La Beata Maria Margherita Caiani: un viaggio sulle “ali dello Spirito”

Sabato 3 novembre la Diocesi celebra la memoria liturgica della Beata Maria Margherita Caiani

Per la festa di Madre Caiani sarà aperta tutto il giorno la cappella di fondazione dell’Istituto delle Minime di Poggio a Caiano. Alle ore 17 si terrà la preghiera dei vespri, quindi alle 17.30 la celebrazione eucaristica presieduta da Padre Michele Pini, parroco di Chiusi della Verna, nella chiesa parrocchiale di Poggio a Caiano.

Dobbiamo ringraziare il nostro vescovo Fausto per la felice intuizione che troviamo leggendo le indicazioni operative e attuative della sua lettera pastorale, dove, fra le varie cose, sottolinea l’esigenza di “riscoprire, ricordare e celebrare” nel nostro cammino comunitario la presenza dei Santi diocesani: uomini e donne che nella loro vita hanno davvero volato con le Ali dello Spirito parafrasando, appunto, l’immagine coniata dal vescovo Fausto e che è stata il filo rosso che ha caratterizzato la riflessione di questo triennio. Papa Francesco, al paragrafo 34 di «Gaudete et exsultate», con la sua splendida capacità di sintesi, spiega così la santità: «non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia».Veramente è tutto qui! Santo è colui che è cosciente della propria fragilità e della propria pochezza e nello stesso tempo è colui che proprio per questo ha la capacità di vedere ed accogliere indegnamente la grazia di Dio: da questa unione lo Spirito crea cattedrali umane enormi.
Questa definizione di papa Francesco, questa vivace pennellata, rappresenta più di tanti discorsi il ritratto della Beata Maria Margherita Caiani (1863-1921), fondatrice delle Suore Francescane Minime del Sacro Cuore e beatificata il 23 aprile del 1989 da San Giovanni Paolo II.

Margherita Caiani, al secolo Marianna, nata il 2 novembre del 1863 a Poggio a Caiano, viene battezzata il giorno dopo a Bonistallo. Rimasta orfana molto giovane, avendo nel suo cuore il desiderio di consacrarsi totalmente a Dio inizia a domandarsi insistentemente cosa il Signore volesse da lei, quale la strada da seguire per servirlo. Intanto insieme ad altre ragazze inizia un apostolato fra le vie e le case del paese assistendone i malati e i sofferenti e fondando una piccola scuola itinerante per i bambini. La contemplazione del Sacro Cuore di Gesù, sarà sempre il caposaldo del suo agire: quel Cuore sofferente che lei rivedeva e serviva nei volti della gente del suo paese con quell’umiltà che la portava a dire: «debbo essere morta pur vivendo: morta a me stessa, viva per aiutare gli altri a vivere».
Il suo sarà un cammino di discernimento molto lungo seguito da alti e bassi, sarà un continuo interpretare, aiutata da una solida rete di amicizie, il volere di Dio su di lei, fino ad arrivare al 15 dicembre 1902, anno della vestizione religiosa insieme alle prime compagne e di fondazione dell’Istituto delle Minime Suore del Sacro Cuore. Nel 1910 viene fondata la prima casa filiale a Lastra a Signa e da lì seguiranno numerose altre fondazioni, con il carisma delle Minime che si diffondeva anche fuori dalla Toscana fino a Milano.

Ma importante è capire il carisma di Madre Caiani, e lo possiamo ascoltare direttamente dalle sue parole, parole semplici, quasi un programma per applicare il Vangelo nella quotidianità:

«Io giungo tra gli uomini della terra ma prima devo ascendere al cielo e passando per Iddio, Somma carità, devo avere gli uomini. La corrente del mio amore per gli uomini, miei fratelli, passa solo attraverso il cuore di Dio, per avere gli uomini io devo avere prima di tutto Iddio».

In Madre Caiani vediamo davvero ciò di cui c’è bisogno come non mai nella Chiesa di oggi e nelle nostre comunità: quell’equilibrio fondamentale e maturo fra preghiera e azione, fra il Cristo servito e amato nella carne dei più piccoli e il Cristo contemplato nella preghiera, e per lei in particolare nell’adorazione eucaristica. La corrente verso gli altri, lei dice, è possibile solo partendo dal Cuore di Dio, solo guardando un Cuore ricco di Misericordia, siamo capaci di donare Misericordia. Spesso amiamo poco perché anche preghiamo poco, e quando amiamo poco ci troviamo tristi, avidi, nevrotici.
La Madre insegna che ogni azione deve sempre partire da quel Cuore, dalla contemplazione di quel Cuore: spesso nelle nostre comunità parrocchiali ci perdiamo nelle maglie del tecnicismo, saltiamo questo passaggio di amore e contemplazione che è il primo passo: è come costruire una casa partendo dal tetto e non dalle fondamenta. Quando si tratta di stare in preghiera davanti a Gesù, quando si tratta di trovare tempo per Lui siamo i campioni del “non ho tempo”, dobbiamo imparare a liberare del tempo per quello che è fondamentale, per la “parte migliore” come spiega Gesù a Marta, quella parte migliore che ci dà la forza e la spinta per essere ferventi nella carità.

La Madre ritorna alla casa del Padre l’8 agosto del 1921, gli ultimi anni di vita saranno logorati da un terribile male che la privava di ogni forza, ma nonostante tutto saranno anni di grande impegno per una Congregazione che sempre più aumentava di numero: alla sua morte lascia 13 case filiali e 124 religiose.

«Cosa può volere da me il Signore? Non sono che una povera venditrice di sigari».

È la domanda che spesso Marianna si faceva nella sua ricerca vocazionale, una domanda intrisa di quella consapevolezza di «debolezza», che sottolineava prima Papa Francesco; da una donna che cercava il meglio nella sua vita, che aveva capito che la libertà non è altro che affidarsi ed essere strumento di Dio è nata una comunità religiosa capace di dare un volto ed influenzare nella fede un paese intero. Dalla domanda di una semplice ragazza il Signore ha potuto costruire una piccola fraternità capace anche di essere missionaria, prima nel proprio paese e col tempo nel mondo intero.
La vicenda di Madre Caiani ci dice che per diventare “comunità fraterna e missionaria” dobbiamo iniziare a farci ognuno di noi, intimamente la domanda: «cosa può volere da me il Signore?». Quando insieme, nelle nostre interminabili riunioni, siamo capaci, ognuno di noi, nella verità e nella semplicità, di farci questa domanda scomoda nasce la comunità, la fraternità. «Cosa può volere da me il Signore?»; non c’è stato svincolo della vita in cui la Madre non se lo sia chiesto.

A chi chiedeva a Gesù quasi un “certificato di qualità” su quali fossero le vere opere di Dio, Gesù rispondeva: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,20). Ancora oggi le Minime, e tanti laici insieme a loro, in Italia e nel mondo portano avanti le opere di Margherita Caiani, attualizzandole, rinnovandole in una sfida sempre nuova con la modernità e la sua brama di autosufficienza che continuamente rifiuta l’offerta di un Dio morto per amore.

Simone Panci




Che cos’è l’accoglienza? Una riflessione a partire dalle parole del vescovo

Ci sono molti spunti di riflessione, almeno per coloro che siano riusciti a conservare calma e ragionevolezza, nelle parole che il vescovo di Pistoia ha rivolto alla Chiesa e alla città nel suo recente comunicato. Parole che rappresentano certo un contributo utile alla comprensione di quanto sia accaduto nel tempo recente.

Uno dei richiami sui quali il comunicato di mons. Fausto si incentra riguarda il valore dell’accoglienza. La domanda che in tutta questa vicenda realmente rintocca, sottotraccia, profonda e sorda, è infatti proprio questa: che cos’è davvero l’accoglienza? Cosa significa veramente accogliere? È questo il punto vero di quanto accaduto, finora affrontato solo dalle parole del vescovo, sul quale appare necessario riflettere. Si tratta di una domanda e di una questione che travalicano gli spiccioli fatti di cronaca più o meno gradevoli.

