conferenza episcopale toscana per il servizio della Carità; agli studi biblici ha unito l’impegno nonviolento come membro del gruppo “Franz Jägerstätter per la nonviolenza”.

L’incontro è promosso da: AGESCI Pistoia, Associazione Il Granello di senape, Associazione Palomar, Associazione PortAperta, Associazione San Martino de Porres, A.P.S. Oscar Romero, Bottega del Mondo L’Acqua Cheta, CeIS Pistoia, CGIL Pistoia, CNGEI Pistoia, CO&SO, Comitato provinciale ANPI Pistoia, Cooperativa Gli Altri, Coordinamento provinciale di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Diocesi di Pistoia, Rete 13 Febbraio Pistoia, Rete Radié Resch – Casa della Solidarietà, Parrocchia di Marliana e Parrocchia di Santomato.

Alessandra Pastore
Referente Coordinamento provinciale Libera Pistoia




Non lasciamoci rubare i social!

A Montemurlo don Dino Pirri ha proposto un incontro sul tema “evangelizzare al tempo dei social”. Una sintesi del suo intervento

«È la curiosità quella che spinge un individuo a muovere i suoi primi passi sui social. Guai ai cristiani che non sono curiosi».

È con queste parole che Don Dino Pirri, ex assistente nazionale dell’Azione Cattolica dei Ragazzi e adesso Parroco della parrocchia Madonna della Speranza a San Benedetto del Tronto, ha dato il via all’incontro su “Evangelizzare al tempo dei social” tenutosi venerdì 8 febbraio presso la parrocchia del Sacro Cuore di Montemurlo. Di fronte ad una platea composta da giovani e non più giovani, il parroco ha raccontato come avvenne il suo incontro con queste piattaforme di comunicazione delle quali lui stesso si definisce non un esperto, ma solo un artigiano. Era l’aprile 2005, quando,  per l’elezione di Papa Benedetto XVI Don Dino si trovava in una Piazza San Pietro dove erano presenti tutte le tv del mondo; questa immagine lo aiutò a pensare quante persone siano raggiungibili tramite social e soprattutto a quanto il messaggio di cui siamo portatori noi cristiani sia il più bello da annunciare. Così nacque la voglia di “essere presente” in quegli spazi virtuali dove aveva intuito la possibilità di diffondere a più persone possibili l’annuncio del Vangelo.

Per stare in “posti nuovi” però, occorre esserne capaci: «devi saperci stare  – ha precisato don Dino – e quindi non puoi essere un turista, ma devi abitarci per un po’ di tempo per comprendere le leggi che li regolano». Anche i social – paradossalmente- hanno bisogno di dedizione e attenzione, tempo e cura, per non incorrere nell’errore di farne un uso superficiale, senza conoscere tutti i vantaggi che possono offrire. Il suo impegno nel mondo social è stato dettato da una riflessione evangelica: «Gesù è chiaro nell’indicarci dove ci chiede di andare; non chiama con sé agricoltori che seminano il proprio campo in attesa dei germogli, ma chiama pescatori, abituati a gettare le reti solo dove può esserci più pesce e quindi in un luogo potenzialmente diverso ogni giorno». Poiché il mondo stava popolando i social network Don Dino ha pensato a un’ esperienza di evangelizzazione che lo ha portato ad apprendere tantissimo, come ad esempio l’importanza di ascoltare e osservare, prima di esprimersi e commentare.

«Nella rete – ha aggiunto – trovavo l’esperienza costruttiva del contraddittorio, cosa che negli ambienti dell’associazionismo cattolico era difficile da reperire». Il periodo di servizio per l’Azione Cattolica nazionale, che lo ha tenuto lontano dalla parrocchia, ha segnato la sua necessità di immergersi in storie di vita che, non potendo toccare direttamente, riusciva comunque a reperire tra un tweet e un post dando avvio a conoscenze spesso portatrici di pareri diversi dal suo che, forse, non sarebbero mai giunte diversamente. La rete, inoltre -ha aggiunto don Dino- ha un altro vantaggio: qui tutti si confrontano alla pari; sui social ci sono regole assolutamente non discriminatorie, in quanto il comune cittadino così come il Presidente di uno stato hanno la stessa possibilità di parlare e intervenire. Don Dino ha poi affermato anche che questo non ci sottrae da una responsabilità di fondo, ovvero quella di essere consapevoli che, proprio per il carattere così aperto e accessibile dello strumento, è più semplice che la platea a cui ci rivolgiamo possa fraintendere quanto vogliamo comunicare.

«Sui social tutto è accelerato e esagerato; i rapporti nascono e si bruciano velocemente; io ci ho incontrato molte persone, ma non sono diventato amico di nessuno. Per un rapporto vero c’è bisogno di altre dimensioni di relazione». È così che oltre ai vantaggi, don Dino ha voluto delineare anche i limiti di questi mezzi di comunicazione. «Non si fissano le riunioni su whatsapp; né si programma la Quaresima; per educare dobbiamo spenderci, e quindi incontrarci». Don Pirri ha criticato un utilizzo generalizzato dei social per lo svolgimento delle attività pastorali, anche perché – come ha ribadito fortemente- la realtà è complessa, quindi difficilmente banalizzabile con un messaggio di whatsapp lanciato in un gruppo numeroso.

Don Dino ha concluso regalando ai presenti un riferimento evangelico con l’episodio dei discepoli di Emmaus. Nel racconto Gesù risorto, che ai loro occhi sembra un semplice viandante, nonostante rimprovi i discepoli apostrofandoli «stolti e lenti di cuore» (Lc 24,25) decide ugualmente di mettersi in cammino con loro e di accompagnarli verso la comprensione dell’annuncio:

«Gesù nel Vangelo è in grado di comunicare e di entrare in dialogo con le persone; anche questo, come la curiosità, è una prerogativa di noi cristiani che, in qualsiasi luogo, tempo e occasione, possiamo diventare trasmettitori della nostra fede in piena accoglienza delle opinioni degli altri».

Laura Simonetti