SE LA RESURREZIONE RESTA INDIGESTA: OMELIA DEL GIORNO DI PASQUA

Se la resurrezione resta indigesta non è colpa del pranzo, né della merenda fuori porta del giorno di Pasquetta. Neppure è colpa del tempo che non è più quello di una volta.
Forse è colpa dei tempi? Conseguenza inevitabile dell’età secolare o preludio di una nuova stagione culturale, in cui le antiche domande dell’uomo chiedono modalità inedite di annuncio?

«È stato detto, con uno slogan che rende però l’idea – ha esordito Mons. Tardelli nella sua omelia per il giorno di Pasqua – che non siamo semplicemente in una epoca di cambiamenti, bensì in un cambiamento d’epoca. Si prospettano nuovi scenari super tecnologici, sul piano economico, sociale, politico, persino umano (…) Opportunità future e antichi fantasmi danzano insieme nello scenario dei giorni presenti».
Un presente talmente spinto nel futuro da volersi aggrappare a tutti i costi al passato. Eppure è oggi che la Chiesa rinnova l’annuncio pasquale: «in questo mondo cambiato e mutevole, ha ancora senso la nostra fede nel Signore Risorto? Ciò che noi crediamo, ha ancora da dire qualcosa a questo mondo?».

Un film commedia di questi giorni ha pensato pure di giocare con la religione, fondandone una tutta nuova: lo ionismo: «una religione – ha affermato il regista – con elementi liberatori, molto comoda e contemporanea. Mette lo specchio e te stesso al centro, in un’epoca in cui i selfie sono il modo di manifestare la propria esistenza e ci si sente poeti scrivendo un post su facebook. (…) una commedia sulla religione, in un momento storico in cui è un tema quasi tragico».

Di fronte a questo scenario, si domandava il vescovo Tardelli: «Che cosa può voler dire per l’uomo di oggi, la Pasqua, la morte e la risurrezione di Cristo? La domanda è seria e la risposta non può essere banale, quasi a dimostrare come ovvia la fede nel risorto».
La fede chiama l’uomo a uscire dalla propria autoreferenzialità per aprirsi ad un Altro. Che pure non si vede, né si tocca. Ma che è veramente risorto. Sì, la fede non è ovvia: «Gesù non volle rivelarsi a tutto il mondo come risorto; volle invece affidare la sua risurrezione alla fede; alla fede dei suoi discepoli che “videro” ma dovettero “credere” anch’essi; credere cioè che non era un fantasma Colui che avevano incontrato; che non era un sogno, una loro fantasia, una proiezione del loro desiderio».
Anche a noi oggi, il Signore chiede di compiere questo passaggio: «La fede resta qualcosa di “scandaloso” per il mondo, di “ostico” alla mente nostra e alla nostra esperienza umana. Rimane un “salto”, un affidarsi, un confidare nella testimonianza degli apostoli e di chi, prima di noi, ha “creduto”. Un “salto” nel buio, per certi versi».

Anche il documento preparatorio del sinodo dei Giovani, elaborato qualche giorno fa nell’incontro presinodale tra centinaia di giovani e il papa sottolinea la difficoltà di riferirsi, pur in un contesto “aperto alla spiritualità”, al discorso della fede: «sebbene i giovani riescano ad interrogarsi sul senso dell’esistenza, questo non sempre implica che siano pronti a dedicarsi in maniera decisiva a Gesù e alla Chiesa. Oggi la religione non è più vista come il mezzo principale attraverso il quale un giovane si incammina verso la ricerca di senso» (n. 5).

La fede della Chiesa, dunque, professata solennemente il giorno di Pasqua «è certamente una sfida per noi uomini di oggi, giovani e adulti; una sfida per il mondo».
Ma allo stesso tempo è «un proclamare al mondo che tutti gli sforzi per salvare se stessi e l’uomo in genere, per salvare il pianeta, per una convivenza tra i popoli; tutti gli sforzi per vincere la cattiveria e l’odio; tutto l’impegno per la giustizia e per dare dignità alla vita dell’uomo; tutto il nostro gran da fare per vincere la morte e goderci la vita; ecco tutto questo è destinato al fallimento se non riconosciamo che Gesù è il Signore, l’unico che ha vinto la morte e nel quale solamente abita quell’amore puro che può trasformare il cuore dell’uomo e darci la gioia e la pace che il nostro cuore inquieto cerca».

La Pasqua riafferma il segno di contraddizione della proposta cristiana: «è qui il punto che renderà sempre un po’ “indigesta” la fede cristiana. E ogni tentativo di smussarne gli angoli, per renderla compatibile con le aspettative tutte terrene dell’uomo, riducendone la pretesa paradossale, addomesticandola per farla diventare un semplice supporto motivazionale all’impegno sociale; così come ogni sforzo per eliminare le esigenti conseguenze morali della fede che indicano all’uomo un cammino faticoso e controcorrente rispetto ai propri istinti e desideri; tutto questo non produce alcun effetto positivo sull’uomo, anzi, rende insignificante e vana la morte e la risurrezione di Cristo».
Parole forti, che suonano scomode. «Questa dunque – ha continuato Mons. Tardelli – è la nostra fede e non vogliamo far niente per renderla accettabile e toglierle il suo carattere paradossale, anche se riteniamo che risponda alle vere attese dell’uomo di ogni tempo».