In questo senso non è possibile non cogliere nelle parole del vescovo il tentativo di strappare alle logiche della cronaca gli accadimenti e gli episodi, per loro stessa natura sempre effimeri e passeggeri, e ricondurre il tutto agli orizzonti di senso, ai significati primi e ultimi dove il rumore della cronaca non può riuscire ad arrivare. Non si tratta, infatti, o non si tratta più di una semplice vicenda parrocchiale. Quello che ormai è in discussione è uno dei valori di riferimento di chi cerca di seguire il Signore. Che cos’è l’accoglienza? Come, e perché, e quando, e in nome di chi praticarla?

Lezioni splendide e senza tempo si potrebbero ritrovare, a questo riguardo, nelle pagine di profeti del nostro passato. Ne cito uno tra tutti: don Tonino Bello. L’accoglienza si rintraccia certamente nelle scelte pastorali che una comunità parrocchiale o una diocesi operano. E a questo proposito occorre dire che sarebbe (stato) bello poter vedere che molte parrocchie si adoperano in questa direzione, mentre si deve purtroppo annotare che i molteplici appelli di mons. Tardelli in tal senso, invece, sono stati scarsamente o frettolosamente ascoltati. Ma ancora di più l’accoglienza si rintraccia in uno stile pastorale, in un atteggiamento interiore davanti ad ogni vicenda. Di essa ci sono chiarissimi e inequivocabili segnali rivelatori che ne evidenziano la presenza (o l’assenza) e che, a volte istintivamente, le persone sanno riconoscere senza errore.

L’accoglienza cristiana quindi è veramente tale quando diventa stile di vita ancora più e ancora prima che scelta organizzativa. Quali siano questi segnali non è semplicissimo da dire, ma alcuni possono essere individuati. Certamente il rispetto dell’altro qualunque siano la sua provenienza o il colore della pelle o l’età o le convinzioni politiche. Certamente il rifiuto dello scontro, a partire proprio da coloro che la pensano diversamente.

L’accoglienza, quando è atteggiamento interiore – e quindi stile di vita, e solo allora scelta operativa – non ha nemici, non sente persecutori, non interrompe il dialogo con alcuno. Vede, apprezza, dà valore alle ragioni dell’altro; fa sue le esigenze di tutti, quelle fisiche, quelle morali, quelle pastorali; si adopera perché chiunque si possa sentire preso in cura.

In un certo senso noi cristiani ne abbiamo un alto modello perché l’accoglienza, se è vera, è il frutto di quell’amore all’altro che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Viceversa, se anche dessi tutti i miei beni ai poveri e perfino consegnassi il mio corpo alle fiamme, non sono nulla di più di un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

Un programma altissimo che coglie tutti in difetto, a partire dal sottoscritto, e di fronte al quale l’unico atteggiamento possibile è un’umiltà silenziosa e raccolta.

C’è una domanda nel comunicato che il vescovo Fausto ha rivolto che rintocca e fa riflettere. Come possiamo far crescere tra di noi, nelle nostre comunità, nella nostra città il senso di una fraternità accogliente? Di fronte a quali percorsi, a quali vicende, a quali testimonianze il cuore si allarga, lo spirito cresce, le coscienze maturano? Cosa può ancora essere capace di renderci persone migliori?

Difficile da dire. Di sicuro nulla e nessuno che scelgano di consegnarsi alle alterne sorti della cronaca e alle logiche mediatiche possono farlo. Bauman ha detto parole decisive a questo proposito, tanto per citare qualcuno. Anche se a volte ne siamo tentati e la nostra fragilità ci fa cadere in questi atteggiamenti non possiamo dimenticare che certo non è con la contrapposizione, col dire quattro e quattr’otto, con la pressione mediatica, col dividere i buoni dai cattivi che si dà all’altro una occasione di riflessione, di cambiamento o di integrazione.

Dialogo, pazienza, dolcezza, cura del dettaglio, disponibilità a mettersi in discussione, inclusività ed attenzione nei confronti delle necessità di ognuno, sono la strada obbligata per chiunque e specialmente per chi sceglie di stare dalla parte degli ultimi. Di più, sono l’inoppugnabile riscontro della bontà delle intenzioni profonde.

Un ultimo punto mi preme sottolineare nelle parole del vescovo Tardelli: il ruolo della politica nelle vicende ecclesiali. Altissimo è il contributo che, almeno in tempi passati, i cristiani e il pensiero cattolico hanno saputo dare alla vicenda politica del nostro Paese, almeno alla politica intesa come servizio all’uomo, impegno disinteressato per il bene comune, forma di carità. Tuttavia la distinzione e lo scarto di questi valori di fondo con l’attualità e con la cronaca è piuttosto stridente perché tali principi, peraltro da tutti evocati, anche in questo caso non sembrano nascere da atteggiamenti ed orizzonti interiori che poi diventano stili di vita e alla fine si incarnano in decisioni e scelte e comportamenti. Restano spesso parole. Parole di cartone.

Il rapporto tra la Chiesa e la politica – si potrebbe dire recuperando un linguaggio un po’ arcaico – va facendosi di conseguenza molto complesso. Se non mancano atti e circostanze di aperta ostilità, permangono tuttavia situazioni e momenti (ad esempio quelli elettorali) in cui la politica, nelle sue espressioni di partito o di associazione, cerca di strumentalizzare la Chiesa, a volte anche per supplire ad una mancanza di idee o di collegamento vero con le persone. Purtroppo non sembrano scarseggiare infatti coloro che, a vario titolo, cercano di sfruttarla dal punto di vista della visibilità personale, o economico, o del pubblico consenso o altro ancora. Ed ogni vicenda di cronaca, perfino questa, ne è un esempio.

Eppure anche di fronte a questo la Chiesa deve continuare a dialogare e a battersi, opportune et importune, per un mondo in cui l’uomo, la sua dignità e i suoi bisogni fondamentali siano al centro.
Se mai come ora è stato fragile e problematico il dialogo tra Chiesa e politica, tra Chiesa e politici (o aspiranti tali), è altrettanto vero che mai come ora è urgente riaprire questo dialogo e cercare di dare, da cristiani, il contributo più efficace possibile specialmente in un tempo, come è stato detto nelle conclusioni della Settimana Sociale di Cagliari, di «investimenti senza progettualità; finanza senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza; politica senza società; rendite senza ridistribuzione; richiesta di risultati senza sacrifici».
Orizzonti di senso – e non piccole vicende di cronaca – da riscoprire e sui quali riflettere a lungo. Almeno per chi vuole lavorare per una comunità più bella e più giusta.

Edoardo Baroncelli
ConDirettore Regionale della Pastorale Sociale e del Lavoro
Conferenza Episcopale Toscana




La Visitazione di Pistoia: un’indimenticabile pagina di storia e fede

Mercoledì 24 ottobre 2018 è una data che rimarrà impressa negli annuari storici della diocesi di Pistoia. Questo giorno autunnale, ha visto la chiusura del secolare Monastero della Visitazione di S. Maria di Pistoia.

A seguito della scomparsa della superiora del monastero visitandino, madre Giovanna Teresa Bevilacqua, avvenuta il 17 agosto scorso, la comunità claustrale si è ridotta soltanto a quattro religiose: suor Maria Teresa Petrucci di Camaiore (Lu), suor Maria Regina Pischedda di Nuoro, suor Maria Rosaria Tortolini di Orvieto (Terni) e suor Anna Grazia Vieri di Prato. Un numero esiguo, considerata la vasta struttura monastica di via delle Logge 3, nella quale, da diversi anni, non arrivavano nuove e giovani vocazioni.

La nascita del Monastero della Visitazione di Pistoia risale al lontano 26 febbraio 1737, grazie alla indovinata iniziativa del vescovo pistoiese Federico Alemanni, così desideroso di inserire una comunità dell’Ordine visitandino, sorto ad Annecy (Francia) il 6 giugno 1610, nella propria diocesi.

