I giovani, un futuro sostenibile, la dignità del lavoro e dell’uomo

Una tavola rotonda con Letta, Giovannini e mons. Santoro, vescovo di Taranto ha chiuso “i linguaggi del divino”.

Nella splendida cornice della Chiesa di S. Francesco, Lunedì 22 Ottobre, si è svolto l’ultimo evento della Rassegna 2018: una tavola rotonda su interessanti temi di attualità quali. L’impegno civile e politico e quello dell’economia e del lavoro, che -possiamo con soddisfazione affermare- ha riscosso una notevole partecipazione da parte di numerosissime persone.
La tavola rotonda, moderata dal giornalista Marco Damilano, direttore dell’Espresso, ha visto come protagonisti relatori di grande livello: mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, delegato dalla Conferenza Episcopale Italiana per i problemi sociali e del Lavoro, Enrico Letta, economista ed ex premier, Enrico Giovannini, economista ex presidente dell’Istat, fondatore dell’ASVIS (Agenzia per lo sviluppo sostenibile).

Il titolo scelto per l’incontro «Fa’ che non manchi mai il pane e il lavoro- L’impegno per un mondo più giusto» ha dato subito il senso dell’iniziativa stessa, iniziativa che ha trovato il suo fondamento nelle numerose indicazioni da parte del Magistero della Chiesa. In particolare abbiamo tenuto presente la 48° Settimana Sociale dei cattolici italiani tenutasi un anno fa a Cagliari.
La settimana sociale di Cagliari non è stato un convegno astratto, nè un punto di arrivo, ma un punto di partenza per la mobilitazione del “popolo cattolico”, chiamato ad operare una profonda “conversione culturale” allo scopo di trovare risposte ai bisogni urgenti della gente. In quella sede fu proprio lo stesso mons. Santoro a lanciare un forte appello, invitando i cattolici a riprendere la loro “leadership” nel «dibattito pubblico, sociale e politico» facendo leva sul potenziale costituito da tantissime competenze ed esperienze presenti nella comunità ecclesiale italiana e che vanno messe a servizio del “bene comune” e dell’interesse generale, in primis sulla “questione lavoro”. «I problemi economici – afferma il vescovo di Taranto – non sono una nicchia, ma costituiscono l’asse portante della nostra società che, come tale, non può essere lasciato in mano all’attuale modello di sviluppo, non può vedere assenti o insignificanti i cattolici: lavoro, famiglia, scuola, salute, ambiente, migranti, gli ambiti in cui la rilevanza pubblica dei cattolici deve svilupparsi, senza dimenticare mai l’opzione preferenziale per i poveri e l’attività caritativa».

La realizzazione di questo evento, voluto dalla diocesi di Pistoia all’interno de “I linguaggi del divino” è stata indubbiamente una importante occasione per conoscere meglio, avere una lettura più illuminata scaturita dal confronto con esperti qualificati. I temi trattati riferiti ai cambiamenti del mondo del lavoro, alla necessità di rimettere al centro del dibattito politico i temi dell’economia reale e del lavoro, nonché sull’impegno dei cattolici in politica, sono stati di evidente interesse, coinvolgenti e stimolanti in quanto riguardano la vita di tutti noi, il futuro delle nostre comunità.

Enrico Letta nel suo intervento ha messo costantemente l’accento sui giovani, offrendoci peraltro una “lettura” nettamente positiva e piena di speranza per il futuro. «In questi giovani, nei miei studenti ritrovo ogni giorno – ha affermato l’ex premier – quella stessa capacità di innovazione e creatività che hanno costituito il motore dello sviluppo del nostro paese. Se li guardo vedo soltanto un grande futuro per l’Italia e per l’Europa – e noi abbiamo la responsabilità di garantire loro una formazione di alto livello per affrontare al meglio le sfide del prossimo futuro».

Enrico Giovannini – portavoce Asvis (Agenzia per lo sviluppo sostenibile ) – associazione nata due anni e mezzo fa per diffondere la cultura della sostenibilità e la conoscenza dell’Agenda 2030 – ha messo in evidenza che, per quanto in alcuni ambiti si registrino dei passi avanti, se non si interviene con interventi coordinati e con azioni immediate e consistenti, sarà impossibile rispettare gli impegni presi dal nostro Paese. «Ciò che manca – ha spiegato Giovannini – è una visione coordinata delle politiche per costruire un futuro dell’Italia equo e sostenibile. Il confronto tra le forze politiche nelle ultime elezioni non si è svolto intorno a programmi chiari e con un orientamento in tal senso. Come Asvis – ha continuato – stiamo proponendo al governo almeno due misure urgenti e a costo zero: introdurre lo sviluppo sostenibile tra i principi fondamentali della nostra Costituzione e trasformare il Cipe in Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile. «Senza un’attenzione all’ambiente che ci ospita – ha ricordato – non potrà esistere un futuro di prosperità per nessuno».