È la stessa fede che fa prendere posizione di fronte al mondo e «ci fa dire che la cattiveria, il sopruso, l’ingiustizia, l’odio, la morte, non avranno il sopravvento perché Cristo è risorto; questa fede ci fa dire ancora che qualsiasi peccato, trasgressione alla legge santa di Dio, può essere sconfitto nella nostra vita, per la croce di Cristo; questa fede ci fa dire inoltre che è possibile già su questa terra vivere, seppur a costo della stessa vita, una vita nuova segnata dall’amore vero verso gli altri; una vita che allora fiorirà in pienezza oltre la morte, perché la morte è stata sconfitta per sempre».




IL PROFUMO DELLA VITA

Venerdì 23 marzo, con il tragitto dal Battistero di San Giovanni in Corte alla chiesa di San Giovanni Fuorcivitas, si è concluso il cammino delle stazioni quaresimali; un «itinerario quaresimale che ci ha visto attraversare la città da un chiesa all’altra, andando dietro al Signore, per cercare Colui che ci ha cercato e trovato per primo».

Un cammino fermatosi alle soglie della Settimana Santa, che prima di ripercorrere la passione di Cristo ha fatto gustare, in anticipo, il profumo della vita. Il vangelo di venerdì scorso raccontava infatti la vicenda di Lazzaro: «il tripudio della vita – ha ricordato il vescovo Tardelli nella sua omelia -. La resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, come la risurrezione del figlio della sunamita ad opera del profeta Eliseo, ci fanno sentire la gioia, il profumo, l’allegria della vita».

Una fragranza che fa misurare tutta l’incompatibilità tra l’uomo e la morte. «Possiamo compiere tutti gli sforzi del mondo per assuefarci alla morte; possiamo tentare di esorcizzarla in ogni modo; cercare di tenerla lontana dalla nostra vista, dalla nostra esperienza….. Ma non c’è niente da fare. Pur nello stordimento della distrazione – ha ricordato il vescovo -, essa, col suo carico di tristezza, di gelo e di ineluttabilità, torna ad assalirci sempre di nuovo (…). Tutto si ribella in noi di fronte alla morte. Non siamo fatti per la morte».

La vicenda degli uomini, senza l’orizzonte di Dio, resta incastrata nel dramma della finitudine e della fragilità. Avvertiamo, infatti «come una contraddizione inaccettabile venire alla vita, respirarla a pieni polmoni, magari superando grandi difficoltà, e poi finire nel vuoto di un sepolcro. Per tutto questo, il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta una esplosione di gioia e di speranza». Eppure anche Lazzaro, tornato alla vita, era destinato a morire di nuovo. Il miracolo della vita sfuma forse nell’illusione?

Forse qualcuno si ricorda –di quel film scandaloso, ma per niente banale che è l’Ultima tentazione di Cristo di Scorsese – la scena in cui Gesù chiama Lazzaro a uscire dal sepolcro. D’improvviso, dall’oscurità del sepolcro, Lazzaro tende la mano a Cristo. Gesù è quasi sconvolto dalla forza della sua preghiera. La mano tesa di Lazzaro, già segnata dalla decomposizione, lo afferra e lo trascina con sé, per un attimo, nel buio del sepolcro. Immagine sconvolgente di un Cristo inconsapevole di fronte all’orrore della morte.

I Vangeli ci dicono che la morte non ha l’ultima parola. Che Gesù, con buona pace di Scorsese, è entrato davvero nel buio del sepolcro ma, seppure dentro il dramma della passione, ci è entrato consapevolmente. E ne è uscito risorto. Occorre, dunque, «andare più in profondità e leggere le cose alla luce, non tanto della risurrezione di Lazzaro ma di quella di Cristo (…) Alla luce di Cristo allora, morto e risorto per portare a compimento il disegno del Padre; morto e risorto nel segno dell’amore che è Dio stesso, possiamo comprendere che la vita vera, quella piena ed eterna, che già comincia quaggiù ma che si realizzerà definitivamente oltre la morte, è quella che si condensa nell’amore».

Cedere all’orrore e allo sgomento della morte, è per il cristiano una tentazione. «Ben misera cosa sarebbe però – ha precisato il vescovo- fermarsi a gustare la superficie della vita, i suoi aspetti esteriori, le sue manifestazioni più contingenti se non andassimo invece al succo della vita; se non andassimo ad attingere alla fonte della vita vera che è Gesù Cristo».

Ben misera cosa sarebbe se cedessimo alla nostra ‘ultima tentazione’, quella di sfuggire alla volontà di Dio, «se non imparassimo a godere della gioia che ci viene da questa vita di Dio in noi, che è libertà dal peccato, pienezza d’amore, carità operosa nei confronti dei fratelli. In questo modo, niente di ciò che è veramente umano viene disprezzato o perduto, anzi, nella vita di grazia che lo Spirito Santo realizza in noi, tutto trova pieno significato e profondità».