Il presule, consapevole della preziosità e della funzione di questo cenobio, si avvalse della collaborazione del Monastero della Visitazione di Massa e Cozzile, in Valdinievole. Infatti, dal capoluogo massese, giunsero a Pistoia la triade delle fondatrici, le monache: sr. Maria Margherita Livizzani, sr. Maria Vittoria Margherita Puccini e sr. Maria Anna Eletta Cecilia Cosi Del Voglia, che subentrarono al secolare monastero delle Vergini, in condizione decadente. La nobile suor Maria Margherita Livizzani (1679-1757) fu la prima superiora fondatrice e la prima superiora anche della lunga rassegna delle superiori fino alla scomparsa, come abbiamo ricordato, della madre Giovanna Teresa Bevilacqua.

Pagine edificanti di storia hanno accompagnato l’esistenza di questo glorioso monastero, nel quale non sono mai venute a mancare l’incessante preghiera orante, il sacrificio, le rinunce e la dedizione al lavoro comunitario, finalizzato al benessere e alla redenzione dell’umanità. Infatti, come scriveva il vescovo pistoiese Benvenuto Matteucci, «nessuna Monaca è inutile entro le mura di un monastero, nessuna è relegata in un ambito di passività. Il maggior servizio che una creatura possa rendere all’umanità viene dalle comunità di clausura. Il mondo non sarà mai solo, abbandonato ai limiti febbrili della desolazione; la terra non sarà mai deserta, i suoi abitanti mai inariditi dalla disperazione, finchè vi siano queste testimoni di verità contemplata e di amore partecipato, e cuori capaci di comprendere e di accogliere i loro richiami spirituali».

I pistoiesi, i benefattori e i numerosi amici del Monastero della Visitazione di Pistoia non hanno mai smentito il valore insostituibile e la mansione ecclesiale delle loro monache, alcune delle quali assai zelanti, virtuose e, tali, da lasciare segni indelebili. In questi giorni, tutti hanno manifestato il loro acuto dissenso e una forte amarezza per la chiusura di questo importante monastero. Lacrime abbondanti hanno bagnato il viso di uomini e donne, di giovani e di meno giovani… segno eloquente di grande affetto e di profondo attaccamento.

Avremo sempre nel cuore anche tutte le madri che si sono alternate, con i dovuti intervalli statutari, alla guida della comunità dagli anni sessanta ad oggi: sr. Maria Amata Pozzati, sr. Maria Luisa Pochero, sr. Maria Cecilia Vannini, sr. Maria Amata Sbaragli, sr. Anna Grazia Vieri e sr. Giovanna Teresa Bevilacqua. E nemmeno potremo mai dimenticare i cappellani del monastero di questi ultimi decenni: mons. Guido Lenzini, don Mario Coppini, mons. Serafino Bonacchi, don Sergio Cinelli, don Tommaso Rekiel, mons. Romano Lotti e can. Roberto Breschi.
In questa luminosa compagine monastica pistoiese non possiamo fare a meno di menzionare il valoroso e durevole contributo fornito da don Marino Marini in qualità di confessore.

Dal 24 ottobre scorso, suor Maria Teresa Petrucci, suor Maria Regina Pischedda, suor Maria Rosaria Tortolini e suor Anna Grazia Vieri sono così passate, dopo oltre cinquanta anni vissuti nel monastero di Pistoia, a quello della Visitazione di San Pancrazio/Matraia (Lucca), Via per Matraia 143 (telef. 0583/406356).
E così, quando ci troveremo a passare per via delle Logge, ci sentiremo tutti più poveri e orfani delle nostre monache, del loro silenzio orante e del loro tenero saluto: ”Dio sia benedetto !” .

Carlo Pellegrini




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «sentire/voce» (2)

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Giulio Cecchi (21 anni), giovane studente di conservatorio propone la sua riflessione su: «sentire/voce».

“Sentire/voce”

L’ italiano attribuisce al verbo “sentire” diversi significati, ma il primo al quale pensiamo, di solito, è quello che fa riferimento all’ambito dell’ ascolto e del sistema uditivo: nella vita quotidiana, per lo più, associamo il verbo “sentire” solamente a uno stato di “percezione” uditiva (“riesci a sentirmi?”; “ho sentito un rumore”, etc.), mentre quasi mai questo termine include la presa di coscienza (intesa come razionale, ma anche e soprattutto come emotiva) che segue la percezione. Avviene quindi una scissione fra la semplice ricezione di un fenomeno e l’ effetto che ha sulla nostra emotività.

Il direttore d’ orchestra rumeno Sergiu Celibidache, in una sua lezione, parla di questa scissione, riferendosi all’ascolto musicale: il nostro sistema uditivo consente di farci “sentire” (inteso come “percepire”) le note e il ritmo, ma il “vero” sentire avviene a un livello più profondo di quello sensibile e si realizza quando si colgono gli intimi collegamenti fra i suoni, associandoli al ricordo di esperienze proprie del nostro vissuto. Tuttavia, questo è un processo impossibile da delineare empiricamente, dal momento che coinvolge più il nostro spirito che i nostri sensi, e per questo spesso, gli ascoltatori, anche esperti, smettono di usare la propria coscienza emotiva, riducendo l’opera musicale a una mera sequenza di note.

Qualcosa di analogo avviene nella vita “reale”: spesso capita di avere piena consapevolezza razionale di trovarsi in una certo luogo, o di parlare con una persona, ma la nostra mente sembra non riuscire a vedere in queste situazioni i significati emotivi che ci vengono sottilmente comunicati, e le circoscrive ad episodi a sé stanti, senza collegamenti l’una con l’altra. Resta, quindi, la nostra percezione della realtà, ma non si “sentono” i messaggi che questa invia al nostro io più profondo. Questa forma di apatia potrebbe essere definita con l’ espressione “lasciarsi vivere”, cioè non prendere parte, con la nostra emotività, alla vita.

Come riuscire a “sentire”? È una forma di sensibilità che viene sopita spesso dal nostro ego, che riduce la realtà che ci circonda a un terreno da sfruttare a nostro piacimento. Questo egoismo si manifesta subdolamente in un senso in particolare, quello della vista: vedere ci consente di identificare gli oggetti, ma identificandoli li separa da noi. Una volta averli riconosciuti come qualcosa di “diverso”, subito ci si sente autorizzati allo sfruttamento o, nel migliore dei casi, all’indifferenza. L’ascolto, invece, ne coglie l’emanazione, lo “spirito” che passa attraverso chi ascolta, in una forma di comunione. L’ascolto accoglie, non divide.

Una volta compreso il valore dell’ ascolto, si comprende anche quello della voce, e della parola detta: nel Paradiso, Dante viene interrogato sulle virtù teologali, non per verificare la sua saggezza (gli spiriti celesti leggevano il pensiero di Dante anche senza che parlasse), ma perché il poeta riconosceva la grande importanza della parola, non intesa come semplice veicolo di contenuti, ma come elemento che completa e dà forma al pensiero.

I conclusione, è grazie a questi due elementi, ascolto e parola, che si può sperimentare il “vero” sentire che coinvolge la nostra coscienza emotiva. Ed è a partire da questi che si può sperare di ritrovare il senso della spiritualità che, altrimenti, verrebbe annichilito dal mondo in cui viviamo.

Giulio Cecchi




Il 1 e il 2 novembre: feste di “comunione” di vita

Due appuntamenti liturgici che esprimono la comunione tra noi, Cristo e la sua Chiesa, nella Comunione dei Santi

1 novembre – Solennità di tutti i santi

Il Catechismo della Chiesa Cattolica – riprendendo un commento di San Tommaso d’Aquino al Simbolo Apostolico (il Credo) – afferma:

«La Comunione dei Santi è precisamente la Chiesa. Poiché tutti i credenti formano un solo corpo, il bene degli uni è comunicato agli altri. […]

Allo stesso modo bisogna credere che esista una comunione di beni nella Chiesa. Ma il membro più importante è Cristo, poiché è il Capo. […] Pertanto, il bene di Cristo è comunicato a tutte le membra; ciò avviene mediante i sacramenti della Chiesa». «L’unità dello Spirito, da cui la Chiesa è animata e retta, fa sì che tutto quanto essa possiede sia comune a tutti coloro che vi appartengono».

