Ai giovani pellegrini toscani – Chiesa di San Francesco (10 agosto 2018)

Benvenuti, carissimi giovani.

Se non son mille, certo son molte e diverse le strade da cui venite. Avete camminato e faticato, in questi giorni caldissimi. Avete incontrato e ammirato, avete conosciuto e vi siete conosciuti, avete trovato ospitalità e al tempo stesso avete trasmesso gioia e voglia di vivere. Siete venuti da diversi luoghi della toscana e oltre. In questi stessi momenti, molti altri giovani da ogni parte d’Italia sono in cammino verso Roma.

Ora siete qui, ma la meta non è ancora raggiunta. Siamo infatti diretti appunto a Roma, presso la tomba dell’apostolo Pietro, per stringerci attorno al Papa Francesco; non tanto per vedere un uomo, quanto, riconoscendo il lui il successore dell’apostolo Pietro che il Signore ha messo a capo della sua chiesa, per essere confermati nella nostra fede. Ma la nostra vera meta non è nemmeno Roma, bensì Gesù Cristo. Noi siamo in cammino, carissimi giovani, verso Cristo, per essere afferrati e conquistati da Lui e gettare tutta la nostra vita in Lui, con Lui e per Lui, accettando la sfida di realizzare un mondo nuovo, migliore di quello che conosciamo, dove ci siano sempre meno guerre e odio, dove abiti giustizia e verità e che si apra senza paura al Dio dell’amore che Gesù ci ha rivelato. Il Papa Francesco vi ha invitato a ripensare la vostra vita, a fare discernimento, cioè a comprendere la chiamata che Dio vi fa. Ognuno infatti ha una chiamata da Dio, non è venuto al mondo per caso. Ognuno di noi è chiamato in modi diversi e originali, alla santità che è la pienezza dell’amore.

Oggi qui facciamo solo una sosta. Una sosta importante; non a caso a Pistoia, perché la cattedrale di questa città custodisce da tanti secoli, dal 1145 per la precisione, una reliquia dell’apostolo Giacomo, ricevuta direttamente da Santiago di Compostela, dove sono i resti mortali dell’apostolo Giacomo. Pistoia, chiamata la Santiago minor, custodisce la memoria preziosa di un grande apostolo, e per questo motivo è stata meta di pellegrinaggio, punto di partenza per il cammino; sosta di passaggio per raggiungere Roma, oppure la stessa Santiago.

Jacopo o Giacomo, grande testimone del vangelo, fu ucciso, primo fra gli apostoli, dal re Erode Agrippa a Gerusalemme poco dopo l’anno 40 dell’era cristiana. Detto «il maggiore», era fratello di Giovanni l’evangelista, col quale fu chiamato fra i primi discepoli da Gesù e fu sollecito a seguirlo. Gesù disse di lui che avrebbe «bevuto con lui il calice del sacrificio», cosa che in effetti si realizzò, quando Giacomo fu fatto decapitare da Erode Agrippa I.

Oggi la chiesa ricorda anche un altro grande testimone del vangelo: il giovane Lorenzo, diacono della chiesa romana. Era l’anno 258. A Roma il potere stava saldamente nelle mani dell’imperatore Valeriano che scatenò una delle ricorrenti e terribili persecuzioni nei confronti dei cristiani. Papa Sisto II subì il martirio con quattro diaconi il 6 di agosto, mentre si trovava nella zona del cimitero. Lorenzo era per l’appunto un altro dei diaconi di Papa Sisto II ma non fu ucciso subito, il 6 di agosto, insieme al Papa. Molto probabilmente, amministrando lui i beni della chiesa a favore dei poveri, le autorità romane pensarono di tenerlo in vita finché non avesse consegnato i beni della chiesa. Quando poi videro che Lorenzo non cedeva perché i beni della chiesa erano dei poveri e ai poveri erano stati tutti distribuiti, uccisero anche lui, il 10 agosto…. E la tradizione popolare dice che in quella notte cadono le stelle per ricordare le gocce di sangue che sprizzarono dal suo martirio o anche le scintille del fuoco della graticola sulla quale sarebbe stato posto.