Il rischio di non andare in profondità e di non riuscire a cogliere il “di più” di vita che ci dona il Signore conduce ad un’esistenza perennemente in bilico sull’abisso. La notte dei morti viventi è in realtà il lungo giorno di chi rincorre la vita laddove non c’è: «Anche se brindassimo tutti i giorni alla vita, anche se passassimo i giorni nella spensieratezza di tutte le possibili gioie terrene; anche se avessimo tutto e tutto ci potessimo permettere, saremmo nient’altro che dei morti che camminano per le strade».

Una prospettiva assai misera ed amara, almeno quanto la celebre battuta del film horror “la notte dei morti viventi” : «Vivere assieme per noi non è una gran gioia, ma morire assieme non risolverà niente». Chi è già morto dentro non possiede – ha continuato il vescovo – «la vita di Dio, la vera vita, quella Grazia santificante che proviene solo da Dio e si realizza soltanto nell’amore da Lui ricevuto e a sua volta donato a Lui e agli altri».

È proprio di fronte alla possibilità di vivere da morti, come se non ci fosse prospettiva davanti all’orrore della morte «che Gesù, come dice il racconto evangelico, letteralmente “scoppiò in pianto”. Pensiamoci».

«Alla luce interiore della Grazia – ha concluso mons. Tardelli-, anche il morire terreno diventa occasione di lode e gratitudine». Non c’è nessuna morte (neanche la seconda morte di Lazzaro) che possa sottrarre alla vita piena chi si lascia raggiungere dall’amore di Dio.
«È San Francesco a dircelo nel suo meraviglioso cantico delle creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.”»

Leggi l’intera omelia..




“CHIAMATI ALLA VITA”. GIOVEDÌ 22 LA VEGLIA PER I MISSIONARI MARTIRI

Giovedì 22 marzo a Montemurlo si celebra in Diocesi la ventiseiesima Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.

Nella nostra diocesi la veglia di preghiera, presieduta dal vescovo Tardelli si svolgerà in data 22 marzo alle ore 21 nella parrocchia di Montemurlo.

Il tema di quest’anno è: “Chiamati alla Vita”. Durante la celebrazione, infatti, saranno ricordati i 23 – fra sacerdoti, religiosi, religiose, laici e laiche- che sono stati uccisi in odio alla fede e che quindi la Chiesa ha riconosciuto martiri, chiamati “a vita nuova” in Cristo.

In questi giorni la nostra Missionaria Nadia Vettori è tornata dal Brasile. Si conclude così la sua esperienza missionaria svolta per oltre 43 anni in Brasile. Per alcuni anni è stata a Manaus insieme a Don Enzo Benesperi e Don Umberto Guidotti, mentre dal 2004 era a Balsas, dove ha costruito la “casa della Comunità”, una struttura polivalente dedicata alla promozione sociale della popolazione a cominciare dai bambini, dai giovani e dalle donne con attività che spaziano in vari campi, dalle attività ludiche, al sostegno scolastico dei ragazzi e dei bambini, alla promozione del lavoro femminile, all’educazione religiosa e civile della popolazione.

Da sempre il Centro Missionario Diocesano ha dedicato la raccolta della quaresima missionaria al sostegno dei missionari fidei donum diocesani. I progetti sostenuti sono sempre stati legati alla loro attività: la raccolta 2018 verrà dunque destinata, sostanzialmente a due progetti:

– al sostegno di Don Marcello Tronchin, l’ultimo sacerdote fidei donum della nostra Diocesi, che opera in Ecuador in una parrocchia periferica della Città di Esmeraldas, in un contesto di forte degrado economico ed esistenziale. Don Marcello, pur essendo quasi ottantenne e con qualche problema di salute, continua la sua attività missionaria in favore di quella popolazione, in particolare di ragazzi problematici.

– Al sostegno del progetto di fraterna cooperazione fra la Diocesi di Pistoia e quella di Balsas, legata alla nostra anche dal ricordo di Mons. Rino Carlesi, nostro concittadino, che è stato per lunghi anni Vescovo amatissimo di Balsas nonché grande amico del Centro Missionario Diocesano.

Daniela Raspollini

 




QUANDO GESÙ SIEDE STANCO PER CERCARMI. LE PAROLE DEL VESCOVO PER LA TERZA STAZIONE QUARESIMALE

La chiesetta di Santa Maria del Soccorso, nota anche come Santa Maria in Borgo Bambini o Santa Liberata, è sconosciuta a molti pistoiesi, ma ospita da qualche anno la comunità cristiano ortodossa rumena. L’interno, tappezzato di icone, riflette il timbro tutto orientale della spiritualità ortodossa. Da qui si muove, fino alla Chiesa di San Bartolomeo, la processione della stazione quaresimale, guidata dal vescovo. In alto, sopra l’altare della chiesetta, si custodisce un antico affresco con la Madonna “in umiltà”, seduta per terra, con in braccio il suo bambino. Un dipinto arrivato qui dalla vicina chiesa dei Gesuati, oggi distrutta, che ha dato il nome di Santa Maria del Soccorso. Un titolo che ha il sapore del “pronto soccorso”, forse per via dell’attenzione alla medicina e al servizio ai malati proprio dell’ordine dei Gesuati. L’efficacia del “soccorso” che reca la Vergine è tutto nel bambino che stringe al petto. Un Dio bambino protagonista assoluto di quell’ospedale da campo che dovrebbe essere la Chiesa. Gesù è entrato nelle difficoltà della condizione umana: ha sperimentato la fame e la sete, ha provato stanchezza, ha “gustato” la morte. Ha portato soccorso, dalla posizione, tutta inedita, di salvatore affaticato e ferito.