Con la Solennità di Tutti i Santi uniti con Cristo nella gloria in un unico giubilo di festa, la Chiesa ancora pellegrina sulla terra venera la memoria di coloro della cui compagnia esulta il cielo, per essere incitata dal loro esempio, allietata dalla loro protezione e coronata dalla loro vittoria davanti alla maestà divina nei secoli eterni.

Il Primo Novembre contempliamo la gloria di tutti i Santi. Contempliamo la nostra vocazione eterna di essere santi come è santo il nostro Dio. Il paradiso ci appartiene e noi gli apparteniamo dal giorno del nostro Battesimo. Il seme della vita eterna fu seminato nel nostro cuore, e da quel giorno il nostro nome è scritto nel palmo della mano di Dio. Per noi è stato già preparato un posto, e quel posto lo dobbiamo occupare!

La chiesa nella liturgia di Tutti i Santi ci propone il brano evangelico delle Beatitudini. Gesù ci indica quale è la vera strada della santità. Il percorso obbligato per noi cristiani è proprio quello delle Beatitudini. Come vorremmo far diventare veri in noi quegli inviti: beati i poveri in spirito, beati i misericordiosi, beati gli operatori di pace, beati noi …se ci ritroveremo tutti in paradiso a godere per sempre la gioia eterna di Dio.

I santi che festeggiamo ci invitano ad avere pazienza e a camminare spediti nella via della nostra santità. Se loro sono stati capaci di perfezionare – per quanto possibile umanamente – la loro esistenza, la loro vita quotidiana, lo possiamo anche noi. Loro, nostri compagni di viaggio, intercedono per noi e ci spronano a perfezionarci attraverso le attività di ogni giorno. La palestra della nostra santità è il nostro lavoro, il servizio quotidiano nelle nostre case, il fare la spesa, accudire i nostri cari, fare la fila agli sportelli, gioire per le nostre relazioni ben riuscite, piangere con chi piange e gioire con chi è nella gioia. La pazienza del vivere sia il campo d’azione di ciascuno di noi. Coraggio, abbiamo un traguardo da raggiungere attraverso il nostro impegno quotidiano: il paradiso.

Giovedì 1 novembre mons. Vescovo presiederà le seguenti sante messe:
ore 15.30: presso il Cimitero della Misericordia a Pistoia.
ore 18.00: Solenne Celebrazione Eucaristica Pontificale in Cattedrale

2 novembre – Commemorazione di tutti i fedeli defunti

È molto consolante il pensiero che anche tutto quello che con infinito affetto facciamo per i nostri cari (che sono il “prossimo” più prossimo), il Signore lo ritenga fatto a sé. E questo interscambio di amore non cessa con la morte.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica a proposito dei defunti dice che «la nostra preghiera per loro non solo può aiutarli, ma può anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore» (n. 958).

Pertanto la nostra preghiera, mentre alimenta una comunione di vita che ci è preziosa, ha una duplice efficacia: aiuta le loro anime a purificarsi e giova a noi, perché è come se aprissimo un varco tra noi e loro che ci permette di sentire quanto sia potente la loro intercessione davanti a Dio a nostro favore. Dobbiamo sapere che le preghiere e i meriti della loro vita precedente stanno sempre in atteggiamento di supplica davanti a Dio per noi. Portare un fiore sulle loro tombe è una testimonianza di fede nella comunione di vita che c’è tra noi e loro.

Sappiamo che ai nostri morti la vita non è tolta, ma trasformata, come dice la Liturgia della Chiesa. Portare un fiore è un segno di tenerezza che senza dubbio è gradito a Dio ed è gradito, insieme al loro ricordo nella nostra vita di tutti i giorni, anche ai nostri morti. Ma indubbiamente vi sono altri fiori, ancor più preziosi che possiamo donare. A questo proposito sempre il Catechismo afferma che «fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti» (CCC 1032). Sono questi i fiori che non diventano mai vecchi e il cui merito dura in eterno.

venerdì 2 novembre mons. vescovo presiederà le seguenti liturgie:
ore 9.30: Santa Messa della Commemorazione dei Fedeli Defunti in Cattedrale
ore 11.00: Santa Messa presso il Monumento votivo militare brasiliano (San Rocco)
ore 15.00: Santa Messa presso il Cimitero Comunale di Pistoia

Federico Coppini – Ufficio Liturgico




i linguaggi del divino: un itinerario per ripercorrerli

È giunta al termine la seconda edizione dei linguaggi del divino, intitolata quest’anno “Rinascere dall’alto”. Un arco di incontri dedicati alla spiritualità nel desiderio di recuperare i contenuti chiave della spiritualità cristiana. Una spiritualità in dialogo con l’uomo contemporaneo, che si innerva nelle tensioni e nei luoghi “originari” dell’esperienza umana: la domanda di senso e il senso del tempo, la solitudine, il silenzio, la morte, il senso della liturgia e del rito, l’esperienza dello Spirito.

Ci preme esprimere almeno alcune considerazioni generali sull’andamento degli incontri. In primo luogo la risposta da parte del pubblico, che è stato vario e generalmente consistente. Accanto ad una platea più affezionata e abituale si sono aggiunte presenze esterne e nuove richiamate dai singoli relatori. In secondo luogo è stato bello rintracciare attraverso i diversi interventi una continuità significativa, non soltanto conseguenza della pertinenza al tema generale, ma anche per una generale “sintonia” accompagnata dalla sensibilità per una proposta non riservata agli “addetti ai lavori” bensì aperta e in dialogo con un pubblico vario. Infine attraversare la città in alcuni dei suoi luoghi più belli e carichi di storia come il Battistero, il convento di San Domenico, la chiesa e convento di San Francesco, ci sembra che abbia aiutato a sentirsi “in uscita”, se non altro “in movimento”, dentro e per la città, in spazi che, perduta la storica presenza di vita religiosa, chiedono di non disperdere o dimenticare la propria storia.

A conclusione di questa lunga e bella avventura, è doveroso ringraziare quanti si sono impegnati a realizzare gli eventi accanto all’Ufficio comunicazioni sociali e cultura e all’Ufficio per la pastorale sociale e il lavoro, in primo luogo la Curia diocesana,  i volontari che hanno contribuito all’allestimento e alla gestione degli incontri, l’opera Spatha Crux, i padri Betharramiti di San Francesco, i Padri Domenicani e in particolare il padre provinciale Aldo Tarquini, il capitolo della Cattedrale, i seminaristi, Mariagela Montanari per le foto, Lorenzo Marianeschi per i filmati, Daniel Giusti per le riprese video. Un sentito ringraziamento per il contributo offerto da CONAD e per le piante ornamentali messe a disposizione da MATI piante.

Ricordiamo che tutti gli interventi sono disponibili online sul canale youtube diocesano

Di seguito proponiamo un piccolo itinerario attraverso gli interventi per ripercorrere la ricchezza che ci è stata consegnata.