Allora, carissimi giovani, sull’esempio dell’apostolo Giacomo e del giovane Lorenzo, sollecitati dal successore di San Pietro, il Papa Francesco, continuiamo a camminare. Questo il proposito, questo l’impegno. Il cammino è segno della vita, di quel cammino che ognuno è chiamato a compiere attraverso il tempo. Camminare esprime il desiderio e la voglia di realizzare qualcosa che valga per davvero, di dare un senso pieno alla propria esistenza. Il cammino della vita, lo sappiamo, spesso è pieno di incertezze, di cadute, di ripensamenti; spesso ci si ferisce e si rimane ammaccati. A volte è fatto di amarezze, di speranze deluse, di solitudini e tormenti. Non sempre è facile e a volte verrebbe anche la tentazione di fermarsi, stanchi e sconfortati. Ma no. Voi, in questi giorni, con il vostro camminare pronunziate una parola di speranza: state dicendo che la vita va vissuta, che la vita è comunque bella; che non ci si può arrendere nel pianto, ma ci si deve rialzare e riprovare sempre. Perché non c’è sconfitta che ci possa abbattere definitivamente; non c’è contrarietà o difficoltà che ci possa o ci debba fermare. La memoria di San Jacopo, oggi di San Lorenzo, ci fa capire che agli occhi di Dio non conta il successo delle nostre imprese e che non ci si deve impressionare se a volte può sembrare tutto inutile e l’impegno non portare frutto perché gli ostacoli sono troppo grandi e numerosi. Il martire, come Giacomo, come Lorenzo, all’apparenza furono degli sconfitti – chi è più sconfitto infatti di colui al quale è tolta la vita? – In realtà è proprio il testimone di Gesù che vince, e lascia una profonda traccia di bene nel mondo. Perché, come ci ha detto il vangelo “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.”

Ancora un’ultima cosa vorrei cogliere dalla figura di San Lorenzo: il suo amore per i poveri, la sua dedizione alle necessità dei bisognosi. La prima lettura di questa S. Messa tratta da San Paolo ai Corinzi ha sottolineato proprio questo aspetto fondamentale di San Lorenzo. San Paolo ci ha invitato ad essere generosi; a donare con gioia a chi è nel bisogno, perché Dio ama chi dona con gioia. Anche la figura di San Jacopo è da secoli legata al sorgere di luoghi di accoglienza, ospitalità, veri e propri ospedali.

E allora carissimi amici, continuiamo a camminare dietro al Signore, sulle orme dei santi, imparando a servire e ad amare come Lui. Pur nella nostra piccolezza, sentiamoci strumenti nelle mani di Dio per andare incontro alle necessità e i bisogni materiali e spirituali degli altri. Non ci è permesso voltarci dall’altra parte! Non ci è permesso farci prendere da quella che Papa Francesco ha più volte stigmatizzato, come la globalizzazione dell’indifferenza. Le persone che attendono, che hanno bisogno di una mano amica e fraterna, addirittura in certi casi solo per sopravvivere, sono molte. Qui da noi e nel mondo. Dovunque ci sono mani tese a cercare un conforto, un sostegno, la restituzione di una dignità, la liberazione dal male e dal maligno; protese a cercare giustizia e pace; a cercare vita; a cercare Dio, perché, come ha detto Gesù, “non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Cosa può fare ognuno di noi? Non lo so. Ognuno se lo deve chiedere nel fondo della propria coscienza. Ognuno di noi può e deve fare qualcosa. Siate dunque disponibili e pronti.

E allora, oggi pomeriggio, quando passerete davanti a quel frammento del corpo di San Jacopo, qui venerato da secoli, vi invito a chiedere a questo nostro fratello maggiore, tre semplici ma grandi cose: una fede forte, coraggiosa e gioiosa, da veri innamorati di Cristo; un cuore aperto e generoso che vede, sente e opera per il bene degli altri; infine la saggezza del discernimento, per scoprire quale sia il vostro posto nel mondo secondo la vocazione che Dio vi ha dato.

