Che cos’è l’accoglienza? Una riflessione a partire dalle parole del vescovo

Ci sono molti spunti di riflessione, almeno per coloro che siano riusciti a conservare calma e ragionevolezza, nelle parole che il vescovo di Pistoia ha rivolto alla Chiesa e alla città nel suo recente comunicato. Parole che rappresentano certo un contributo utile alla comprensione di quanto sia accaduto nel tempo recente.

Uno dei richiami sui quali il comunicato di mons. Fausto si incentra riguarda il valore dell’accoglienza. La domanda che in tutta questa vicenda realmente rintocca, sottotraccia, profonda e sorda, è infatti proprio questa: che cos’è davvero l’accoglienza? Cosa significa veramente accogliere? È questo il punto vero di quanto accaduto, finora affrontato solo dalle parole del vescovo, sul quale appare necessario riflettere. Si tratta di una domanda e di una questione che travalicano gli spiccioli fatti di cronaca più o meno gradevoli.

In questo senso non è possibile non cogliere nelle parole del vescovo il tentativo di strappare alle logiche della cronaca gli accadimenti e gli episodi, per loro stessa natura sempre effimeri e passeggeri, e ricondurre il tutto agli orizzonti di senso, ai significati primi e ultimi dove il rumore della cronaca non può riuscire ad arrivare. Non si tratta, infatti, o non si tratta più di una semplice vicenda parrocchiale. Quello che ormai è in discussione è uno dei valori di riferimento di chi cerca di seguire il Signore. Che cos’è l’accoglienza? Come, e perché, e quando, e in nome di chi praticarla?

Lezioni splendide e senza tempo si potrebbero ritrovare, a questo riguardo, nelle pagine di profeti del nostro passato. Ne cito uno tra tutti: don Tonino Bello. L’accoglienza si rintraccia certamente nelle scelte pastorali che una comunità parrocchiale o una diocesi operano. E a questo proposito occorre dire che sarebbe (stato) bello poter vedere che molte parrocchie si adoperano in questa direzione, mentre si deve purtroppo annotare che i molteplici appelli di mons. Tardelli in tal senso, invece, sono stati scarsamente o frettolosamente ascoltati. Ma ancora di più l’accoglienza si rintraccia in uno stile pastorale, in un atteggiamento interiore davanti ad ogni vicenda. Di essa ci sono chiarissimi e inequivocabili segnali rivelatori che ne evidenziano la presenza (o l’assenza) e che, a volte istintivamente, le persone sanno riconoscere senza errore.

L’accoglienza cristiana quindi è veramente tale quando diventa stile di vita ancora più e ancora prima che scelta organizzativa. Quali siano questi segnali non è semplicissimo da dire, ma alcuni possono essere individuati. Certamente il rispetto dell’altro qualunque siano la sua provenienza o il colore della pelle o l’età o le convinzioni politiche. Certamente il rifiuto dello scontro, a partire proprio da coloro che la pensano diversamente.

L’accoglienza, quando è atteggiamento interiore – e quindi stile di vita, e solo allora scelta operativa – non ha nemici, non sente persecutori, non interrompe il dialogo con alcuno. Vede, apprezza, dà valore alle ragioni dell’altro; fa sue le esigenze di tutti, quelle fisiche, quelle morali, quelle pastorali; si adopera perché chiunque si possa sentire preso in cura.

In un certo senso noi cristiani ne abbiamo un alto modello perché l’accoglienza, se è vera, è il frutto di quell’amore all’altro che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Viceversa, se anche dessi tutti i miei beni ai poveri e perfino consegnassi il mio corpo alle fiamme, non sono nulla di più di un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

Un programma altissimo che coglie tutti in difetto, a partire dal sottoscritto, e di fronte al quale l’unico atteggiamento possibile è un’umiltà silenziosa e raccolta.

C’è una domanda nel comunicato che il vescovo Fausto ha rivolto che rintocca e fa riflettere. Come possiamo far crescere tra di noi, nelle nostre comunità, nella nostra città il senso di una fraternità accogliente? Di fronte a quali percorsi, a quali vicende, a quali testimonianze il cuore si allarga, lo spirito cresce, le coscienze maturano? Cosa può ancora essere capace di renderci persone migliori?

Difficile da dire. Di sicuro nulla e nessuno che scelgano di consegnarsi alle alterne sorti della cronaca e alle logiche mediatiche possono farlo. Bauman ha detto parole decisive a questo proposito, tanto per citare qualcuno. Anche se a volte ne siamo tentati e la nostra fragilità ci fa cadere in questi atteggiamenti non possiamo dimenticare che certo non è con la contrapposizione, col dire quattro e quattr’otto, con la pressione mediatica, col dividere i buoni dai cattivi che si dà all’altro una occasione di riflessione, di cambiamento o di integrazione.

