A seguito del recente viaggio del papa in Romania, durante il quale sono stati beatificati sette vescovi martiri del comunismo, rendiamo nota la testimonianza di suor Clara Laslau, prozia di due fratelli della nostra diocesi: don Cipriano, parroco di San Marcello e don Eusebiu Farcas, che sarà ordinato sacerdote il prossimo 30 giugno.
Nel suo recente viaggio in Romania Papa Francesco ha beatificato sette vescovi martiri greco-cattolici vittime della persecuzione comunista: Vasile Aftenie e Ioan Balan, Valeriu Traian Frentiu, Ioan Suciu, Tit Liviu Chinezu, Alexandru Rusu.
Con l’avvento del regime comunista infatti, a partire dal 1948 si scatenò in Romania una feroce persecuzione: «in quel triste periodo – ricorda il papa-, la vita della comunità cattolica era messa a dura prova dal regime dittatoriale e ateo: tutti i Vescovi, e molti fedeli, della Chiesa Greco-Cattolica e della Chiesa Cattolica di Rito Latino furono perseguitati e incarcerati». La testimonianza di questi martiri suscita oggi una forte impressione: «È eloquente quanto ha dichiarato durante la prigionia il Vescovo Iuliu Hossu: “Dio ci ha mandato in queste tenebre della sofferenza per donare il perdono e pregare per la conversione di tutti”».
Anche nella nostra diocesi di Pistoia vive il ricorda di una vittima delle persecuzioni del regime comunista. Si tratta di Suor Clara Laslau, suora del monastero di Sant’Agnese di Bucarest e parente di don Cipriano Farcas e del fratello Eusebio, che sarà ordinato sacerdote il prossimo 30 giugno. Una vocazione “familiare” che è anche il frutto della preghiera e della testimonianza di una prozia che ha duramente sofferto per la propria fede.
Suor Clara, nata nel 1912 nel villaggio di Pustiana presso Bacău, all’età di 17 anni entrò nella vita religiosa. Nel 1938 fu inviata alla Nunziatura apostolica a Bucarest, dove lavorò per 12 anni. Arrestata nel 1950 fu torturata nel tentativo di ottenere informazioni e condannata al carcere per alto tradimento. Rilasciata nel 1964, si ritirò nel “Monastero di Agnese” a Popeşti-Leordeni. È morta il 23 agosto 2009, all’età di 97 anni.
Ci piace dunque proporre un’intervista pubblicata sul numero di giugno 2007 della Rivista “Sacro Cuore”.
Ricorda ancora come avvenne l’arresto?
Ricordo benissimo. Verso le undici di sera salirono nella mansarda, sfondarono due porte e ci trovarono tutte nella cappella in preghiera col vescovo. Erano circa venti uomini, armati. […] Mi fecero salire in macchina con suor Tarsila e due soldati. Sentivo che non sarei più tornata.
Arrivati alla Polizia Segreta mi misero un paio di occhiali neri e fui bendata: ricordo solo che mi facevano scendere le scale e sentivo sempre più fresco. Quando mi tolsero gli occhiali, un ufficiale era seduto al suo tavolo e scriveva; accanto a lui vi erano due soldati. L’ufficiale mi gridò: “Spogliati”. “Sono religiosa, non posso togliermi il vestito davanti ad estranei”. Egli bestemmiava e gridava: “Levati quel vestito”. Non potevo sentire quelle urla e quelle bestemmie. Mi levai il velo e lo baciai. L’ufficiale seguitava a ridere e a vomitare bestemmie. Pensai all’umiliazione di Gesù spogliato delle sue vesti. Tolsi il vestito religioso e rimasi con la gonna e una camicia con le maniche corte. Era già passata mezzanotte e mi interrogarono fino al mattino.