Bernardo Gianni

Ha aperto la rassegna padre Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte giovedì 5 ottobre nel battistero di San Giovanni in Corte. Padre Bernardo, monaco olivetano molto noto a Firenze e dintorni, si distingue per la capacità di dialogare con vicini e lontani così come con l’arte e la letteratura. Il relatore ha infatti proposto una riflessione molto suggestiva, carica di echi letterari indicando il cielo, -nel segno del titolo della rassegna- come un «grembo di rinascita». È ancora possibile -si domandava- rinascere dall’alto laddove la contemporaneità avverte «la sterilità del cielo»? Una sterilità che è conseguenza di un uomo che si sente gettato nell’esistenza da una forza inafferrabile e disordinata. Anche l’incredulo, o l’inquieto Nicodemo di oggi, tuttavia può sentirsi collocato in una realtà più “grande”. «Noi tutti non siamo solo terrestri», «noi nati, noi forse ritornati, portiamo dentro una mancanza e ogni voce ha dentro una voce sepolta, un lamentoso calco di suono». Sono i versi di Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951-) che padre Bernardo Gianni ha rilanciato nello spazio cavo e aperto del Battistero di Pistoia, quasi un grembo in cui posare e far crescere l’eco delle sue suggestioni.

La serata è stata accompagnata, quasi una traduzione visiva di una traiettoria spirituale, dalle foto in bianco e nero di Mariangela Montanari, originaria di Roma, abitante a Pistoia, oblata benedettina a San Miniato al Monte, cui ha dedicato il suo libro fotografico «Ubi amor, ibi oculus» (Polistampa, 2018).

Guidalberto Bormolini

Guidalberto Bormolini, monaco della comunità “i ricostruttori della preghiera”, ha proposto una riflessione sulla morte molto forte e coinvolgente. Il suo procedere ha preso spunto da una contemporaneità sempre più infastidita dalla morte, che tende drammaticamente a rimuovere o negare. Dall’indagine del reale padre Bormolini passa alla sapienza dei padri della Chiesa, ma anche ai frutti di un costante e personale lavorìo spirituale con cui ha scosso l’uditorio. D’altra parte la preparazione alla morte, ha ricordato Bormolini, è sempre stata presente nella storia millenaria dell’uomo sia attraverso l’orizzonte filosofico che quello religioso. Morte da pensare e ri-pensare, dunque, come compimento della vita, apertura ad un oltre, porta della vita. Rinascere dall’alto – concludeva Bormolini – per il pensiero cristiano significa entrare pienamente dentro questo oltre, per diventare, qui, ora, corpo di luce, di fuoco divino. È il cammino di divinizzazione che la trazione cristiana propone all’uomo stretto nella finitezza del suo essere.

 

Antonella Lumini

Antonella Lumini, eremita metropolitana di Firenze ha raccontato, con l’aiuto di Paolo Rodari, giovane vaticanista di Repubblica, la sua esperienza spirituale condotta, dopo un tempo di lontananza dalla fede, attraverso lunghi anni di ricerca. Un’esperienza che ha registrato una prima svolta in un momento luminoso di percezione “altra” di sé e delle cose create avvenuto sul nostro appennino pistoiese. Di lì in poi Antonella ha scoperto e percorso una via di solitudine e silenzio, pur dentro la vita “normale” di archivista della Biblioteca Centrale di Firenze. Il silenzio e il raccoglimento, li vive infatti nella sua casa, o meglio, in una stanza della sua abitazione di Porta Romana che, secondo la tradizione ortodossa, ha trasformato in pustinia, eremitaggio casalingo che ha anche il significato di “deserto”. Un deserto che ha sperimentato come luogo di ascolto e accoglienza dello Spirito. Lascia stupiti il modo semplice e dimesso di raccontare la sua vicenda e che segue un’urgenza dello Spirito emersa soltanto dopo venti anni di preghiera e ascolto.

L’incontro con Antonella Lumini è stato seguito dal documentario “Voci dal Silenzio”, un affresco sull’esperienza eremitica in Italia realizzato da due giovani registi, Joshua Wahlen e Alessandro Seidita. Un’esperienza visiva che incanta e porta lontano (o forse molto a fondo dentro di sé) nelle diverse esperienze di solitudine e contatto con la natura dove, pur nelle diverse sensibilità religiose e nei diversi stili di vita, emerge un contatto con le sorgenti originarie dell’essere.

Ermes Ronchi

Gli incontri dei Linguaggi del divino hanno poi proposto la riflessione di Ermes Ronchi, biblista molto apprezzato e anche noto volto della televisione per i suoi commenti al Vangelo. Padre Ronchi ci ha raccontato un Gesù in dialogo, sempre teso e interrogare e far interrogare l’uomo perché rintracci dentro di sé le attese del cuore, i quesiti di senso, i sogni profondi. «Ma cosa vive in te? Cosa muove la tua vita?»; il Gesù dei Vangeli – ha affermato Ronchi – «entra attraverso domande, più che attraverso proposizioni assertive». «Quali domande fanno vivere?», chiedeva padre Ronchi. «Le buone domande sono quelle del cuore» e «la domanda prima è: ma io sono contento? Mi piace la mia vita?». Ronchi ha tracciato l’umile via della domanda che attraversa i Vangeli e in particolare il Vangelo di Giovanni dall’inizio («Che cosa cercate?», Gv 1,38) alla fine («Mi vuoi bene?», Gv 21,17). Una via che rivela tutta l’arte dell’incontro propria di Gesù e mostra un volto di Dio che è forse un po’ diverso da come ce lo siamo sempre immaginati.

Andrea Monda

Andrea Monda, docente di religione cattolica presso i licei di Roma, scrittore e appassionato di letteratura e cinema ha raccontato la propria esperienza a contatto con gli adolescenti. Uno sguardo interessante sulla realtòà giovanile di oggi, che invita e non generalizzare, a uscire dalle categorie sociologiche per entrare nell’ascolto, offrire un tempo di disponibilità in cui è il racconto, anche della propria esistenza, che suscita interesse, coinvolge e apre al dialogo. Il mestiere del docente di religione – appuntava Monda- si configura sempre più come uno “sport estremo” in cui la prima difficoltà è superare e riagganciare un linguaggio laddove si sono perse le parole chiave del vocabolario cristiano o “spirituale”. Eppure, ricordava «in un’ora di lezione può cambiare la tua vita ..se accade un incontro», una realtà imprevista, incontrollabile, che chiede di essere «disarmati» e disponibili.

Gaetano Piccolo

Padre Gaetano Piccolo, con chiarezza di pensiero e una grande vivacità simpaticamente partenopea, ha offerto una sintesi sul discernimento a partire dalla tradizione gesuitica. Discernere – ha ricordato Piccolo – non fa primariamente rima con “scegliere”, ma con la capacità di rintracciare senso nelle vicende della propria esistenza. Piccolo, che è gesuita e docente di metafisica presso la Pontificia Università Gregoriana, ha ripresentato il vocabolario chiave del discernimento, segnato la differenza tra emozioni, sentimenti, pensieri per far comprendere l’importanza di prestare attenzione ..alla vita e di restare in ascolto della Parola di Dio. È impossibile, infatti, – ha ricordato Piccolo – che la Parola di Dio non ti faccia sentire niente. Domandati allora: «che cos’è che non vuoi sentire?». Tante le indicazioni –anche pratiche- per vivere il discernimento che Piccolo ha riassunto in un libretto di grande successo dal titolo emblematico: «Testa o cuore?. L’arte del discernimento».

Goffredo Boselli

Goffredo Boselli, monaco di Bose e liturgista, ha proposto la sua riflessione sulla relazione tra umanità e liturgia. Parlare di umanità in rapporto alla liturgia è possibile perché Dio stesso si è fatto uomo. Per cui occorre recuperare ciò che unisce la forma della rivelazione alla forma della celebrazione. La riforma del Vaticano II ha cercato di venire incontro a questa esigenza, proponendo forme rituali che non si allontanano dalle forme abituali della vita. «Se eliminiamo ciò che è più umano – ricordava Boselli – si toglie ciò che è più divino». La liturgia è in continuità con la forma della rivelazione ed è chiamata a essere Vangelo celebrato. «Solo una liturgia umana – ammoniva Boselli – sa centrare il centro della vita umana. Se non capiamo la vita non capiamo Dio». Boselli ha infine evidenziato un ultimo punto cruciale, cioè «l’umanità sofferente come criterio ultimo della liturgia». La liturgia, cioè, non può essere sottrazione o alienazione dal mondo e dall’umanità sofferente. La liturgia autentica può invece farci «crescere in umanità»: la «liturgia è una risorsa di umanità».