«Dobbiamo riscoprire un rapporto diverso con il lavoro e con i lavoratori – ha affermato mons. Filippo Santoro – rimettendo al centro la persona e la sua dignità, addirittura prima di qualsiasi altra istanza, sia essa economica o tutela dei diritti». Il vescovo ha ricordato le parole pronunciate da Paolo VI nel corso della messa della notte di Natale del 1968, celebrata all’allora Italsider di Taranto: «Montini affermò che la Chiesa non condivide le passioni classiste, quando queste esplodono in sentimenti di odio e in gesti di violenza; ma la Chiesa riconosce, sì, il bisogno di giustizia del popolo onesto, e lo difende, come può, e lo promuove. E aggiunse: “non di solo pane vive l’uomo, dice la Chiesa ripetendo le parole di Cristo; non di sola giustizia economica, di salario, di qualche benessere materiale, ha bisogno il lavoratore, ma di giustizia civile e sociale”».

Selma Ferrali – Ufficio Pastorale Sociale e Lavoro

(foto di Mariangela  Montanari)




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «sentire/voce»

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Arianna Candelli (20 anni), giovane studente di archeologia propone la sua riflessione su: «sentire/voce».

Sottile Voce di silenzio

Spesso si fa del suono svago, sollievo e passatempo. Con i pensieri dialogano la solitudine del cuore e la pace perduta che si fanno vive sulle labbra. Il nudo silenzio della propria essenza copriamo pudici col manto sfarzoso dell’eloquenza. Profonde incomprese verità si proferiscono in ogni dove e solide fortezze si innalzano maestose su friabile terreno. Come faremo, quindi, così vestiti ed arroccati nei nostri baluardi a sentire l’umile autentica Voce del vento farsi strada tra le fessure degli infissi e giungere a noi?

La sensibilità di cui siamo dotati per sentire non è semplice da affinare, e la parola, per mezzo della quale la Voce parla, è un’entità di per sé fragile. Non stupisce che Dio, infinito ed eterno difensore dei deboli, abbia scelto proprio questa piccola indifesa per rivelarvisi, penetrando in una realtà così delicata, in un mondo che pullula di voci e di rumori.

Nel capitolo 11 della Genesi i versetti 1-9 sono dedicati all’emblematico episodio della Torre di Babele e leggendone l’inizio troviamo scritto che, prima della dispersione degli uomini, tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Su quale fosse la lingua primigenia dell’umanità molti si interrogarono a lungo. Fra’ Salimbene de Adam da Parma, francescano del XIII secolo, nella sua Cronica ci racconta, a proposito di questo fatto, che l’Imperatore Federico II di Svevia, nel tentativo di venire a capo proprio di quel quesito, avrebbe fatto crescere alcuni bambini ordinando di non rivolger loro alcuna parola o vezzo. Non parlando con nessuno, purtroppo, questi piccoli morirono presto. Commenta Salimbene che i neonati «non potrebbero vivere senza quel batter le mani e senza quegli altri gesti, senza l’espressione sorridente dei volti e senza le carezze delle loro balie e nutrici». Esiste dunque un idioma primordiale? Sì. Si tratta di un linguaggio custodito nell’anima di ciascuno di noi che ci permette di sentire: quello dell’Amore, della tenerezza della madre per il figlio, di Dio per l’uomo. È la Sua Voce che siamo chiamati ad ascoltare, quella di Colui che nel donarci più di Se Stesso tutto ci dona. Ed ecco che l’esile parola, nel Suo Amore, si fa potente, energica, splendente di luce, codice e fonte di cultura e di speranza.

Accade, tuttavia, che talvolta in momenti di frenesia, debolezza, difficoltà e turbamento, i sensi dell’uomo siano annebbiati e non riescano più a ricordarsi come sentire. Espandiamo nell’etere il nostro io e nella dimensione della preghiera, spesso superbamente, pretendiamo di trovare facili risposte di conforto ai problemi presenti, ma Dio non ascolta le nostre parole se non quando è Lui stesso a plasmarle dalla nostra bocca. Conosce infatti ogni bisogno ancor prima che sia manifesto e nulla ottiene da Lui chi prega per il solo avere. L’uomo che non ha responsi immediati si sente abbandonato, escluso in questa circostanza di offuscamento, incapace di percepire la Voce del Signore che sussurra al cuore tenendoci per mano. Lì si è subito posto vicino ad ognuno, e sempre lì sarà ad accompagnarci nei mondi della vita terrena e celeste. Ci domandiamo dove Lui sia e dove ricercare la sua Voce quando non l’udiamo più. Forse ascoltando i flutti ondosi del mare, lo scroscio d’una cascata impetuosa, il crepitio d’una pioggia autunnale, lo scricchiolìo nei ghiacci invernali, il cinguettare del risveglio di primavera o il tuono nel cielo plumbeo?

Dio ha creato tutte queste meraviglie per i nostri sensi, ma la Sua Voce è spesso silenziosa e più difficile da percepire di ogni altra cosa. Per questo, come figli dell’Amore del Nostro Signore, immersi oggi più che mai in un tumulto continuo di discorsi, immagini e richiami diretti ed espliciti, dove il tempo e lo spazio per ciò che è invisibile agli occhi sono molto ridotti, dovremmo cercare di educarci ed educare, lasciandoci avvolgere fiduciosi dalla brezza del vento di Dio, a sentire la bellezza autentica del Divino Silenzio fine e leggero ove ogni parola si compendia.
Arianna Candelli

nella foto: Edward Steichen, Moonlight: The Pond (1904)




Chiude il monastero della Visitazione: il dolore e il ringraziamento del vescovo

Solo oggi, 22 ottobre, ricevo la notizia ufficiale da parte di chi ha la responsabilità ultima del monastero della Visitazione in Pistoia, della sua imminente chiusura.