Il Vangelo pronunciato venerdì 9 marzo proponeva il dialogo tra Gesù e la Samaritana. Gesù, ricordava il vescovo Tardelli nella sua omelia «è lì, al pozzo, stanco, affaticato, affamato – i suoi erano andati a cercare del cibo. Si è seduto e anch’egli ha sete. Una profonda sete. Ma non dell’acqua del pozzo. Egli ha sete dell’anima di quella donna; ha sete dell’anima di ognuno di noi; ha sete di me e della mia vita».

Forse non lo ricordiamo spesso così, eppure, prosegue il Vescovo, Gesù giunge stremato alle porte della nostra umanità: «Egli, stanco, sta cercando me, come canta un antico e ingiustamente abbandonato inno liturgico: “quaerens me sedisti lassus” Tu, signore sedesti stanco per cercare me, per darmi il tuo amore, per salvarmi dal non senso della mia vita, dal male nel quale spesso sono incatenato».

«La stanchezza del Signore Gesù  -ha precisato Mons. Tardelli- è la sua croce d’amore, è la fatica del buon pastore che va per dirupi e rovi a cercare la pecora perduta e caricarsela sulle spalle». Alla stanchezza si accompagna una sete divina: «La richiesta che Gesù fa alla donna, rileva questa sua sete: “dammi da bere”, cioè, dammi la tua anima, dammi la tua persona, lasciati amare, lasciati salvare, apri il tuo cuore a me e sarai salva». Il grande fascino di questa pagina evangelica risiede proprio nell’incontro tra la sete di Dio e quella dell’uomo. «Che la nostra sete e quella di Cristo si incontrino: questo allora c’è da augurarsi stasera, per la nostra vita, per il nostro cammino quaresimale che ci conduce alla Pasqua».

Il Vescovo, rileggendo le parole del Vangelo  parla di stanchezza e di sete, di esigenze interiori ed esteriori, molto concrete, dell’uomo di oggi. Manca l’acqua che disseta l’anima e quella che disseta il corpo. «“In quei giorni, il popolo soffriva per la mancanza di acqua”. Parole antiche, dell’esodo… Ma quanto attuali! Quanto contemporanee, quanto dolorosamente vere. Perché, anche materialmente è proprio così: oggi un sacco di persone soffrono per la mancanza di acqua. “Sono circa 900 milioni le persone che non hanno accesso ad acqua potabilmente sicura. Sono almeno 1,8 milioni i bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno per malattie collegate alla qualità dell’acqua: uno ogni 20 secondi.”»

La verità del Vangelo non dimentica mai la concretezza dell’esistenza. Per questo la stanchezza di Gesù non è una posa teatrale, non è finzione edificante, ma stanchezza concreta, sete reale e spirituale insieme. Una sete che parla all’uomo dei suoi bisogni più profondi e “integrali”. «Non è difficile riconoscere che siamo tutti degli assetati, che abbiamo sete di vita e di amore, sete di gioia e di bene, sete di felicità e di pace (…) non è difficile riconoscerla, questa sete, dentro di noi e nel cuore dell’umanità». È una sete che conduce a conseguenze molto concrete.  «Spesso – continua mons. Tardelli – la nostra sete, la si soddisfa bevendo acqua putrida, di pozzanghere sudice e maleodoranti, acqua velenosa; all’apparenza cristallina e pura ma in realtà piena di germi mortiferi (…) Domandiamoci inoltre se per soddisfare la nostra sete, invece di amare e donare come ci ha insegnato il Signore, sfruttiamo gli altri, utilizzandoli per i nostri fini».

Di fronte al nostro profondo desiderio di salvezza integrale, di fronte alla sete dell’uomo, il  Signore ripete: «L’acqua che cerchi “sono io, che parlo con te”. E ce lo dice anche questa sera, qui, in questa celebrazione eucaristica dove l’altare è per tutti noi, il pozzo di Giacobbe dove egli ci attende».

Il cammino delle stazioni quaresimali prosegue venerdì 16 marzo presso la Chiesa di San Paolo Apostolo, per la celebrazione delle 24 ore per il Signore. Un’occasione di preghiera di adorazione e misericordia che si prolungherà ininterrottamente dal pomeriggio di venerdì 16 fino alla sera di sabato 17. Alle 21 di venerdì 16, la messa presieduta dal vescovo Tardelli.

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LASCIATI GUARDARE DA CHI HAI UCCISO. L’OMELIA DEL VESCOVO TARDELLI NELLA SECONDA STAZIONE QUARESIMALE

La Bibbia non è un libro per vecchi. Uno di quei testi rassicuranti e ammorbiditi che possono conciliarci il sonno o la pensione. La vicenda di Giuseppe.venduto dai fratelli o alcune parabole di Gesù, come quella di Vignaioli omicidi ci inquietano e ricordano anche molto da vicino episodi di cronaca nera. Con la.differenza, per restare vaghi, che le pagine bibliche restano li da millenni ad.interrogarci sulle eterne miserie dell’uomo in cui trova spazio l’azione di Dio.