Basilio Petrà

Mons. Basilio Petrà, preside della facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha proposto una profonda riflessione sul tema “Che cos’è la vita nello Spirito?”. Uno Spirito con la S maiuscola, perché Spirito Santo. Un Spirito che non mortifica o diminuisce l’uomo, ma lo rende capace di essere se stesso. Lo Spirito ricevuto nel Battesimo – ricordava Petrà- ci introduce in una vita nuova e ci pone in una relazione differente con il mondo, ormai mediata dallo Spirito, che ci accoglie come un grembo materno dal quale imparare a percepire, conoscere e riconoscere. Lo Spirito, ricordava Petrà sulla scorta della tradizione orientale a lui particolarmente cara, ci rende icone viventi di Cristo: «è Lui il grande iconografo». La vita nello Spirito è un’esperienza che tutti i battezzati possono sperimentare. Petrà non ha mancato, dietro un fuoco di fila di domande da parte del pubblico, di evidenziare come un criterio per comprendere se davverso si vive nello Spirito è interrogarci se siamo capaci di amare i propri nemici. Una proposta esigente, ma concreta, con cui misurare l’azione dello Spirito che ci rende più umani.

Giordano Frosini

La conclusione degli incontri è stata affidata a Mons. Giordano Frosini, “padre” delle settimane teologiche pistoiesi e animatore culturale della nostra diocesi. Gli acciacchi dell’età non hanno spento la passione per la curiosità intellettuale, né la pungente capacità di mettere in crisi pensieri “addomesticati”, conformismi e apatie culturali. Il suo intervento è stato l’occasione per riascoltare la vivace proposta di una teologica fondamentale, capace di interpellare ogni uomo, credente o meno, che pure abbia il coraggio e la passione di interrogarsi e ragionare sui grandi temi che toccano l’uomo di ogni tempo: perché l’essere e non il nulla? Come leggere i Vangeli? Quali sono i bisogni e le attese fondamentali dell’uomo di oggi e di sempre? L’uomo nutre ancora “desiderio di infinito?”.

Giovannini, Letta, Santoro

Un ultimo appuntamento, a cura dell’Ufficio diocesano pastorale e sociale del Lavoro ha visto una tavola rotonda sui temi dell’impegno civile e politico, dell’economia e del lavoro che ha riscosso una notevole partecipazione da parte di numerosissime persone. La tavola rotonda, moderata dal giornalista Marco Damilano, direttore dell’Espresso, ha visto come protagonisti mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, delegato dalla Confenza Episcopale Italiana per i problemi sociali e del Lavoro, Enrico Letta, economista ed ex premier, Enrico Giovannini, economista ex presidente dell’Istat, fondatore dell’ASVIS (Agenzia per lo sviluppo sostenibile).

ugo feraci




I giovani, un futuro sostenibile, la dignità del lavoro e dell’uomo

Una tavola rotonda con Letta, Giovannini e mons. Santoro, vescovo di Taranto ha chiuso “i linguaggi del divino”.

Nella splendida cornice della Chiesa di S. Francesco, Lunedì 22 Ottobre, si è svolto l’ultimo evento della Rassegna 2018: una tavola rotonda su interessanti temi di attualità quali. L’impegno civile e politico e quello dell’economia e del lavoro, che -possiamo con soddisfazione affermare- ha riscosso una notevole partecipazione da parte di numerosissime persone.
La tavola rotonda, moderata dal giornalista Marco Damilano, direttore dell’Espresso, ha visto come protagonisti relatori di grande livello: mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, delegato dalla Conferenza Episcopale Italiana per i problemi sociali e del Lavoro, Enrico Letta, economista ed ex premier, Enrico Giovannini, economista ex presidente dell’Istat, fondatore dell’ASVIS (Agenzia per lo sviluppo sostenibile).

Il titolo scelto per l’incontro «Fa’ che non manchi mai il pane e il lavoro- L’impegno per un mondo più giusto» ha dato subito il senso dell’iniziativa stessa, iniziativa che ha trovato il suo fondamento nelle numerose indicazioni da parte del Magistero della Chiesa. In particolare abbiamo tenuto presente la 48° Settimana Sociale dei cattolici italiani tenutasi un anno fa a Cagliari.
La settimana sociale di Cagliari non è stato un convegno astratto, nè un punto di arrivo, ma un punto di partenza per la mobilitazione del “popolo cattolico”, chiamato ad operare una profonda “conversione culturale” allo scopo di trovare risposte ai bisogni urgenti della gente. In quella sede fu proprio lo stesso mons. Santoro a lanciare un forte appello, invitando i cattolici a riprendere la loro “leadership” nel «dibattito pubblico, sociale e politico» facendo leva sul potenziale costituito da tantissime competenze ed esperienze presenti nella comunità ecclesiale italiana e che vanno messe a servizio del “bene comune” e dell’interesse generale, in primis sulla “questione lavoro”. «I problemi economici – afferma il vescovo di Taranto – non sono una nicchia, ma costituiscono l’asse portante della nostra società che, come tale, non può essere lasciato in mano all’attuale modello di sviluppo, non può vedere assenti o insignificanti i cattolici: lavoro, famiglia, scuola, salute, ambiente, migranti, gli ambiti in cui la rilevanza pubblica dei cattolici deve svilupparsi, senza dimenticare mai l’opzione preferenziale per i poveri e l’attività caritativa».

La realizzazione di questo evento, voluto dalla diocesi di Pistoia all’interno de “I linguaggi del divino” è stata indubbiamente una importante occasione per conoscere meglio, avere una lettura più illuminata scaturita dal confronto con esperti qualificati. I temi trattati riferiti ai cambiamenti del mondo del lavoro, alla necessità di rimettere al centro del dibattito politico i temi dell’economia reale e del lavoro, nonché sull’impegno dei cattolici in politica, sono stati di evidente interesse, coinvolgenti e stimolanti in quanto riguardano la vita di tutti noi, il futuro delle nostre comunità.

Enrico Letta nel suo intervento ha messo costantemente l’accento sui giovani, offrendoci peraltro una “lettura” nettamente positiva e piena di speranza per il futuro. «In questi giovani, nei miei studenti ritrovo ogni giorno – ha affermato l’ex premier – quella stessa capacità di innovazione e creatività che hanno costituito il motore dello sviluppo del nostro paese. Se li guardo vedo soltanto un grande futuro per l’Italia e per l’Europa – e noi abbiamo la responsabilità di garantire loro una formazione di alto livello per affrontare al meglio le sfide del prossimo futuro».

Enrico Giovannini – portavoce Asvis (Agenzia per lo sviluppo sostenibile ) – associazione nata due anni e mezzo fa per diffondere la cultura della sostenibilità e la conoscenza dell’Agenda 2030 – ha messo in evidenza che, per quanto in alcuni ambiti si registrino dei passi avanti, se non si interviene con interventi coordinati e con azioni immediate e consistenti, sarà impossibile rispettare gli impegni presi dal nostro Paese. «Ciò che manca – ha spiegato Giovannini – è una visione coordinata delle politiche per costruire un futuro dell’Italia equo e sostenibile. Il confronto tra le forze politiche nelle ultime elezioni non si è svolto intorno a programmi chiari e con un orientamento in tal senso. Come Asvis – ha continuato – stiamo proponendo al governo almeno due misure urgenti e a costo zero: introdurre lo sviluppo sostenibile tra i principi fondamentali della nostra Costituzione e trasformare il Cipe in Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile. «Senza un’attenzione all’ambiente che ci ospita – ha ricordato – non potrà esistere un futuro di prosperità per nessuno».