La cosa era nell’aria da tempo, è vero. La Madre federale che aveva assunto qualche mese fa il governo del Monastero per disposizione della Santa Sede, all’inizio del suo mandato era venuta da me a presentarmi la situazione, certamente pesante per l’età avanzata delle monache, il loro esiguo numero, la configurazione stessa del monastero. L’avevo pregata di fare di tutto perché non venisse meno questa esperienza storica di vita contemplativa nella città e nella diocesi di Pistoia. L’ho pregata di cercare una soluzione, facendola accompagnare a visitare ambienti, ville, luoghi in Pistoia e fuori dove poter trasferire le monache e rivitalizzare il monastero con qualche immissione nuova, proveniente da qualche altro monastero. Non c’è stato niente da fare. Non è stato trovato niente di adatto in Pistoia e dopo alcuni falliti tentativi di trasferimento del Monastero in altra diocesi vicina, il Consiglio federale, organo di governo che riunisce le varie superiore monastiche di una regione ecclesiastica, ha deciso di chiedere alla S. Sede la soppressione del Monastero di Pistoia.

Il Vescovo, ogni vescovo, al riguardo della vita dei religiosi e dei monasteri ha un compito di vigilanza ma comunque dei poteri ben limitati, sia rispetto ai superiori legittimi che alla Santa Sede.

Il fatto non può che addolorarci profondamente, perché viene a mancare uno spazio spirituale importante, che l’amorevolezza delle monache aveva coltivato con grande sensibilità, così da essere ristoro per tante anime e ricchezza per la nostra chiesa locale oltre che per l’intera città. La chiusura di case religiose e monasteri è purtroppo all’ordine del giorno in Europa e anche in Italia, causa la scristianizzazione della società, la drastica riduzione delle nascite, il venir meno di vocazioni religiose. La nostra diocesi non sfugge alla crisi, anzi ne è significativamente colpita. Soltanto un paio di anni fa se ne andarono definitivamente i figli di San Francesco; alla fine di agosto di quest’anno andati via i padri domenicani; tra l’altro gli uni e gli altri presenti attivamente a Pistoia da molti secoli. Oggi è la volta delle monache salesiane. E domani? La cosa mi preoccupa non poco. Può mai vivere una diocesi senza la testimonianza della vita consacrata, senza la presenza di uomini o donne che si dedicano totalmente alla preghiera nella contemplazione del mistero di Dio salvatore del mondo? Io penso di no e quindi leggo questi avvenimenti come un severo monito del Signore a tutti noi, perché torniamo con forza ai valori spirituali, rinnoviamo il nostro impegno di vita cristiana, per l’edificazione di comunità cristiane vive e per famiglie autenticamente evangeliche. Solo da questo potranno scaturire quelle vocazioni alla vita consacrata e contemplativa di cui sentiamo oggi acutamente il bisogno.

Voglio qui ringraziare di vero cuore le care monache della Visitazione per la loro presenza e la loro testimonianza. Quelle che ora vengono trasferite in altro monastero e quelle del passato. Io ho potuto conoscere soltanto le ultime, ma già da questo contatto ho capito quanto sia stata ricca e bella la loro vita. Ho ascoltato da molti pistoiesi ciò è stato fatto nel passato e l’importanza del monastero per Pistoia. Invito pertanto tutta la cittadinanza, in primo luogo le autorità cittadine che ci rappresentano, a riconoscere nella gratitudine, anche pubblicamente, il dono prezioso che è stato il monastero delle salesiane, mentre chiedo a tutta la nostra diocesi di pregare insistentemente il buon Dio perché non venga meno nella nostra chiesa particolare, la testimonianza della vita consacrata.

+ Fausto Tardelli, vescovo

23/10/2018




Il vescovo Tardelli interviene sulla vicenda Vicofaro

PISTOIA – “L’altra sera a Vicofaro è successo qualcosa che mi ha amareggiato profondamente. Non ne ero stato certo avvisato; e perché mai avrei dovuto esserlo, del resto? Mi ha amareggiato per tanti motivi, non per uno solo. Qualcosa mi inquieta e non mi piace in ciò che è accaduto. È stato un punto che ha segnato il vertice di una escalation insopportabile. Invece di sciogliersi e trovare una soluzione accettabile, la vicenda di Vicofaro nel tempo è andata sempre più ingigantendosi, complicandosi, esacerbandosi.

Ma – mi dico – non sarebbe meglio spegnere i riflettori su Vicofaro e cercare tutti, come già diceva il grande Papa S. Giovanni XXIII, ciò che  ci unisce, piuttosto ciò che ci divide? In tempi di schieramenti sempre più feroci, questa mia affermazione non andrà a genio a molti. Non importa perché non ho da piacere a nessuno. Sono del tutto convinto che la verità non stia mai tutta solamente da una parte e nessuno la possieda completamente. Ci sono sempre ragioni da una parte e dall’altra.