+ Fausto Tardelli,

Pistoia, 10 agosto 2018

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San Jacopo 2018: l’omelia del vescovo Tardelli

Sulla scia del santo vescovo Atto che di lui ottenne per Pistoia una preziosa reliquia, onoriamo anche quest’anno l’apostolo Giacomo il maggiore, grande testimone del Vangelo, ucciso dal re Erode Agrippa verso l’anno 44 d.C. a Gerusalemme

In questa annuale ricorrenza, credo che la prima cosa che dobbiamo imparare da San Jacopo sia il coraggio e la coerenza della fede. La fede per la quale egli ha dato la vita, è un grande dono che non solo va conservato ma che dobbiamo alimentare ogni giorno e anche chiedere, se ci pare di non averlo. La fede cristiana è la nostra identità, è il fondamento della nostra vita, è tra le basi della nostra civiltà; purtroppo la si può perdere o si può affievolire a causa di compromessi e viltà o di quella che viene definita “secolarizzazione”, tipico fenomeno delle società ricche e opulente. Ma cosa vuol dire “essere cristiani”.

Chi è il cristiano? C’è bisogno di chiedercelo perché in questi tempi di confusione c’è chi dice con estrema leggerezza che essere cristiani, islamici, buddisti o animisti sia la stessa cosa; a volte poi capita anche che ci si professi cristiani e cattolici senza sapere che cosa davvero significhi o senza esserlo nei fatti. Allora è bene ricordare che è cristiano chi crede in Gesù, vero Dio e vero uomo, Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per liberarci dai peccati e aprirci le porte del paradiso. Cristiano è chi confida in Lui e lo riconosce unico salvatore del mondo, via verità e vita e che con Lui spera di entrare nel Regno dei cieli che è la piena comunione con la Trinità santissima. Per questo cerca di vivere già quaggiù, insieme a fratelli e sorelle nella Chiesa, seguendo Gesù e mettendo in pratica i dieci comandamenti che si concentrano nell’amore verso Dio e verso il prossimo chiunque esso sia.

Cristiano è chi perdona le offese ricevute e si sforza di amare anche i nemici; accoglie i pellegrini e i forestieri; da da mangiare agli affamati e da bere agli assetati e si fa incontro con umiltà a chiunque sia nel bisogno. Cristiano è chi partecipa assiduamente all’Eucaristia domenicale, fonte e culmine di tutta la vita cristiana; prega e fa penitenza per i propri peccati, si nutre della parola di Dio e lavora instancabilmente per il Regno. Il cristiano vive in Cristo, per Cristo e con Cristo, sotto la guida dello Spirito Santo, nella grazia di Dio. Cerca di pensare come Cristo, di agire come Lui, di amare come Lui, secondo quello che la bimillenaria trazione della Chiesa propone a credere.

Questa, che ho brevemente descritto, carissimi amici e fratelli, è la fede operosa di un cristiano. Non è la fede professata nell’Islam o la credenza del buddismo o di qualsiasi altra religione. E’ fede cristiana. Nessuno ci costringe ad abbracciarla. Nessuno ci costringe a mantenerla. O è libera o semplicemente non è fede cristiana. Se però la professiamo, non sia esteriormente o di facciata; lo sia invece per convinzione profonda, impegno costante e gioiosa gratitudine.

Il cristiano però è prima di tutto un uomo. Vorrei soffermarmi ancora un attimo su questo fatto non trascurabile. Non vorrei che risultasse strano questo fermarsi a riflettere sull’uomo. No, perché l’apostolo, il testimone di Cristo, il martire è la fioritura dell’umano e l’umano resta il fondamento su cui sorge tutto l’edificio. E in certi momenti della storia, è necessario ricordarsi anche che cosa significhi essere uomini, perché il rischio della barbarie non è superato, anzi è sempre dietro l’angolo. Sia che esso prenda la forma di un mondo nuovo governato dagli algoritmi di una tecnologia che tutto pianifica e pacifica, imbrigliando però la libertà dell’uomo perché considerato l’essere più pericoloso della terra; sia che assuma la forma muscolosa di un nuovo “super uomo”, forte e prepotente che afferma la sua superiorità sugli “altri”, “sub umani” senza diritti e dignità e che considera la pietà, la giustizia e la solidarietà ridicole debolezze.