In quella notte del 19 luglio avevano arrestato noi della nunziatura e tutti i fratelli della cattedrale. Fu una notte tremenda: in ogni parrocchia avevano arrestato qualcuno. Per quattordici giorni ci interrogarono, poi ci trasferirono a Jilava, una prigione di Bucarest che scendeva fino a venti metri sotto terra. Mi assicuravano che mi avrebbero concesso subito la libertà, se avessi rinunciato alla vita religiosa. “Ho già fatto i voti perpetui al Signore e non a un semplice mortale”. “È solo una proposta”. Mi fecero anche un’altra proposta: “Se entri nella chiesa ortodossa, sei subito libera”. “No, io sono cresciuta nella chiesa cattolica e nella mia fede voglio morire”. “Non ti costringiamo, solo se tu vuoi”. La terza proposta: “Non occorre che tu rinunci alla vita religiosa, né alla fede cattolica. Puoi tornare in nunziatura, anche senza lavorare come prima. Basta che tu vada di parrocchia in parrocchia, guardi ciò che fanno i preti e venga a riferircelo. Ti paghiamo bene”. “Preferisco morire in prigione piuttosto che far la parte di Giuda”. Per sei mesi continuarono a farmi simili proposte.
Come era la vita a Jilava?
Le celle occupate da noi donne erano di circa sei metri per cinque. Sulle pareti della cella c’erano assi appoggiate su travi con sopra sacconi pieni di paglia. […]In questo ambiente dormivamo, strette come sardine, in settanta-ottanta donne, giovani e anziane. Potevamo coricarci solo sul fianco, perché non c’era posto per mettersi di schiena. Si può facilmente immaginare il terribile tanfo che regnava. [… ] Se si doveva lavare avevamo uno straccio grande come una mano, ci mancava poi l’acqua da bere. Ricevevamo circa tre gamelle di acqua al giorno e ci si aiutava. In estate la mancanza d’aria, il caldo e la puzza di quel locale erano davvero qualcosa di impossibile.
Come era il cibo?
Si mangiava, perché non c’era altro. A mezzogiorno di solito ci davano una gamella di orzo condito con il grasso tolto dalle frattaglie. Alle volte ci davano una poltiglia verde fatta con un po’ di foglie di cavolo. A cena si riceveva solo orzo cotto nell’acqua, ma almeno era pulito e non puzzava. A colazione c’era sempre una specie di polenta brodosa ed era una fortuna quando non era ammuffita. […]
Ci sono forse state anche delle torture?
Sì. Il 7 dicembre 1950 per esempio. Me lo ricordo ancora bene. Fui sottoposta a un duro interrogatorio, dalle sette fino alle dieci di sera. Erano in due, un ufficiale e un poliziotto. Il capitano stava seduto sul tavolo con i piedi in giù e io dovetti mettermi in piedi davanti a lui. Aveva gli stivali militari con le punte munite di archetti di ferro appositamente per colpire gli interrogati. Sedeva davanti a me e mi colpiva nelle gambe. Tac-tac, tac-tac. Faceva sempre così. A volte mi giravo, perché non ne potevo più dal dolore. Allora lui urlava, bestemmiava, mi colpiva con pugni sulla faccia e sul petto. […] Sanguinavo. Tutto questo trattamento durò tre ore. Volevano che dicessi ciò che volevano loro. Ringrazio il Signore che mi ha aiutato e mi ha dato la forza di non denunciare nessuno.
A un certo punto ricevetti un pugno molto forte sull’orecchio; sentii che si era rotto qualche cosa. Dissi che da quell’orecchio non ci sentivo più. Il poliziotto che mi aveva colpito bestemmiò e gridò che lo guardassi in viso. Mi colpì al petto con un pugno fortissimo. Dissi che sentivo sangue in bocca. Allora smisero di colpirmi.
Un giorno il giudice istruttore mi presentò una dichiarazione da firmare, in cui affermavo che il denaro lasciatomi dal nunzio era destinato ai vescovi e ai sacerdoti, per aiutare i partigiani, che combattevano contro i comunisti. […] “Non posso firmare, è una dichiarazione falsa. Quel denaro era per vivere”. Mi appioppò un paio di schiaffi da farmi vedere le stelle. Però così fui liberata dall’essere testimone in un processo. Molta gente era in prigione per false dichiarazioni.
Suor Clara, pensando alle torture passate o a quelle possibili in futuro non ha mai avuto momenti di cedimento, di abbattimento, di dubbio?