Solo nell’ascolto reciproco, nell’attenzione all’altro, nel venirsi incontro si trova la soluzione ai problemi. A Pistoia questo è possibile? A volte, sinceramente mi pare proprio di no. Eppure io credo che dobbiamo tutti sforzarci di fare un passo indietro e ragionare, senza farci prendere dall’emotività o, peggio, dai risentimenti.

Chi è credente in Gesù Cristo sa bene che non possiamo accusarci l’un l’altro di essere lontani da Lui, ma solo correggerci fraternamente perché tutti impariamo a seguirlo sempre di più laddove egli ha voluto essere: nella Chiesa, nella sua parola, nei sacramenti, nel volto dei poveri come i migranti che vengono da noi in cerca di futuro per la loro vita.

Vorrei allora che ci domandassimo: ma tutta questa storia, la vicenda di Vicofaro, da quando l’anno scorso iniziò sui social, ci ha portato ad essere migliori? Ha condotto a migliorare questa città? Ha fatto aumentare il numero delle persone solidali e aperte agli altri? Ha fatto crescere in questa città il senso di una fraternità accogliente? Ha permesso una vera integrazione degli ospiti accolti? Onestamente, mi pare proprio di no. È aumentata l’intolleranza; nel quartiere qualcuno è giunto all’esasperazione; nel frattempo le posizioni si sono soltanto radicalizzate e politicizzate, tant’è che sembra di esser tornati al tempo dei Panciatichi e dei Cancellieri. Manca solo che ci si cominci ad accoltellare l’un l’altro. E’ questo che vogliamo? Ci pare che si possa costruire qualcosa di bello in questo modo? Vogliamo arrivare alla guerra? L’unica cosa da fare è “chiamare alle armi”?

Credo piuttosto che dovremmo tutti interrogarci sulle nostre responsabilità e su cosa possiamo fare in positivo perché Vicofaro diventi davvero un luogo di speranza e non di scontro; di unione e di pace e non occasione di divisione e di contrasti, un laboratorio di civiltà e di convivenza e non un terreno di lotta.

Molto può fare don Massimo, sicuramente. Molto dipende da lui. Non voglio dire di più. Credo che se ne stia rendendo sempre più conto. Non è in discussione l’accoglienza. Quelli che la mettono in discussione, lo dico chiaramente, sbagliano di grosso. Vorrei che costoro capissero che l’accoglienza è un valore grande, profondamente umano e cristiano. Vorrei che non si facessero confondere le idee da slogan, luoghi comuni o ben congegnate falsità. L’accoglienza vera però mira all’integrazione. Richiede attenzione alle persone e al luogo dove si realizza; deve riuscire a intavolare un dialogo costruttivo con i nostri ambienti, con tutti i settori della nostra società; deve cercare di superare pregiudizi e paure, facendo crescere la conoscenza e la relazione tra le persone; con pazienza, dolcezza, positività. Deve essere sempre “accompagnata” e mettendo in atto un processo educativo che insegni anche il rispetto per gli usi, le tradizioni, i valori del popolo in cui si è accolti.

Oltre a don Massimo, possono fare qualcosa anche chi sta attorno a lui, aiutandolo a migliorarsi, a porsi nel modo giusto nei confronti della gente del quartiere, delle autorità, della comunità parrocchiale.

Possono fare qualcosa anche i politici. Sì: star fuori da Vicofaro. Lo dico chiaramente. A Vicofaro non si combatte una battaglia tra schieramenti politici; tra chi è a favore del governo e chi è contro. Non può essere l’occasione per condurre lotte partitiche. L’esperienza di Vicofaro è nata dentro una parrocchia quale segno dell’attenzione della chiesa al mondo dei migranti e questo deve rimanere, non può snaturarsi. E questa è anche una mia precisa responsabilità.

Potrebbe fare qualcosa anche il governo. Si, il governo. Nazionale e locale. Alla fine, in ultima istanza, è a chi governa che si può attribuire quanto accaduto l’altra sera. Purtroppo mi pare che se il governo precedente ci ha dato una pessima gestione del fenomeno migratorio, giocata tutta o esclusivamente sull’emergenza, l’attuale si sta muovendo in una linea dura di rigore che non è ragionevole e rischia di offrire obiettivamente spazio a sentimenti razzisti e xenofobi indegni dell’uomo e del nostro paese. Ma i governi, in un paese democratico, li scelgono in buona sostanza i cittadini con il voto; quindi non è lamentandosi che si cambiano le cose ma acquisendo consensi attorno a valori e scelte più confacenti alla dignità umana.

Potrebbero infine fare qualcosa anche i mezzi di comunicazione, se cercassero di abbassare i toni e invitassero alla ragione. Se spegnessero un po’ i riflettori su Vicofaro e non inseguissero o, peggio, creassero la notizia che fa più rumore. Se mettessero invece sempre più in luce le cose positive che sono presenti nel nostro territorio e che ci permettono di sperare in una risoluzione dei problemi e in un futuro migliore di questa città.

Credo che tutti vogliamo che Pistoia sia una città di pace, bella, accogliente, multietnica e al tempo stesso sicura e ben custodita, che cresce e prospera attraverso l’apporto sereno di tutti. E allora, lavoriamo tutti generosamente per questo. Per questo diamoci da fare, insieme.