Occorre dunque ricordarci di essere uomini. Chi è però un uomo? Non è facile rispondere. Eppure bisogna farlo. Unità di corpo e anima spirituale, caratterizzato da complementarietà sessuale, l’uomo è un animale pensante e parlante e quindi relazionale, libero e cosciente si sé, a meno che qualcosa non lo condizioni in modo determinante. Che cerca la felicità e cioè il bene, il vero e il bello. Per il credente è creatura a immagine e somiglianza di Dio. La sua natura personale non è lui a darsela e a inventarsela; la può solo riconoscere e semmai svilupparla in sé e negli altri come una inalienabile dignità che unisce tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro condizione di vita, il colore della pelle, la storia o le idee personali. Egli ha una natura sociale, per cui si definisce a partire dall’altro, non viceversa. Per questo, nell’accoglienza dell’altro fatta di attenzione, rispetto e amore, sta il compimento della sua vita che egli spera vittoriosa sopra la morte. Un tale uomo sa anche di essere estremamente fragile e di sbagliare ogni giorno. E’ dunque umile e desideroso di imparare e di migliorare se stesso con il necessario aiuto degli altri.

Come potete vedere anche da questa mia breve descrizione, carissimi amici, essere persone umane e mantenersi tali non è affatto sempre facile. Come essere per davvero cristiani. Però è necessario e pertanto occorre vigilare.

E’ tempo, il nostro, in cui io credo occorra vigilare. Sulle nostre idee e sulle nostre parole; su ciò che ci viene comunicato e a nostra volta comunichiamo. Su ciò che facciamo ogni giorno; sulle nostre piccole o grandi scelte quotidiane. Occorre vigilare, prima che accada il peggio! Perché la rabbia non vinca sulla pazienza, la paura sul coraggio, l’insulto e l’arroganza sul rispetto, la violenza sull’amore. Occorre vigilare, perché la menzogna non vinca sulla verità; gli istinti sulla ragione, la furbizia e la corruzione sull’onestà, il relativismo sul bene oggettivo…

Vigiliamo, si, vigiliamo almeno un po’. Ne basterebbe anche solo un po’ di vigilanza, ma ci vuole, perché senza son sempre successe nella storia le peggio cose.

Che il grande apostolo San Jacopo nostro patrono, allora vegli per davvero su di noi e sulla nostra città e ci aiuti ad essere vigilanti, per mantenerci sempre orgogliosamente umani e per essere autenticamente e gioiosamente cristiani.

+ Fausto Tardelli, vescovo




San Jacopo 2018: il messaggio del vescovo alla città di Pistoia

«Sulla scia del santo vescovo Atto che ne ottenne per Pistoia una preziosa reliquia, onoriamo anche quest’anno l’apostolo Giacomo, grande testimone del Vangelo. San Jacopo, detto il maggiore, fu il primo degli apostoli a versare il suo sangue per Cristo. Morì a Gerusalemme per mano del re Erode Agrippa verso l’anno 44 d.C. I suoi resti mortali si conservano in Spagna a Santiago de Compostela. Dal 1145, ogni 25 di luglio, la città di Pistoia è in festa per lui.

Nell’occasione di questa annuale ricorrenza, intendo rivolgere un breve messaggio alla diocesi e alla città per dire tre semplici cose.

La prima è che dobbiamo imparare da San Jacopo il coraggio e la coerenza della fede. La fede nel Signore Gesù, morto e risorto per la quale egli ha dato la vita, è un grande dono che non solo va conservato ma che dobbiamo alimentare ogni giorno. La fede cristiana è la nostra identità, è il fondamento della nostra vita; purtroppo la si può perdere o si può affievolire a causa di compromessi e viltà. Non è un generico “credere in qualcosa” senza rapporto con la vita. È invece confidare in Gesù Cristo, riconosciuto come Figlio di Dio e unico salvatore del mondo. È affidarsi a Lui nel grembo della Chiesa, cercando di seguirne le orme, con tutte le esigenze che questo comporta sul piano delle convinzioni personali, delle scelte di vita, come dei comportamenti morali. La nostra fede cristiana deve essere forte, consapevole e gioiosa, incarnata nella vita, umilmente capace di confrontarsi con altre visioni del mondo o religioni e di approfondirsi attraverso questo dialogo.