«Dobbiamo riscoprire un rapporto diverso con il lavoro e con i lavoratori – ha affermato mons. Filippo Santoro – rimettendo al centro la persona e la sua dignità, addirittura prima di qualsiasi altra istanza, sia essa economica o tutela dei diritti». Il vescovo ha ricordato le parole pronunciate da Paolo VI nel corso della messa della notte di Natale del 1968, celebrata all’allora Italsider di Taranto: «Montini affermò che la Chiesa non condivide le passioni classiste, quando queste esplodono in sentimenti di odio e in gesti di violenza; ma la Chiesa riconosce, sì, il bisogno di giustizia del popolo onesto, e lo difende, come può, e lo promuove. E aggiunse: “non di solo pane vive l’uomo, dice la Chiesa ripetendo le parole di Cristo; non di sola giustizia economica, di salario, di qualche benessere materiale, ha bisogno il lavoratore, ma di giustizia civile e sociale”».

Selma Ferrali – Ufficio Pastorale Sociale e Lavoro

(foto di Mariangela  Montanari)




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «sentire/voce»

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Arianna Candelli (20 anni), giovane studente di archeologia propone la sua riflessione su: «sentire/voce».

Sottile Voce di silenzio

Spesso si fa del suono svago, sollievo e passatempo. Con i pensieri dialogano la solitudine del cuore e la pace perduta che si fanno vive sulle labbra. Il nudo silenzio della propria essenza copriamo pudici col manto sfarzoso dell’eloquenza. Profonde incomprese verità si proferiscono in ogni dove e solide fortezze si innalzano maestose su friabile terreno. Come faremo, quindi, così vestiti ed arroccati nei nostri baluardi a sentire l’umile autentica Voce del vento farsi strada tra le fessure degli infissi e giungere a noi?

La sensibilità di cui siamo dotati per sentire non è semplice da affinare, e la parola, per mezzo della quale la Voce parla, è un’entità di per sé fragile. Non stupisce che Dio, infinito ed eterno difensore dei deboli, abbia scelto proprio questa piccola indifesa per rivelarvisi, penetrando in una realtà così delicata, in un mondo che pullula di voci e di rumori.

Nel capitolo 11 della Genesi i versetti 1-9 sono dedicati all’emblematico episodio della Torre di Babele e leggendone l’inizio troviamo scritto che, prima della dispersione degli uomini, tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Su quale fosse la lingua primigenia dell’umanità molti si interrogarono a lungo. Fra’ Salimbene de Adam da Parma, francescano del XIII secolo, nella sua Cronica ci racconta, a proposito di questo fatto, che l’Imperatore Federico II di Svevia, nel tentativo di venire a capo proprio di quel quesito, avrebbe fatto crescere alcuni bambini ordinando di non rivolger loro alcuna parola o vezzo. Non parlando con nessuno, purtroppo, questi piccoli morirono presto. Commenta Salimbene che i neonati «non potrebbero vivere senza quel batter le mani e senza quegli altri gesti, senza l’espressione sorridente dei volti e senza le carezze delle loro balie e nutrici». Esiste dunque un idioma primordiale? Sì. Si tratta di un linguaggio custodito nell’anima di ciascuno di noi che ci permette di sentire: quello dell’Amore, della tenerezza della madre per il figlio, di Dio per l’uomo. È la Sua Voce che siamo chiamati ad ascoltare, quella di Colui che nel donarci più di Se Stesso tutto ci dona. Ed ecco che l’esile parola, nel Suo Amore, si fa potente, energica, splendente di luce, codice e fonte di cultura e di speranza.

Accade, tuttavia, che talvolta in momenti di frenesia, debolezza, difficoltà e turbamento, i sensi dell’uomo siano annebbiati e non riescano più a ricordarsi come sentire. Espandiamo nell’etere il nostro io e nella dimensione della preghiera, spesso superbamente, pretendiamo di trovare facili risposte di conforto ai problemi presenti, ma Dio non ascolta le nostre parole se non quando è Lui stesso a plasmarle dalla nostra bocca. Conosce infatti ogni bisogno ancor prima che sia manifesto e nulla ottiene da Lui chi prega per il solo avere. L’uomo che non ha responsi immediati si sente abbandonato, escluso in questa circostanza di offuscamento, incapace di percepire la Voce del Signore che sussurra al cuore tenendoci per mano. Lì si è subito posto vicino ad ognuno, e sempre lì sarà ad accompagnarci nei mondi della vita terrena e celeste. Ci domandiamo dove Lui sia e dove ricercare la sua Voce quando non l’udiamo più. Forse ascoltando i flutti ondosi del mare, lo scroscio d’una cascata impetuosa, il crepitio d’una pioggia autunnale, lo scricchiolìo nei ghiacci invernali, il cinguettare del risveglio di primavera o il tuono nel cielo plumbeo?

Dio ha creato tutte queste meraviglie per i nostri sensi, ma la Sua Voce è spesso silenziosa e più difficile da percepire di ogni altra cosa. Per questo, come figli dell’Amore del Nostro Signore, immersi oggi più che mai in un tumulto continuo di discorsi, immagini e richiami diretti ed espliciti, dove il tempo e lo spazio per ciò che è invisibile agli occhi sono molto ridotti, dovremmo cercare di educarci ed educare, lasciandoci avvolgere fiduciosi dalla brezza del vento di Dio, a sentire la bellezza autentica del Divino Silenzio fine e leggero ove ogni parola si compendia.
Arianna Candelli

nella foto: Edward Steichen, Moonlight: The Pond (1904)




Chiude il monastero della Visitazione: il dolore e il ringraziamento del vescovo

Solo oggi, 22 ottobre, ricevo la notizia ufficiale da parte di chi ha la responsabilità ultima del monastero della Visitazione in Pistoia, della sua imminente chiusura.

La cosa era nell’aria da tempo, è vero. La Madre federale che aveva assunto qualche mese fa il governo del Monastero per disposizione della Santa Sede, all’inizio del suo mandato era venuta da me a presentarmi la situazione, certamente pesante per l’età avanzata delle monache, il loro esiguo numero, la configurazione stessa del monastero. L’avevo pregata di fare di tutto perché non venisse meno questa esperienza storica di vita contemplativa nella città e nella diocesi di Pistoia. L’ho pregata di cercare una soluzione, facendola accompagnare a visitare ambienti, ville, luoghi in Pistoia e fuori dove poter trasferire le monache e rivitalizzare il monastero con qualche immissione nuova, proveniente da qualche altro monastero. Non c’è stato niente da fare. Non è stato trovato niente di adatto in Pistoia e dopo alcuni falliti tentativi di trasferimento del Monastero in altra diocesi vicina, il Consiglio federale, organo di governo che riunisce le varie superiore monastiche di una regione ecclesiastica, ha deciso di chiedere alla S. Sede la soppressione del Monastero di Pistoia.

Il Vescovo, ogni vescovo, al riguardo della vita dei religiosi e dei monasteri ha un compito di vigilanza ma comunque dei poteri ben limitati, sia rispetto ai superiori legittimi che alla Santa Sede.

Il fatto non può che addolorarci profondamente, perché viene a mancare uno spazio spirituale importante, che l’amorevolezza delle monache aveva coltivato con grande sensibilità, così da essere ristoro per tante anime e ricchezza per la nostra chiesa locale oltre che per l’intera città. La chiusura di case religiose e monasteri è purtroppo all’ordine del giorno in Europa e anche in Italia, causa la scristianizzazione della società, la drastica riduzione delle nascite, il venir meno di vocazioni religiose. La nostra diocesi non sfugge alla crisi, anzi ne è significativamente colpita. Soltanto un paio di anni fa se ne andarono definitivamente i figli di San Francesco; alla fine di agosto di quest’anno andati via i padri domenicani; tra l’altro gli uni e gli altri presenti attivamente a Pistoia da molti secoli. Oggi è la volta delle monache salesiane. E domani? La cosa mi preoccupa non poco. Può mai vivere una diocesi senza la testimonianza della vita consacrata, senza la presenza di uomini o donne che si dedicano totalmente alla preghiera nella contemplazione del mistero di Dio salvatore del mondo? Io penso di no e quindi leggo questi avvenimenti come un severo monito del Signore a tutti noi, perché torniamo con forza ai valori spirituali, rinnoviamo il nostro impegno di vita cristiana, per l’edificazione di comunità cristiane vive e per famiglie autenticamente evangeliche. Solo da questo potranno scaturire quelle vocazioni alla vita consacrata e contemplativa di cui sentiamo oggi acutamente il bisogno.