Mons. Fausto Tardelli – vescovo di Pistoia




Frosini: L’uomo e il suo desiderio di infinito

Sabato 20 ottobre chiude la terza settimana dei “Linguaggi del divino”, nella sala capitolare del convento di San Francesco alle 17.30, l’intervento di mons. Giordano Frosini, presbitero pistoiese, teologo e fondatore delle settimane teologiche pistoiesi, con un intervento intitolato “Desiderio di infinito tra neopaganesimo e “utopia cristiana”.

Quali sono i bisogni e le attese fondamentali dell’uomo di oggi e di sempre? «La domanda – afferma Frosini – chiama in causa il nostro più profondo mondo interiore, la storia dell’intera umanità, la letteratura più incisiva di sempre, specialmente del nostro tempo. In questa atmosfera sta ritornando felicemente una parola che si diffuse nei primi secoli del cristianesimo per opera dei padri della chiesa sia orientali che occidentali: divinizzazione».

Giordano Frosini (1927) è presbitero della diocesi di Pistoia dal 1950.
Dopo gli studi compiuti in seminario, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana e la laurea in teologia presso la Pontificia Università degli studi S. Tommaso d’Aquino.

Nella diocesi di Pistoia è stato rettore del seminario, vicario episcopale e successivamente vicario generale. Ha dato avvio, dagli anni Settanta del Novecento, ad attività di formazione di laici e clero come la Scuola diocesana di teologia, il Centro culturale Jacques Maritain, la Settimana teologica diocesana.

Accanto all’impegno pastorale ha svolto una costante attività di insegnamento e di approfondimento culturale: per circa venticinque anni è stato docente di Teologia sistematica presso lo Studio Teologico Fiorentino, poi Facoltà teologica dell’Italia centrale.

A partire dagli anni Settanta è autore prolificissimo di studi di ricognizione e di divulgazione teologica: una cinquantina di titoli – alcuni tradotti in spagnolo, portoghese, polacco, albanese -, a cui vanno aggiunti gli innumerevoli articoli pubblicati su riviste scientifiche, periodici e giornali fra i quali «Il Regno», «Famiglia Cristiana», «Settimana del clero», e il giornale diocesano di Pistoia «La Vita», di cui è direttore responsabile. Per cinque anni è stato una voce della rubrica «Ascolta si fa sera» su Rai Radio1.

Al primo libro Teologia delle realtà terresti (Marietti 1971) sono seguiti tra gli altri (possiamo qui ricordare solo pochi titoli): La fede e le opere. Le teologie della prassi (San Paolo 1992); Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana (EDB 1994); Una Chiesa possibile (EDB 1995); Chi dite che io sia? Una cristologia per tutti (EDB 1997); Lo Spirito che dà la vita. Una sintesi di pneumatologia (EDB 1998); Incontro al Padre. Una Teo-logia per tutti (EDB 1999); Dio il cosmo l’uomo: exitus-reditus (EDB 2011). Ma la sua penna felice ha ricostruito e presentato anche figure capitali o comunque significative del passato e del presente della Chiesa da Ildegarda di Bingen a Teresa di Lisieux, da John Henry Newman a Pietro Scoppola.

Nel 2008 al suo contributo di studio è stata dedicata la Settimana teologica diocesana: in quella occasione l’allora vescovo di Pistoia Mansueto Bianchi sottolineava la rilevanza del suo impegno al dibattito che aveva segnato la Chiesa dopo il Concilio Vaticano II:

«Le sue grandi ricognizioni tematiche sono sempre impreziosite da sguardi rinnovati, guizzi creativi, proposte di soluzione in linea con le tendenze filosofiche contemporanee. I suoi libri hanno, a tutti gli effetti, una collocazione nella storia della teologia postconciliare».

In verità la sua riflessione si inscrive a pieno titolo nella creatività e vitalità della stagione postconciliare. Già in qualche modo consonante con figure che nel Vaticano II avevano viste realizzate le loro attese ecclesiali – tra gli altri Jacques Maritain, Giuseppe Dossetti, David Maria Turoldo, Giorgio La Pira, figure di riferimento nella sua formazione e cultura -, Giordano Frosini ha fatto poi tesoro della lezione dei teologi che di quell’evento erano stati partecipi personalmente o idealmente: Marie-Dominique Chenu, Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Henri De Lubac, Bernhard Häring, sono nomi citatissimi nei suoi testi che elaborano e divulgano un volto nuovo di cristianesimo e di Chiesa.

Una Chiesa «mistero», «comunione», «missione», nell’ottica della Lumen Gentium; che non esiste per se stessa ma per una evangelizzazione che si traduca in un servizio all’uomo nella sua totalità, in opposizione a qualsiasi forma di schiavitù, spirituale-interiore e sociale-storica. La Chiesa è per Frosini depositaria di una «memoria pericolosa e liberatrice-redentiva dell’umanità […] coscienza critica dell’umanità durante tutto il suo percorso storico, capace di atteggiamento critico grazie al suo cammino escatologico» (Una Chiesa possibile, p. 199).
Una Chiesa pienamente compagna dell’umanità nella sua storia e insieme custode e nutrice del suo «desiderio di infinito», come recita il titolo di un altro suo libro (cfr. Desiderio di infinito. Il cristianesimo e le aspirazioni dell’uomo, EDB, 2001). Un titolo suggestivo, opportunamente ripreso anche nel contributo che gli è stato chiesto per i Linguaggi del divino 2018: «Desiderio di infinito tra neopaganesimo e “utopia cristiana”».