La seconda cosa la dico in riferimento alla tradizione jacobea legata strettamente al pellegrinaggio e all’accoglienza dei pellegrini. Una cosa antica per la chiesa, che da sempre ha visto nell’ “alloggiare i pellegrini” un’importante opera di misericordia, perché nel forestiero e nel pellegrino c’è Cristo stesso. Dagli “xenodochia” dei primi secoli – ospizi che sotto l’autorità del vescovo erano allestiti lungo le grandi arterie di comunicazione – agli Hospitia e Hospitalia che soprattutto a partire dal IX secolo si edificarono lungo le vie di pellegrinaggio dedicandoli a San Jacopo, tutto ci dice che l’accoglienza di chi è nel bisogno e viaggia per mare o per terra in cerca di vita, appartiene alla nostra tradizione cristiana e alla nostra civiltà. I rischi, che pure non vanno sottovalutati, e la ragionevole necessità di affrontare i problemi eliminandone le cause, non ci possono mai, dico mai, spingere alla chiusura dei cuori, alla frapposizione di barriere, al rifiuto dell’altro. Guai a noi! Tutti i legittimi distinguo, non possono condurci a reazioni irresponsabili e sguaiate, nutrite di slogan a volte crudeli che riempiono la bocca ma non risolvono niente, anzi, aggravano di molto la situazione.

La terza cosa mi sento di dirla alla città di Pistoia e all’intera comunità civile. La memoria dell’apostolo Jacopo e dei santi fioriti nei secoli tra noi, come pure le bellezze di cultura e d’arte cristiana che rendono davvero speciale la nostra terra, dovrebbero spingere tutti, anche chi non si sente di condividere l’esperienza cristiana o ha da ridire sulla chiesa, a riconoscere che la fede non è nemica dell’uomo, non è contraria alla sua felicità, non è una superstizione che aliena dalla storia. Essa è invece linfa vitale che ispira e feconda; forza di rinascita e di rinnovamento; sorgente di speranza e fonte di servizio disinteressato agli ultimi; non chiusura nei confronti di altre prospettive culturali o religiose, bensì apertura e dialogo, sostenuto dalla profonda convinzione che ogni uomo è perdutamente amato da Dio. La fede fa parte delle nostre radici, senza le quali le nostre città non sarebbero le stesse.  È un dato di fatto, non un attentato alla laicità della società! Le nostre radici cristiane non sono un ostacolo, bensì una risorsa di energia che ci permette di migliorare il mondo e di affrontare con sapienza le sfide del futuro.

Concludo invocando per intercessione dell’apostolo Jacopo, la benedizione di Dio sull’intera nostra città e sulla diocesi, perché tutti noi che qui viviamo, da qualsiasi parte del mondo si provenga e qualunque sia il colore della nostra pelle, possiamo sperimentare la gioia di incontrare sul nostro cammino degli amici veri e sinceri».

+Fausto  Tardelli




GLI AUGURI DI PASQUA DEL VESCOVO: “LA FEDE È INCREDIBILE”




Lettera al Clero diocesano: La grazia e la responsabilità di essere preti oggi a Pistoia

LA GRAZIA E LA RESPONSABILITÀ DI ESSERE PRETI OGGI A PISTOIA

8 DICEMBRE 2017

Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria

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La nostra chiesa è in festa: nella solennità dell’Immacolata Concezione, verrà infatti ordinato un nuovo presbitero, don Gianni Gasperini, e Dio sa quanto abbiamo bisogno di preti e di preti santi, dediti anima e corpo al ministero apostolico e profondamente innamorati di Cristo. Ci stringiamo pertanto attorno a don Gianni; preghiamo per lui e con lui diamo lode al Signore.

Quella dell’otto dicembre è una grande gioia per tutta la chiesa pistoiese; una gioia che si unisce a quella che scaturisce dalla contemplazione dello splendore della Vergine Maria, la tutta santa, la piena di grazia. Proprio in quel giorno inoltre, si compiono tre anni dal mio arrivo a Pistoia ed è per me motivo di sincera gratitudine al Signore. Colgo allora la bella occasione che ci si presenta, per consegnare alla diocesi una breve nota sulla vita e le responsabilità del prete, perchè da parte di tutto il popolo cristiano si apprezzi sempre di più il dono del sacerdozio ministeriale e perché gli stessi presbiteri possano corrispondere al meglio al dono ricevuto.