«Il sacro tempo della quaresima – ricorda il vescovo Tardelli nella seconda stazione quaresimale, presso la chiesa di san Paolo apostolo– ci richiama ad altre considerazioni; a cambiare mente e mentalità (…) magari accompagnata da un lamento per i tempi tristi che stiamo vivendo. Troppo facile cavarcela così!».

Siamo proprio sicuri di non essere.un po’ simili ai fratelli di Giuseppe? Di non essere come loro almeno un po’ invidiosi, gelosi, senza scrupoli? La questione è ancora più profonda e ci interessa da vicino, ci coinvolge personalmente. «È chiaro infatti, che la figura di Giuseppe rimanda a quella di Cristo, venduto dai suoi stessi amici ai capi del popolo di Israele; non accolto, anzi rifiutato proprio da coloro che erano il suo popolo; da coloro – come i discepoli – che per primi avrebbero dovuto riconoscerlo. Questa sera allora, ognuno di noi è messo davanti a Cristo».

Stare.di fronte.a Cristo, come.sostare.di fronte alla.pagine bibliche non è cosi facile e indolore. Gesù ci guarda. Scruta il nostro cuore. Un’atteggiamento che in San Paolo, prima e dopo la messa, è assicurato da alcuni momenti di adorazione del Santissimo Sacramento. Un’esperienza che dice un po’ la cifra di questa chiesa cittadina, da tanti anni accompagnata, sotto il campanile. dalla cappella dell’adorazione perpetua. Un piccolo spazio, che guarda la città che passa. Un’occhio aperto sul cuore dell’uomo che circola distratto e pensieroso davanti alla porticina a vetri della cappella.
«È Lui, il Signore Gesù che si pone davanti a noi e ci fissa coi suoi occhi che vedono ogni cosa, anche le profondità della nostra anima. E davanti a lui siamo invitati a scegliere nuovamente: o con Lui o contro di Lui.(…) stasera Lui ci invita a identificarci coi fratelli che hanno venduto Giuseppe; coi contadini che hanno ucciso il figlio del vignaiolo. Si, proprio noi; si, proprio io, ho venduto, ho ucciso. Ho venduto, ho ucciso Lui, Gesù, con la mia indifferenza, con la mediocrità della mia fede, con la mia indolenza, con la mia superficialità, con il mio cedere sempre di nuovo agli impulsi dell’uomo vecchio fatto di gelosie, di invidie, di rancori, di pigrizia, di lussuria, di ipocrisia».

Il vescovo Tardelli smonta, uno ad uno, i nostri fraintendimenti e le nostre mancanze con un catalogo impietoso: «Abbiamo venduto e ucciso Lui, quando non abbiamo obbedito ai suoi comandamenti, quando ci siamo voltati da un’altra parte di fronte al fratello, quando non abbiamo servito, amato, abbracciato chi era nel dolore, o abbiamo insultato, maledetto, offeso l’altro».

Siamo bravi a puntare il dito, a commentare che le cose vanno a rotoli, che gli altri meriterebbero una lezione pesante. Eppure quel che condanniamo è talvolta anche «ciò che abbiamo fatto», che «unito al peccato di altri, ha reso possibile i drammi che riempiono le cronache di ogni giorno. Senza che neanche ce ne rendiamo conto. (…) Gesù parla di noi, parla a noi e noi siamo davanti a lui. Lui, con calma, fissandoci negli occhi e dentro il cuore, ci racconta la storia di Giuseppe venduto dai fratelli. Non ci accusa; non ci condanna; semplicemente ci racconta quella storia e ci chiede di ascoltarla; è sicuro che ne capiamo il significato. E, come se non bastasse, con la stessa calma, ci racconta anche la parabola dei contadini malvagi. Scandisce le parole, perché entrino in noi e ancora, perché noi capiamo da soli; continuando a fissarci negli occhi, mentre noi facciamo fatica a sostenere il suo sguardo; non c’è rabbia nel suo sguardo, non c’è risentimento, solo infinito amore, ma proprio per questo non riusciamo a sostenerlo».

Il suo sguardo è lo sguardo che recuperiamo nella presenza muta e indifesa, fragile e umile del suo corpo eucaristico offerto in sacrificio per noi. Con la Sua presenza e le Sue parole «il Signore Gesù svela la radice del male che è in ognuno di noi, la necessità di vigilare perché l’uomo vecchio non prenda il sopravvento, perché guardando in faccia il male che ci attacca, lo possiamo prevenire confidando in Lui. È questo alla fine ciò che conta e ciò che il Signore vuole da noi. Che smettiamo l’atteggiamento farisaico di chi si crede giusto e di non aver bisogno di guarigione e assumiamo invece l’atteggiamento che onora la verità, facendoci prendere coscienza di avere un assoluto bisogno del tocco della mano di Dio per la nostra salvezza».