Mariangela Maraviglia




Come “funziona” la Liturgia?

Tu non hai bisogno della nostra lode,
ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie;
i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza,
ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo nostro Signore.
( Messale Romano, Prefazio Comune IV)

Come funziona le liturgia?

È questa la domanda che abbiamo scelto per stimolare la riflessione, in attesa dell’incontro con Goffredo Boselli, Monaco della Comunità di Bose e liturgista.

La riflessione sul dato liturgico è oggi più che mai al centro del dibattito ecclesiale.
Nel tempo frammentato in cui l’uomo della post modernità preferisce il linguaggio segmentato del videoclip a quello articolato, progettuale ed armonico della sinfonia orchestrale, perché i riti?
Che valore hanno? Che concetto vogliono esprimere? Sono ancora vettori di un linguaggio che apre al dialogo tra l’umano e il divino?

Celebrare un rito è davvero celebrare l’Amore che vince la morte? È davvero realizzare ciò che permette all’umano di affacciarsi su ciò che non è mondo, che ci relaziona con l’Altro che non siamo noi, che ci catapulta in un altrove ed in un tempo altro, senza per questo catturare questa esperienza ed incatenarla nell’ideologia? È veramente anticipazione qui ed ora di ciò che sarà la nostra vita nella domenica senza tramonto, quando Dio sarà tutto in tutti?
La liturgia è ancora quell’Opus Dei a cui nulla va preposto, come ricorda San Benedetto, padre dei monaci d’occidente, nella sua Regola (RB n.43 §3)?

Cromazio, vescovo di Aquileia, in una sua omelia ricorda che «sebbene tale ufficio appaia esercitato per mezzo di uomini, l’azione tuttavia è di colui che è l’autore del dono ed è egli stesso a compiere ciò che ha istituito. Noi compiamo il rito, egli concede la grazia» ( sermone XV sulla lavanda dei piedi).

In una chiesa che guarda all’uomo nella sua integralità, che mette la persona al centro riconoscere il giusto posto alla liturgia nella nostra vita di fede è riconoscere innanzitutto che celebrare è lasciarsi fare dal rito stesso, perché nel rito si rinnova l’agire di Dio.
Noi compiamo il rito, egli concede la grazia… nell’agire liturgico esercitato dall’uomo, avviene il dono divino: la grazia ci conduce, attraverso i gesti e le parole, attraverso cose nuove e cose antiche, a realizzare la sinergia tra le opere dell’uomo fragili e limitate e l’opera di Dio, che è eterna.

Vivere il rito liturgico è allora davvero vivere la gratuità dei gesti d’amore fatti solo per Dio, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella narrazione del gesto poetico e innamorato dell’unzione di Betania, per aprirsi alla bellezza del dono, al di là delle categorie e delle logiche mondane perché l’umano si apra al divino e la liturgia sia veramente “ la danza della Chiesa attorno a Cristo” (C. M. Martini).

Alessio Bartolini

L’incontro con Goffredo Boselli avrà luogo giovedì 18 ottobre alle 17.30 presso la sala Conferenze del Convento di San Domenico a Pistoia.

Goffredo Boselli è monaco di Bose. Dottore in teologia a l’Institut Catholique di Parigi, ha conseguito il Master in Storia delle religioni e antropologia religiosa presso l’Université Sorbonne Paris IV. Dal 2000 è responsabile della liturgia del Monastero di Bose e insegna liturgia presso il suo Studium. In qualità di esperto, dal 2003 collabora stabilmente con la Commissione Episcopale per la Liturgia della Conferenza Episcopale Italiana. Il suo volume Il senso spirituale della liturgia (Qiqajon, 2011), edito negli Stati Uniti da Liturgical Press, ha vinto l’Excellence in Publishing Awards 2015 della Association of Catholic Publishers. Presso Edizioni San Paolo ha pubblicato, insieme con Enzo Bianchi, Il Vangelo celebrato (2017).




Il vocabolario originario per “rinascere dall’alto”: «luce»

Abbiamo chiesto ad alcuni giovani di proporre una riflessione sulle parole chiave del dialogo tra Gesù a Nicodemo. Un brano, contenuto nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, in cui è possibile isolare un piccolo “vocabolario” di “spiritualità” da cui è stato preso spunto per le tematiche discusse nell’edizione 2018 de “i Linguaggi del divino – Rinascere dall’alto”.

Alice Peloni (16 anni), giovane studente liceale propone la sua riflessione su: «Luce».

LUCE

Dio disse: «sia luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre.
Fu tutto così semplice. Così naturale. Con l’impercettibilità di un battito di ali di farfalla, Dio si era circondato di luce e l’aveva separata dal buio. Non si era neanche chiesto perché: la luce era cosa buona, e dunque fu. Si sarebbe alternata alle tenebre, tra giorno e notte, tra sole e luna, aldilà dello spazio e del tempo. Sarebbe esistita nell’infinità dei secoli. Per sempre.