In quanto chiamati da Cristo alla sua sequela come “pescatori di uomini”, i presbiteri hanno il compito fondamentale di aiutare le persone ad incontrare Gesù Cristo Salvatore, ad aprire il cuore a Lui per lasciarsi trasformare dallo Spirito, così da essere veri figli del Padre, ripieni di amore anche verso i nemici e quindi partecipi della vita eterna. Come dice il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium al n.28, “Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l’ufficio di Cristo, pastore e capo, i presbiteri raccolgono la famiglia di Dio quale insieme di fratelli animati da un solo spirito; per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24)”. Tale ministero si compie stando tra il popolo, in missione sulle strade del mondo, annunciando in parole e opere Gesù morto e risorto, via, verità e vita; amministrando i sacramenti dell’incontro con Cristo, particolarmente perdonando i peccati e donando il Pane della Vita, affinchè i poveri, gli ultimi, i peccatori ritrovino dignità, speranza e salvezza. Si compie inoltre visitando gli infermi, soccorrendo chi è nel bisogno e guidando i singoli e le comunità verso la pienezza della vita del mondo che verrà.

I presbiteri non sono degli operatori sociali, bensì uomini di Dio altissimo che in Gesù Cristo ha dato possibilità di vita nuova ai peccatori e ha aperto all’umanità le porte del cielo. Essi hanno una missione eminentemente spirituale ma non per questo disancorata dalla realtà; piuttosto concentrata su quello che è il senso stesso della vita, il suo fine, la sua meta: Dio in Cristo. Se si interessano di problemi sociali è perchè gli uomini e le donne possano svincolarsi da condizionamenti indegni della persona umana e ognuno sia libero di abbracciare Cristo e pregustare la bellezza della vita eterna.

I presbiteri sono educatori nel popolo di Dio: educatori alla vita nuova in Cristo, che è vita di lode al Padre, di amore verso di Lui e verso il prossimo; educatori che risvegliano nei laici la consapevolezza della vocazione battesimale che li fa partecipi a pieno titolo della vita e della missione della chiesa. A immagine del Buon pastore, sono chiamati a  donare se stessi per il Regno di Dio; ad accogliere e perdonare; ad annunciare la misericordia del Padre e la necessità della conversione; a predicare e insegnare le verità che sono via al cielo, correggendo e sostenendo, consolando e ammonendo, difendendo la vita e la dignità di ogni uomo, sempre però con la viva consapevolezza di aver bisogno per primi della misericordia di Dio, perché coscienti di non essere migliori degli altri.

Per questo debbono continuamente verificare con scrupolo, e la propria fedeltà alla Parola di Dio così com’è interpretata dal Magistero, e il rispetto nei confronti della sacra liturgia, e l’osservanza della disciplina ecclesiale. Occorre che vigilino inoltre sulla propria condotta morale e sul celibato vissuto per il Regno, mantenendosi liberi anche da ogni pur minimo attaccamento al denaro e ai beni terreni. Si interroghino ancora sulla propria dedizione alle persone, in specie le più bisognose; sulla disponibilità ad accompagnarle come fa il buon pastore che si carica sulle spalle la pecora smarrita o dolorante; infine sulla prontezza alla collaborazione con gli altri presbiteri, oggi tanto necessaria.

Proprio per la loro responsabilità di educatori, i sacerdoti siano molto attenti nel parlare e nell’agire, in modo da favorire il dialogo e l’incontro, mai lo scontro. Essi sono uomini di comunione e per loro nessuno è nemico, pur se qualcuno può arrivare a considerarli nemici. Anche quando la loro voce si alza per proclamare la giustizia e la verità, lo facciano nei modi che l’ora presente richiede. Oggi infatti siamo seduti su di una polveriera, per cui occorre imparare a misurare i gesti e le parole, perché non accada esattamente il contrario di ciò che vorremmo: che scoppi la guerra, dove invece si vuole la pace. Gli animi sono surriscaldati; in giro c’è rabbia e malcontento; ci si muove spinti più dalla “pancia” che dalla ragione; più dalle sensazioni che dall’obiettività. La denuncia profetica perciò oggi si fa principalmente nel silenzio tenace dell’operosità; nella discrezione dell’azione quotidiana; nella ricerca di un confronto che risolva nel dialogo interpersonale gli inevitabili conflitti; gettando dentro la vita di tutti i giorni, umili semi di speranza. A mio parere, questo è lo stile di azione del presbitero nel tempo presente.