Sì, ci fu un momento di inferno. Negli interrogatori sentivo sempre bestemmie e oscenità contro il Santo Padre e la Chiesa, vedevo che loro avevano la forza. I nostri vescovi erano tutti in prigione. Fui tentata di pensare che ormai tutto era perduto, che era inutile resistere. […] Andavo avanti e indietro nella cella, continuavo a pregare, invocavo il Signore con tutto il cuore, ma non scorgevo via d’uscita. Mi sentivo perduta. Finalmente il Signore mi venne in aiuto. Sentii risuonare dentro di me la voce del Santo Padre: “ È desiderio e volontà della Chiesa che i missionari e le missionarie in tempo di persecuzione non abbandonino il campo. Devono restare al loro posto”. Sentii la voce della mia madre superiora: “Quello che hai fatto, l’hai fatto in ubbidienza”. In quel momento tutto il buio, la confusione e l’oscurità scomparvero e finirono anche gli interrogatori più difficili.
Mi dica del processo.
Il 7 marzo 1952 sono stata avvertita che il mio processo avrebbe avuto luogo il venerdì 19 aprile. Proprio il venerdì santo degli ortodossi. Al processo eravamo in quattordici. […] Quando tutti i quattordici imputati furono interrogati, iniziò la vera accusa. Il presidente a me disse che ero una spia del Vaticano, che avevo dato informazioni politiche al nunzio; che il Papa era il capo dei criminali […]. Quando sentii dire in un’aula pubblica, in un processo, che il Papa era il capo dei criminali, io che avevo servito per dodici anni la Santa Chiesa con amore e venerazione nella nunziatura, mi sentii trafiggere il cuore. In quel momento mi sentii invadere da una forza misteriosa, enorme, come se si fosse concentrata nel mio petto tutta la fede della mia povera famiglia di contadini della Moldavia, tutta la fede delle mie madri e sorelle del monastero. In quel momento io povera suora del Signore mi sentii fortissima; più forte di tutti i carri armati di Stalin.
Sentii che dovevo parlare. Sapevo che avrei aggravato la mia pena, ma non me importava proprio nulla. Con calma, ma fermissima dissi: “Chiedo la parola. Signor presidente, lei ha affermato che il Papa è il capo dei criminali. No, signor presidente, il Santo Padre non è il capo dei criminali, il Santo Padre è il rappresentate del Signore, il Santo Padre è il capo della Chiesa cattolica di tutto il mondo. Avete imprigionato tutti i vescovi, tanti sacerdoti e suore e laici cattolici. Avete abolito la chiesa cattolica di rito bizantino e avete costretto con la violenza centinaia di migliaia di persone cattoliche a passare alla religione ortodossa.
Volete costruire la vostra dittatura atea, distruggendo la chiesa, imprigionando, uccidendo. Era giusto che il nunzio apostolico informasse il Santo Padre sulla sorte dei suoi figli. Ha detto la pura verità. Era giusto che in occidente si sapesse…”.
A questo punto l’avvocato difensore, che mi era stato imposto, mi interruppe dicendo: “Signor Presidente, non badi a quello che ha detto, perché è analfabeta”. (Un’analfabeta, che parlava quattro lingue!) Il vescovo Ioan Dragomir parlò quasi un’ora. Iniziò dicendo: “Signor presidente, noi ringraziamo Dio che ci dona la grazia di essere giudicati proprio oggi, venerdì santo”.Il presidente lo interruppe gridando: “Cosa vuoi? Vuoi convertirci? Smettila”. Ma egli continuò imperterrito: “Gesù fu venduto da Giuda per trenta denari d’argento, condannato, crocifisso”.
“Vuoi catechizzarci? Finiscila!”[…] Il processo durò dalle otto del mattino fino alle dieci di sera. Alla fine i membri del tribunale si alzarono in piedi, il presidente lesse le condanne. A me diedero quattordici anni.
Finita la lettura delle condanne, il vescovo Dragomir intonò il Christus vincit. Cantammo per tre volte: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat.
Cantavo e avevo gli occhi lucidi. Per la gioia.
Intervista realizzata da Don Antonio Rossi [Trascrizione dalla rivista “Sacro Cuore”, giugno 2007]