A volte vorrei trovarmi di fronte a Dio. Piazzarmi davanti a lui e, con le mani sui fianchi, guardarlo e dirgli che non è vero. Che la luce non esiste per tutti. Che per quei padri di famiglia ritrovati impiccati dopo essere stati licenziati, con il volto cianotico e le lacrime ai lati degli occhi, per quelle persone che ogni giorno maledicono di essere nati e vivono nel dolore, per quel giudice che decise di staccare la spina per la ventilazione artificiale a Charlie Gard (il piccolo affetto dalla sindrome di deplezione del DNA mitocondriale), convinto che fosse in condizioni troppo gravi per aver diritto di vivere, non c’era luce. È esistito solo buio, una selva infinita di oscurità in cui perdersi senza trovare via di uscita. La luce non nasce dal nulla, né in un giorno. Ci vuole grande forza di volontà per accoglierla nella propria vita. È molto più facile rimanere seduti, al buio. Lasciare che il nero ricopra tutto e ci circondi di dolore e sofferenza. Non c’è condizione più confortevole del dolore. Basta lasciarsi sommergere e abbandonarsi, mentre la vita si allontana. La luce, invece, non è come il buio: non è disposta a entrare negli occhi di chi non fa nulla per accoglierla.

In verità, non vi è luce, finchè non si sceglie di vederla. Dipende tutto da quanto siamo disposti a cambiare, ad andare avanti, a non lasciare che le difficoltà della vita gettino un velo di ombra sulla nostra esistenza. Bisogna rialzarsi, asciugarsi le lacrime e andare avanti. E coloro che, lasciandosi sprofondare nel dolore, invidiano chi porta il sorriso sulle labbra, non sanno quanto ha dovuto lottare per conquistarselo. Sono questi i piccoli guerrieri di tutti i giorni, che, con i calli sulle mani, lottano per non lasciare che le tenebre eclissino la luce. Perché la vita è un dono di Dio, e non merita di essere avvolta dal buio.

Alice Peloni

Miriam Attucci (24 anni), giovane capo scout Agesci, propone la sua riflessione su: «Luce».

Luce …

Che cos’è la luce? Luce è tutto ciò che ti permette di “vedere”, è ciò che ti permette di aprire il cuore.
Ma lo devi volere. Come dice la canzone S.U.N.S.H.I.N.E. : «luce, tu curi i mali di chi lo vuole, ti arrampichi all’orizzonte, fai scavalcare il sole».
Essa non può esserti di aiuto in nessun modo se i tuoi occhi sono chiusi. Scegliamo le tenebre, perché, anche se fa male, è più facile. Aprire gli occhi fa paura, ma una paura bestia, una paura che ti fa restare nel tuo angolino al buio. Che è comodo e doloroso, come un divano di aghi.

Ma poi -accade- si accende una luce in te e per la prima volta, ti guardi e ti osservi dentro. Prendi coscienza di ciò che sei e ti rendi conto, che fino ad ora, hai avuto paura della “tua” luce e non di quella che sta fuori dalle tue palpebre. La fiammella che si è accesa ha bisogno di ossigeno, aria, deve respirare, …vuoi respirare!

Quindi, scegli: non c’è più timore, apri gli occhi ed è uno spettacolo abbagliante il mondo che ora sei pronto a conoscere. Tutto è luminoso come te, ora che comprendi con tenerezza ed accetti anche i mostri che prima si muovevano nel buio. Nel tuo buio.

La luce ti guiderà se glielo permetterai, se ti fiderai, se ti affiderai. Siamo tutti un po’ strani, singolari, ma che dolcezza in tutto questo, con la comprensione il male scompare, con la luce il buio va via … ma quante sfide da affrontare, prima di poter volare. Ed è così facile cadere e chiudere gli occhi di nuovo, magari pensi, «solo per un po’, poi li riapro», ma non accetti di star male e questo fa sì che i tuoi occhi restino serrati.
Quando accade, guardati con la luce dell’amore, ascoltati e saprai sciogliere i nodi. Non temere di risplendere, sentiti libero di farlo e così … piano, piano, la tua libertà, libererà anche gli altri.

Miriam Attucci




Marcello Suppressa nuovo delegato per la Caritas Toscana

Il 1 ottobre scorso l’assemblea generale della Conferenza Episcopale Toscana ha nominato Marcello Suppressa, direttore della Caritas di Pistoia, Delegato Regionale per la Caritas.

Gioia e soddisfazione per il vescovo Tardelli che ha dichiarato: «Il contesto in cui la Caritas, e quindi la chiesa , è chiamata ad operare oggi è vario e complicato. La lotta alle povertà, alle solitudini e alla cultura dello scarto, è molto articolata e necessita di un grande cuore, ma anche di una grande professionalità. Siamo certi che Marcello, già direttore della nostra Caritas di Pistoia, incarni al meglio queste caratteristiche e siamo convinti che saprà continuare il lavoro fin qui svolto». Tutta la comunità diocesana invia a Suppressa i migliori auguri di buon lavoro.