A tre anni ormai dalla mia venuta a Pistoia, posso dire con cognizione di causa che il presbiterio della nostra diocesi è in buona sostanza un grande dono. Ci sono purtroppo qua e là inadempienze e inadeguatezze; non possiamo certo nascondercelo. A volte si riscontra un esercizio ripetitivo e stanco del ministero, oppure comportamenti, abitudini e impostazioni pastorali che non sono del tutto in linea con quanto la Chiesa e il vescovo chiedono. Ogni tanto si affaccia qualche rivalità o invidia. Si fa poi fatica ad accettare una certa mobilità nel servizio parrocchiale, cosa che sarebbe di per sé normale, specie in questa stagione ecclesiale accentuatamente missionaria. Non mancano incomprensioni all’interno di qualche parrocchia e tensioni un po’ troppo aspre che il sacerdote dovrebbe cercare assolutamente di non fomentare, fosse anche solo involontariamente. Altrimenti si produrrebbe un’odiosa divisione nella comunità tra chi sta dalla parte del parroco e chi gli è contrario, finendo per dar luogo a un “nomadismo” da una parrocchia all’altra che non è per niente positivo. Bisognerebbe infatti che ogni fedele riuscisse ad accettare con fiducia il sacerdote che ha, senza andare dal prete che più gli piace; ricercando piuttosto con vero senso di responsabilità, le vie del dialogo, della comprensione reciproca e, se necessario, della correzione fraterna; cosa che del resto il presbitero dovrebbe accogliere con grande apertura di cuore. Qui evidentemente è in gioco anche il mio compito di pastore e padre, di amico e guida, di fratello e compagno di strada. Pur avvertendo la mia debolezza e fragilità e avendo ben chiare davanti agli occhi le mie inadempienze e incapacità, sento la responsabilità di esercitare quella che voglio chiamo una “amorevole vigilanza”. Mi spingono ad essa sia il rispetto dovuto al popolo santo di Dio, che ha diritto di trovare nei preti ciò di cui ha bisogno per crescere nella “statura di Cristo”, sia l’affetto sincero che nutro verso ogni singolo presbitero di questa diocesi.

Se dunque cose da migliorare ce ne siano, ciononostante la nostra diocesi, come dicevo, ha sostanzialmente un buon presbiterio, dedito con entusiasmo e passione alla missione apostolica. La cura pastorale del popolo di Dio non è certo trascurata. Ciò è ancor più degno di nota se si tien conto che di questi tempi ogni presbitero porta un carico non indifferente di preoccupazioni, di fatica e talvolta anche di amarezze. Capita infatti che di tanto in tanto debba sopportare pazientemente critiche ingiuste e ingenerose. In qualche caso gli accade persino di essere vittima di maldicenze se non di calunnie. Un prete che si sforzi di compiere con fedeltà la sua missione, oggi si trova sempre in movimento, direi “consumato” dalle persone, dalle situazioni complicate che deve affrontare, forse anche da tante incombenze di cui farebbe volentieri a meno e che bisognerebbe effettivamente trovassero una diversa soluzione.
Mi sento perciò di dire sinceramente grazie ai presbiteri di questa Chiesa e credo dovrebbero farlo pure ogni comunità e ogni cristiano. Se segnalo dei limiti, è perché ritengo che la vita e l’operato dei presbiteri possa migliorare ancora e che in ogni caso ci sia bisogno di un “colpo d’ala”: per far meglio ed essere in tutto e per tutto dei veri “pescatori di uomini”, se non altro con più gioia, fantasia e abbandono fiducioso nelle braccia del Padre. Per questo, chiedo a tutta intera la comunità diocesana di non smettere di pregare per la santificazione di noi sacerdoti.

Termino ritornando ad assaporare la gioia che il Signore ci dona l’otto dicembre e invitando tutti ad aprire il cuore alla gratitudine. Affido a Maria Santissima la vita di don Gianni perchè sia sacerdote secondo il pensiero, il cuore e la carne di Dio. Affido alla Madonna i presbiteri della nostra chiesa, me compreso, perchè siamo un cuor solo e un’anima sola, contenti della chiamata che il Signore ci ha rivolto.

Affido inoltre a Maria il piccolo gruppo dei nostri seminaristi affinchè si preparino bene al ministero sacerdotale, verificando con attenzione la propria vocazione. Che Maria infine benedica tutto intero il popolo di Dio che è la santa Chiesa pistoiese ma anche un po’ fiorentina e pratese: cresca ogni giorno di più nella gioia del vangelo.

Pistoia 3 dicembre 2017,
prima domenica di Avvento
+ Fausto Tardelli