Non è un libro per vecchi la Bibbia. Anche se spesso i suoi racconti hanno il lieto fine. Un finale che rivela principalmente la misericordia di Dio, la sua alleanza fedele, aldilà del nostro merito. Giuseppe, «odiato dai fratelli, sarà quello che salverà i fratelli, quando, mossi dalla carestia, cercheranno rifugio in Egitto dove Giuseppe è diventato importante. Lo scartato diventa il salvatore (…) Così la parabola dei contadini ci dice che il figlio ucciso, Gesù, darà salvezza agli uomini».

Sì il Signore ci conosce e sa che abbiamo bisogno di lieto fine. Anche se non a buon mercato. Desidera, in primo luogo che ci conosciamo, nella nostra reale misura e miseria.per costruire «la nuova umanità che inizia dal nostro cuore pentito e redento. A partire da stasera».

Prossimo appuntamento venerdì 9 marzo, con la Stazione Quaresimale dalla Madonna del Soccorso fino alla Chiesa di San Bartolomeo Apostolo.

Leggi l’intera omelia.




IL NUOVO VOLTO DEL PALAZZO VESCOVILE: SABATO 3 MARZO LA PRESENTAZIONE DEI RESTAURI

Sabato 3 marzo alle ore 10 si svolgerà presso l’aula magna del Seminario di Pistoia la presentazione dei restauri del palazzo vescovile.

I lavori, a cura dell’architetto Alessandro Suppressa, hanno restituito un rinnovato splendore al palazzo e consegnato un nuovo volto all’intera via Puccini. Il restauro ha permesso di riproporre l’antica coloritura verde chiaro e, soprattutto, ha consolidato una situazione architettonica particolarmente grave dal punto di vista conservativo e statico. Gli interventi sono stati realizzati dalla Ditta IRES .

Di seguito il programma dell’evento:

Saluti e introduzione

S. E. Mons. Fausto Tardelli
Vescovo di Pistoia

Interventi

Arch. Alessandro Suppressa
Direttore dei lavori
Arch. Priscilla Braccesi
Progetto di restauro
Arch. Valerio Tesi
Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio




SETTE DETENUTI IN PELLEGRINAGGIO VERSO ROMA NEL NOME DI SAN JACOPO

PISTOIA – Un pellegrinaggio di straordinario valore simbolico e spirituale sulle vie della fede per riflettere sulla propria vita, i propri errori ed avere la possibilità di redenzione. È questa l’idea che sta alla base dell’iniziativa che vede coinvolti Diocesi di Pistoia, Confraternita di San Jacopo di Perugia e alcune carceri del Lazio: domani, 21 giugno, nella memoria liturgica di Sant’Atto, partirà dalla Cattedrale di San Zeno un gruppo di sette carcerati romani per compiere un pellegrinaggio piedi sino a Roma lungo la via Francigena. Una data significativa perché fu proprio il vescovo Atto a far arrivare a Pistoia da Santiago di Compostela nel 1144 la reliquia di San Giacomo Apostolo.

L’iniziativa nasce dalla cooperazione tra Diocesi di Pistoia, Confraternita di San Jacopo di Compostella (con sede a Perugia) e le strutture penitenziarie Rebibbia Nuovo Complesso; Terza Casa Reclusione e Rebibbia Casa Circondariale, coordinate dalla dr.ssa Cinzia Calandrino, Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio l’Abruzzo e il Molise.

La Confraternita di San Jacopo, il cui rettore è il prof. Paolo Caucci von Saucken, professore di letteratura spagnola presso l’Università di Perugia e massimo conoscitore del Cammino di Santiago, ha messo a disposizione mezzi, strutture di accoglienza e volontari allo scopo di rendere possibile il cammino fisico, ma anche spirituale dei pellegrini, onde offrire una possibilità di cambiamento e redenzione.

I pellegrini in arrivo da Roma saranno a Pistoia nel tardo pomeriggio di oggi (martedì 20), quando verso le ore 19 verranno fraternamente accolti sotto il portico antistante la cattedrale e ospitati per la notte a cura della diocesi pistoiese. Domani, festa di Sant’Atto, parteciperanno nella mattina alla solenne celebrazione liturgica in cattedrale per poi iniziare il loro pellegrinaggio a piedi lungo il percorso Jacopeo toscano e poi sulla Via Francigena sino a Roma, accompagnati da un gruppo di volontari.

«Lo scopo dei pellegrinaggi giudiziari è essenzialmente favorire il processo di reinserimento dei detenuti nella società civile – spiega Marina Binda, avvocato, volontario carcerario e membro della Confraternita di San Jacopo – . La reiterazione dei reati rappresenta un altissimo costo per lo Stato e anche per questa ragione le istituzioni civili sono interessate a questi progetto».

«Durante il pellegrinaggio non ci sono detenuti, non ci sono volontari – continua l’avvocato Binda –; diveniamo, o tentiamo di diventare, un’anima sola. Tutti al servizio l’uno dell’altro, senza distinzioni».

Inoltre, sempre nella serata di domani, per celebrare la festa di Sant’Atto vescovo di Pistoia (1133-1153) il Comitato di San Jacopo ha organizzato una serata di approfondimento che inaugura un ciclo di incontri dedicati all’approfondimento e alla conoscenza del Vescovo Atto e di altri personaggi illustri della Chiesa Pistoiese.