Con Basilio Petrà sulle vie dello Spirito

Venerdì 19 ottobre alle ore 17.30 presso il convento di san Francesco la sua relazione dal titolo: “Cos’è la vita nello Spirito?”

Don Basilio Petrà è prete della diocesi di Prato. È da quasi quarant’anni docente di teologia morale nello Studio Teologico Fiorentino, divenuto poi Facoltà Teologica dell’Italia Centrale: dal 2017 ne è preside. È stato presidente dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale).

Insegna anche a Roma, presso l’Accademia Alfonsiana e presso il Pontificio Istituto Orientale: due istituzioni accademiche collocate sul Palatino, non lontane dalla basilica di Santa Maria Maggiore; istituzioni che anche simbolicamente riuniscono a breve distanza il profilo biografico e intellettuale di Petrà, l’interesse, cioè, per la morale e l’ispirazione orientale del suo pensiero. Petrà, infatti, è presbitero cattolico di rito latino, ma è di origine greca; essendo però nato ad Arezzo e avendo abitato fin da piccolo nel Mugello, a Firenze e poi a Prato.

Coerentemente a questa ispirazione, la sua attenzione si è volta ora al mondo dell’ecumenismo, ora alla teologia orientale sui sacramenti, ora al diritto delle Chiese orientali, ora ad alcuni autori greci e russi. Questa presenza del riferimento all’Oriente cristiano è come una costante sempre presente nel suo pensiero, uno sfondo nei suoi articoli e libri, un punto di vista che lo conduce a leggere la teologia (morale o dogmatica che sia) con altri accenti, altre problematiche, altre domande rispetto a quelle abituali alla teologia occidentale.

Questo punto di vista diverso lo ha ad esempio condotto ad affrontare – con un’attenzione rinnovata e illuminata dagli sviluppi della teologia orientale – ora il ministero ordinato, ora le persone divorziate e risposate; ben prima che nella Chiesa quest’ultimo tema venisse sollevato ai massimi livelli con il Sinodo dei vescovi convocato dal papa a discutere sulla famiglia tra il 2014 e il 2015.

Cos’è la vita nello Spirito?” è il titolo del suo intervento a “I linguaggi del divino” 2018: già nel titolo risuonano il riferimento all’azione dello Spirito nell’uomo, alla sua trasformazione, alla sua progressiva conformazione a Dio. Un linguaggio che non si ha difficoltà a riconoscere segnato dalla cifra pneumatologica e divinizzante tipica della teologia e della spiritualità orientali.

Don Francesco Vermigli (Facoltà teologica dell’Italia Centrale)




Sulle vie dello “Spirito” con Basilio Petrà

Venerdì 19 ottobre alle ore 17.30 presso il convento di san Francesco la sua relazione dal titolo: “Cos’è la vita nello Spirito?”

Don Basilio Petrà è prete della diocesi di Prato. È da quasi quarant’anni docente di teologia morale nello Studio Teologico Fiorentino, divenuto poi Facoltà Teologica dell’Italia Centrale: dal 2017 ne è preside. È stato presidente dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale).

Insegna anche a Roma, presso l’Accademia Alfonsiana e presso il Pontificio Istituto Orientale: due istituzioni accademiche collocate sul Palatino, non lontane dalla basilica di Santa Maria Maggiore; istituzioni che anche simbolicamente riuniscono a breve distanza il profilo biografico e intellettuale di Petrà, l’interesse, cioè, per la morale e l’ispirazione orientale del suo pensiero. Petrà, infatti, è presbitero cattolico di rito latino, ma è di origine greca; essendo però nato ad Arezzo e avendo abitato fin da piccolo nel Mugello, a Firenze e poi a Prato.

Coerentemente a questa ispirazione, la sua attenzione si è volta ora al mondo dell’ecumenismo, ora alla teologia orientale sui sacramenti, ora al diritto delle Chiese orientali, ora ad alcuni autori greci e russi. Questa presenza del riferimento all’Oriente cristiano è come una costante sempre presente nel suo pensiero, uno sfondo nei suoi articoli e libri, un punto di vista che lo conduce a leggere la teologia (morale o dogmatica che sia) con altri accenti, altre problematiche, altre domande rispetto a quelle abituali alla teologia occidentale.

Questo punto di vista diverso lo ha ad esempio condotto ad affrontare – con un’attenzione rinnovata e illuminata dagli sviluppi della teologia orientale – ora il ministero ordinato, ora le persone divorziate e risposate; ben prima che nella Chiesa quest’ultimo tema venisse sollevato ai massimi livelli con il Sinodo dei vescovi convocato dal papa a discutere sulla famiglia tra il 2014 e il 2015.

Cos’è la vita nello Spirito?” è il titolo del suo intervento a “I linguaggi del divino” 2018: già nel titolo risuonano il riferimento all’azione dello Spirito nell’uomo, alla sua trasformazione, alla sua progressiva conformazione a Dio. Un linguaggio che non si ha difficoltà a riconoscere segnato dalla cifra pneumatologica e divinizzante tipica della teologia e della spiritualità orientali.

Don Francesco Vermigli (Facoltà teologica dell’Italia Centrale)