Dialogo, pazienza, dolcezza, cura del dettaglio, disponibilità a mettersi in discussione, inclusività ed attenzione nei confronti delle necessità di ognuno, sono la strada obbligata per chiunque e specialmente per chi sceglie di stare dalla parte degli ultimi. Di più, sono l’inoppugnabile riscontro della bontà delle intenzioni profonde.

Un ultimo punto mi preme sottolineare nelle parole del vescovo Tardelli: il ruolo della politica nelle vicende ecclesiali. Altissimo è il contributo che, almeno in tempi passati, i cristiani e il pensiero cattolico hanno saputo dare alla vicenda politica del nostro Paese, almeno alla politica intesa come servizio all’uomo, impegno disinteressato per il bene comune, forma di carità. Tuttavia la distinzione e lo scarto di questi valori di fondo con l’attualità e con la cronaca è piuttosto stridente perché tali principi, peraltro da tutti evocati, anche in questo caso non sembrano nascere da atteggiamenti ed orizzonti interiori che poi diventano stili di vita e alla fine si incarnano in decisioni e scelte e comportamenti. Restano spesso parole. Parole di cartone.

Il rapporto tra la Chiesa e la politica – si potrebbe dire recuperando un linguaggio un po’ arcaico – va facendosi di conseguenza molto complesso. Se non mancano atti e circostanze di aperta ostilità, permangono tuttavia situazioni e momenti (ad esempio quelli elettorali) in cui la politica, nelle sue espressioni di partito o di associazione, cerca di strumentalizzare la Chiesa, a volte anche per supplire ad una mancanza di idee o di collegamento vero con le persone. Purtroppo non sembrano scarseggiare infatti coloro che, a vario titolo, cercano di sfruttarla dal punto di vista della visibilità personale, o economico, o del pubblico consenso o altro ancora. Ed ogni vicenda di cronaca, perfino questa, ne è un esempio.

Eppure anche di fronte a questo la Chiesa deve continuare a dialogare e a battersi, opportune et importune, per un mondo in cui l’uomo, la sua dignità e i suoi bisogni fondamentali siano al centro.
Se mai come ora è stato fragile e problematico il dialogo tra Chiesa e politica, tra Chiesa e politici (o aspiranti tali), è altrettanto vero che mai come ora è urgente riaprire questo dialogo e cercare di dare, da cristiani, il contributo più efficace possibile specialmente in un tempo, come è stato detto nelle conclusioni della Settimana Sociale di Cagliari, di «investimenti senza progettualità; finanza senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza; politica senza società; rendite senza ridistribuzione; richiesta di risultati senza sacrifici».
Orizzonti di senso – e non piccole vicende di cronaca – da riscoprire e sui quali riflettere a lungo. Almeno per chi vuole lavorare per una comunità più bella e più giusta.

Edoardo Baroncelli
ConDirettore Regionale della Pastorale Sociale e del Lavoro
Conferenza Episcopale Toscana




Il vescovo Tardelli interviene sulla vicenda Vicofaro

PISTOIA – “L’altra sera a Vicofaro è successo qualcosa che mi ha amareggiato profondamente. Non ne ero stato certo avvisato; e perché mai avrei dovuto esserlo, del resto? Mi ha amareggiato per tanti motivi, non per uno solo. Qualcosa mi inquieta e non mi piace in ciò che è accaduto. È stato un punto che ha segnato il vertice di una escalation insopportabile. Invece di sciogliersi e trovare una soluzione accettabile, la vicenda di Vicofaro nel tempo è andata sempre più ingigantendosi, complicandosi, esacerbandosi.

Ma – mi dico – non sarebbe meglio spegnere i riflettori su Vicofaro e cercare tutti, come già diceva il grande Papa S. Giovanni XXIII, ciò che  ci unisce, piuttosto ciò che ci divide? In tempi di schieramenti sempre più feroci, questa mia affermazione non andrà a genio a molti. Non importa perché non ho da piacere a nessuno. Sono del tutto convinto che la verità non stia mai tutta solamente da una parte e nessuno la possieda completamente. Ci sono sempre ragioni da una parte e dall’altra.

Solo nell’ascolto reciproco, nell’attenzione all’altro, nel venirsi incontro si trova la soluzione ai problemi. A Pistoia questo è possibile? A volte, sinceramente mi pare proprio di no. Eppure io credo che dobbiamo tutti sforzarci di fare un passo indietro e ragionare, senza farci prendere dall’emotività o, peggio, dai risentimenti.