Voglio qui ringraziare di vero cuore le care monache della Visitazione per la loro presenza e la loro testimonianza. Quelle che ora vengono trasferite in altro monastero e quelle del passato. Io ho potuto conoscere soltanto le ultime, ma già da questo contatto ho capito quanto sia stata ricca e bella la loro vita. Ho ascoltato da molti pistoiesi ciò è stato fatto nel passato e l’importanza del monastero per Pistoia. Invito pertanto tutta la cittadinanza, in primo luogo le autorità cittadine che ci rappresentano, a riconoscere nella gratitudine, anche pubblicamente, il dono prezioso che è stato il monastero delle salesiane, mentre chiedo a tutta la nostra diocesi di pregare insistentemente il buon Dio perché non venga meno nella nostra chiesa particolare, la testimonianza della vita consacrata.

+ Fausto Tardelli, vescovo

23/10/2018




Il vescovo Tardelli interviene sulla vicenda Vicofaro

PISTOIA – “L’altra sera a Vicofaro è successo qualcosa che mi ha amareggiato profondamente. Non ne ero stato certo avvisato; e perché mai avrei dovuto esserlo, del resto? Mi ha amareggiato per tanti motivi, non per uno solo. Qualcosa mi inquieta e non mi piace in ciò che è accaduto. È stato un punto che ha segnato il vertice di una escalation insopportabile. Invece di sciogliersi e trovare una soluzione accettabile, la vicenda di Vicofaro nel tempo è andata sempre più ingigantendosi, complicandosi, esacerbandosi.

Ma – mi dico – non sarebbe meglio spegnere i riflettori su Vicofaro e cercare tutti, come già diceva il grande Papa S. Giovanni XXIII, ciò che  ci unisce, piuttosto ciò che ci divide? In tempi di schieramenti sempre più feroci, questa mia affermazione non andrà a genio a molti. Non importa perché non ho da piacere a nessuno. Sono del tutto convinto che la verità non stia mai tutta solamente da una parte e nessuno la possieda completamente. Ci sono sempre ragioni da una parte e dall’altra.

Solo nell’ascolto reciproco, nell’attenzione all’altro, nel venirsi incontro si trova la soluzione ai problemi. A Pistoia questo è possibile? A volte, sinceramente mi pare proprio di no. Eppure io credo che dobbiamo tutti sforzarci di fare un passo indietro e ragionare, senza farci prendere dall’emotività o, peggio, dai risentimenti.

Chi è credente in Gesù Cristo sa bene che non possiamo accusarci l’un l’altro di essere lontani da Lui, ma solo correggerci fraternamente perché tutti impariamo a seguirlo sempre di più laddove egli ha voluto essere: nella Chiesa, nella sua parola, nei sacramenti, nel volto dei poveri come i migranti che vengono da noi in cerca di futuro per la loro vita.

Vorrei allora che ci domandassimo: ma tutta questa storia, la vicenda di Vicofaro, da quando l’anno scorso iniziò sui social, ci ha portato ad essere migliori? Ha condotto a migliorare questa città? Ha fatto aumentare il numero delle persone solidali e aperte agli altri? Ha fatto crescere in questa città il senso di una fraternità accogliente? Ha permesso una vera integrazione degli ospiti accolti? Onestamente, mi pare proprio di no. È aumentata l’intolleranza; nel quartiere qualcuno è giunto all’esasperazione; nel frattempo le posizioni si sono soltanto radicalizzate e politicizzate, tant’è che sembra di esser tornati al tempo dei Panciatichi e dei Cancellieri. Manca solo che ci si cominci ad accoltellare l’un l’altro. E’ questo che vogliamo? Ci pare che si possa costruire qualcosa di bello in questo modo? Vogliamo arrivare alla guerra? L’unica cosa da fare è “chiamare alle armi”?

Credo piuttosto che dovremmo tutti interrogarci sulle nostre responsabilità e su cosa possiamo fare in positivo perché Vicofaro diventi davvero un luogo di speranza e non di scontro; di unione e di pace e non occasione di divisione e di contrasti, un laboratorio di civiltà e di convivenza e non un terreno di lotta.

Molto può fare don Massimo, sicuramente. Molto dipende da lui. Non voglio dire di più. Credo che se ne stia rendendo sempre più conto. Non è in discussione l’accoglienza. Quelli che la mettono in discussione, lo dico chiaramente, sbagliano di grosso. Vorrei che costoro capissero che l’accoglienza è un valore grande, profondamente umano e cristiano. Vorrei che non si facessero confondere le idee da slogan, luoghi comuni o ben congegnate falsità. L’accoglienza vera però mira all’integrazione. Richiede attenzione alle persone e al luogo dove si realizza; deve riuscire a intavolare un dialogo costruttivo con i nostri ambienti, con tutti i settori della nostra società; deve cercare di superare pregiudizi e paure, facendo crescere la conoscenza e la relazione tra le persone; con pazienza, dolcezza, positività. Deve essere sempre “accompagnata” e mettendo in atto un processo educativo che insegni anche il rispetto per gli usi, le tradizioni, i valori del popolo in cui si è accolti.

Oltre a don Massimo, possono fare qualcosa anche chi sta attorno a lui, aiutandolo a migliorarsi, a porsi nel modo giusto nei confronti della gente del quartiere, delle autorità, della comunità parrocchiale.

Possono fare qualcosa anche i politici. Sì: star fuori da Vicofaro. Lo dico chiaramente. A Vicofaro non si combatte una battaglia tra schieramenti politici; tra chi è a favore del governo e chi è contro. Non può essere l’occasione per condurre lotte partitiche. L’esperienza di Vicofaro è nata dentro una parrocchia quale segno dell’attenzione della chiesa al mondo dei migranti e questo deve rimanere, non può snaturarsi. E questa è anche una mia precisa responsabilità.

Potrebbe fare qualcosa anche il governo. Si, il governo. Nazionale e locale. Alla fine, in ultima istanza, è a chi governa che si può attribuire quanto accaduto l’altra sera. Purtroppo mi pare che se il governo precedente ci ha dato una pessima gestione del fenomeno migratorio, giocata tutta o esclusivamente sull’emergenza, l’attuale si sta muovendo in una linea dura di rigore che non è ragionevole e rischia di offrire obiettivamente spazio a sentimenti razzisti e xenofobi indegni dell’uomo e del nostro paese. Ma i governi, in un paese democratico, li scelgono in buona sostanza i cittadini con il voto; quindi non è lamentandosi che si cambiano le cose ma acquisendo consensi attorno a valori e scelte più confacenti alla dignità umana.

Potrebbero infine fare qualcosa anche i mezzi di comunicazione, se cercassero di abbassare i toni e invitassero alla ragione. Se spegnessero un po’ i riflettori su Vicofaro e non inseguissero o, peggio, creassero la notizia che fa più rumore. Se mettessero invece sempre più in luce le cose positive che sono presenti nel nostro territorio e che ci permettono di sperare in una risoluzione dei problemi e in un futuro migliore di questa città.

Credo che tutti vogliamo che Pistoia sia una città di pace, bella, accogliente, multietnica e al tempo stesso sicura e ben custodita, che cresce e prospera attraverso l’apporto sereno di tutti. E allora, lavoriamo tutti generosamente per questo. Per questo diamoci da fare, insieme.

Mons. Fausto Tardelli – vescovo di Pistoia