Nella sala del Capitolo dei Canonici, presso la Cattedrale di san Zeno, alle ore 16.30 sono previsti due interventi: il prof. Silvestrini dell’Università di Firenze, medievista, parlerà della figura di Sant’Atto come abate generale Vallombrosano, mentre la Prof.ssa Maria Valbonesi illustrerà l’importante ciclo figurativo seicentesco con le Storie di Sant’Atto, esistenti nella chiesa della Badia di Passignano.  Alle ore 18 seguirà la Santa Messa. Al termine è previsto un momento conviviale.




SOLENNE CELEBRAZIONE DEL CORPUS DOMINI IN CATTEDRALE

Giovedì 15 giugno alle ore 21 appuntamento in Cattedrale per la celebrazione del Corpus Domini, con la Santa Messa solenne presieduta dal Vescovo Tardelli. A seguire la Processione Eucaristica per le vie del centro (vedi locandina per il percorso).

Il Santissimo sarà esposto per l’Adorazione Eucaristica ininterrottamente fino alle 17,30 di sabato 17 giugno.

La solennità del Corpus Domini (“Corpo del Signore”) è una festa di precetto, chiude il ciclo delle feste del periodo post Pasqua e celebra il mistero dell’Eucaristia istituita da Gesù nell’Ultima Cena. Clicca qui per approfondire sul portale di Famiglia Cristiana




PRIMI MESI ALLA GUIDA DELLA DIOCESI: INTERVISTA A MONSIGNOR TARDELLI

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1- Monsignore, dopo quasi sei mesi dal suo arrivo a Pistoia che profilo può tracciare della città?

E’ ancora presto per tracciare un profilo attendibile della città. Ogni giorno di più mi rendo

conto di quanto devo ancora conoscere e capire. Posso quindi soltanto parlare di prime

impressioni che, dico subito, sono sostanzialmente positive. Esprimerei tutto questo con

una sensazione: mi trovo a mio agio in questa città. Non l’avrei pensato, prima di

avvicinarla almeno un po’. E invece, con una certa mia sorpresa, devo dire che mi ci trovo

bene. E’ una città viva e vivace. Bella. Come uno scrigno misterioso che incuriosisce. E

che racchiude gioielli preziosi, sul piano artistico, culturale, sociale. Una città ancora

popolare, vissuta, abitata, come non accade più ormai in tanti centri storici pedonalizzati a

oltranza e diventati artificiali set cinematografici dove si trovano solo monumenti, uffici

oppure splendide ma fredde vetrine.

2- Com’è cambiata, se è cambiata, la prospettiva e la visione che aveva della città

inizialmente?

Si, in effetti è un po’ cambiata. Confesso candidamente che sapevo davvero poco di

Pistoia, pur essendo cresciuto in una città come Lucca che è a due passi ed essendo stato

vescovo della vicina San Miniato per 10 anni. Non la conoscevo e, scioccamente, pensavo

poi che non ci fosse niente di speciale in questa città. Mi sbagliavo. La prospettiva è

cambiata fin dal momento del mio ingresso in città, quando ho sperimentato una grande e

calorosa accoglienza, una vicinanza e un affetto immediato che non immaginavo. E così,

giorno dopo giorno, ho cominciato a scoprire la bellezza di questa città e della sua gente.

Una città che con magnifico e azzeccatissimo aggettivo è stata chiamata da Bigongiari

“rocciosa”. Forse esagero un po’ – ma ho cominciato ad innamorarmene..

3- Come descriverebbe i pistoiesi?

Ho trovato gente schietta, sincera, con animo buono, dove una innegabile certa spigolosità

non è che l’altra faccia della schiettezza. Gente concreta, laboriosa, accogliente e…. mi

sia permesso di dirlo, che cucina molto bene! Ho trovato intraprendenza e inventiva,

radicata attenzione ai sofferenti, ai poveri, a chi è in difficoltà. Mi par di notare a volte, ma

credo di scoprire l’acqua calda, una certa tendenza alla frammentazione. Frammentazione

in gruppi e interessi, se non proprio in lotta, che viaggiano un po’ a compartimenti stagni.

Cosa che credo alla fine impedisca quel gioco di squadra soprattutto oggi tanto necessario

per raggiungere obiettivi di autentico sviluppo sociale.

4- Cosa le piace di più di Pistoia? Cosa invece non le piace?

Ciò che mi piace di più è la sua sensibilità sociale, l’attenzione diffusa e generalizzata nei

confronti del prossimo. L’ospedale del Ceppo, con le sue stupende formelle robbiane che

illustrano le opere di misericordia, non è solo un bel monumento. E’ la carta d’identità di

una città e di un popolo, pur attraversato da forti contraddizioni testimoniate nella storia da

aspre contese e lotte fratricide. Cosa non mi piace? Più che altro direi ciò che mi

sembrerebbe bisognoso di miglioramento e cioè la consapevolezza del proprio valore e

delle proprie risorse, la capacità di fare squadra e di giocare in squadra, la convinzione

delle proprie radici cristiane testimoniate tra l’altro da stupende chiese, in particolare da

quella serie pulpiti che la fanno unica al mondo.

5- Veniamo alla Diocesi… Ha scritto una lettera alla Diocesi dove ha dato le linee guida

per il primo anno di episcopato pistoiese: un itinerario di ascolto e discernimento. Quale

riflessione l’ha portata a seguire questa strada?

Sono partito da ciò che sentivo urgente per me. Il Signore mi ha inviato in questa terra, a

una chiesa che ha la sua storia, le sue vicende liete e tristi, il suo cammino. Sentivo e

sento la necessità di capire che cosa il Signore mi chiede oggi qui. Ho pensato allora che

questo periodo di discernimento nello Spirito Santo, potesse essere anche quello di tutta

una chiesa, dopo il lungo episcopato di Mons. Scatizzi e quello più breve ma intenso di

Mons. Bianchi e all’epoca di papa Francesco. Mi son detto che la chiesa, nel suo insieme,

laici e preti, consacrati e famiglie, giovani e anziani, parrocchie, associazioni e movimenti,

vive dello Spirito, deve essere docile al suo soffio vitale, deve costitutivamente e

abitualmente lasciarsi guidare dallo Spirito. Per cui ogni giorno è in stato di discernimento

per comprendere qui ed ora dove lo Spirito la sospinga a testimoniare la gioia del Vangelo

e l’amore misericordioso di Dio. Con la mia prima lettera pastorale ho inteso dire

esattamente questo.

6- Su che cosa ha voluto che la Diocesi riflettesse con questo percorso?

Ho chiesto intanto che ci si mettesse in preghiera, invocando con umiltà e fervore lo Spirito

Santo, perché “se il Signore non costruisce la città, invano faticano i costruttori”. Poi che ci

si sforzasse di leggere i segni dei tempi. Ciò che la chiesa universale sta compiendo con i

sinodi sulla famiglia, ciò che le chiese che sono in Italia stanno portando avanti col

convegno ecclesiale per un nuovo umanesimo in Cristo. Ho chiesto ancora che si

cercasse di cogliere i tratti salienti del cammino diocesano compiuto in questi anni per poi

proiettarsi in avanti. Prima l’esortazione apostolica Evangelici Gaudium e adesso la

proclamazione dell’anno santo della Misericordia da parte di papa Francesco attendono da

noi una risposta.

7-  Pensa che abbia dato buoni frutti?

I frutti del lavoro pastorale si vedono solo a lungo termine. Mi pare di cogliere comunque

un certo impegno, una buona accoglienza della mia lettera, uno sforzo per camminare

insieme. Mi rendo conto che ci sono tante fatiche, forse anche incertezze dovute al cambio

del vescovo dopo un periodo di sede vacante. Sono però molto fiducioso.

8- Quali sono i punti di forza della Diocesi di Pistoia e quali quelli di debolezza secondo

lei?

Anche qui la risposta non può che essere approssimativa e provvisoria. Vado ancora per

impressioni e debbo dire ogni giorno è una scoperta. Di problemi ma anche di grandi doni

dello Spirito. Resto quindi in attesa. Già fin d’ora comunque, girando la città e le periferie,

nella campagna e nella montagna, nelle varie comunità parrocchiali come nei gruppi, mi

sento di dire che c’è tanto di bene. C’è ancora partecipazione e coinvolgimento, fervore di

fede e di carità. Più di quanto uno si potrebbe aspettare o di quanto i vari mezzi di

comunicazione dicono in genere della chiesa. Vedo una grande attenzione ai poveri, ai

deboli, agli scartati del mondo. Vedo in tanti volti la gioia del Vangelo, di Gesù vivo e vero.

Riscontro però anche un certo procedere a compartimenti separati. Noto qualche

scollamento e indifferenza che non ci dovrebbe essere, tra realtà ecclesiali diverse, tra

parrocchie, tra centro diocesi e periferie.

9- Quali sono le prime problematiche diocesane su cui ha intenzione di intervenire?

E’ ancora presto per dirlo compiutamente, lo ribadisco, ma certo, scorgo già delle urgenze:

la formazione permanente del clero, l’attenzione educativa verso adolescenti e giovani

come verso le giovani famiglie, la riforma in senso missionario delle parrocchie e di tutta la

pastorale con un’apertura sempre più grande nella verità alla condivisione con gli ultimi di

sofferenze e speranze testimoniando la misericordia di Dio; la crescita del senso

comunitario e prima di tutto, il rinvigorimento della fede in Gesù morto e risorto con

l’approfondimento dell’esperienza viva di Lui, via, verità e vita. Ecco, già fin d’ora mi paion

queste alcune delle problematiche che meriteranno attenzione e impegno.

10- Quali le prospettive di lavoro futuro per la Diocesi

Sulla traccia di quanto ora ho affermato, ritengo si possa guardare al futuro. Quello che mi

preme però e che si cammini insieme, che ci si senta ognuno parte di un corpo che è

quello di Cristo e che insieme si viva nell’unità variegata e molteplice dei carismi e dei

dono, “perchè il mondo creda” e si salvi, come ci ricorda l’evangelista Giovanni.