Chi è credente in Gesù Cristo sa bene che non possiamo accusarci l’un l’altro di essere lontani da Lui, ma solo correggerci fraternamente perché tutti impariamo a seguirlo sempre di più laddove egli ha voluto essere: nella Chiesa, nella sua parola, nei sacramenti, nel volto dei poveri come i migranti che vengono da noi in cerca di futuro per la loro vita.

Vorrei allora che ci domandassimo: ma tutta questa storia, la vicenda di Vicofaro, da quando l’anno scorso iniziò sui social, ci ha portato ad essere migliori? Ha condotto a migliorare questa città? Ha fatto aumentare il numero delle persone solidali e aperte agli altri? Ha fatto crescere in questa città il senso di una fraternità accogliente? Ha permesso una vera integrazione degli ospiti accolti? Onestamente, mi pare proprio di no. È aumentata l’intolleranza; nel quartiere qualcuno è giunto all’esasperazione; nel frattempo le posizioni si sono soltanto radicalizzate e politicizzate, tant’è che sembra di esser tornati al tempo dei Panciatichi e dei Cancellieri. Manca solo che ci si cominci ad accoltellare l’un l’altro. E’ questo che vogliamo? Ci pare che si possa costruire qualcosa di bello in questo modo? Vogliamo arrivare alla guerra? L’unica cosa da fare è “chiamare alle armi”?

Credo piuttosto che dovremmo tutti interrogarci sulle nostre responsabilità e su cosa possiamo fare in positivo perché Vicofaro diventi davvero un luogo di speranza e non di scontro; di unione e di pace e non occasione di divisione e di contrasti, un laboratorio di civiltà e di convivenza e non un terreno di lotta.

Molto può fare don Massimo, sicuramente. Molto dipende da lui. Non voglio dire di più. Credo che se ne stia rendendo sempre più conto. Non è in discussione l’accoglienza. Quelli che la mettono in discussione, lo dico chiaramente, sbagliano di grosso. Vorrei che costoro capissero che l’accoglienza è un valore grande, profondamente umano e cristiano. Vorrei che non si facessero confondere le idee da slogan, luoghi comuni o ben congegnate falsità. L’accoglienza vera però mira all’integrazione. Richiede attenzione alle persone e al luogo dove si realizza; deve riuscire a intavolare un dialogo costruttivo con i nostri ambienti, con tutti i settori della nostra società; deve cercare di superare pregiudizi e paure, facendo crescere la conoscenza e la relazione tra le persone; con pazienza, dolcezza, positività. Deve essere sempre “accompagnata” e mettendo in atto un processo educativo che insegni anche il rispetto per gli usi, le tradizioni, i valori del popolo in cui si è accolti.

Oltre a don Massimo, possono fare qualcosa anche chi sta attorno a lui, aiutandolo a migliorarsi, a porsi nel modo giusto nei confronti della gente del quartiere, delle autorità, della comunità parrocchiale.

Possono fare qualcosa anche i politici. Sì: star fuori da Vicofaro. Lo dico chiaramente. A Vicofaro non si combatte una battaglia tra schieramenti politici; tra chi è a favore del governo e chi è contro. Non può essere l’occasione per condurre lotte partitiche. L’esperienza di Vicofaro è nata dentro una parrocchia quale segno dell’attenzione della chiesa al mondo dei migranti e questo deve rimanere, non può snaturarsi. E questa è anche una mia precisa responsabilità.

Potrebbe fare qualcosa anche il governo. Si, il governo. Nazionale e locale. Alla fine, in ultima istanza, è a chi governa che si può attribuire quanto accaduto l’altra sera. Purtroppo mi pare che se il governo precedente ci ha dato una pessima gestione del fenomeno migratorio, giocata tutta o esclusivamente sull’emergenza, l’attuale si sta muovendo in una linea dura di rigore che non è ragionevole e rischia di offrire obiettivamente spazio a sentimenti razzisti e xenofobi indegni dell’uomo e del nostro paese. Ma i governi, in un paese democratico, li scelgono in buona sostanza i cittadini con il voto; quindi non è lamentandosi che si cambiano le cose ma acquisendo consensi attorno a valori e scelte più confacenti alla dignità umana.

Potrebbero infine fare qualcosa anche i mezzi di comunicazione, se cercassero di abbassare i toni e invitassero alla ragione. Se spegnessero un po’ i riflettori su Vicofaro e non inseguissero o, peggio, creassero la notizia che fa più rumore. Se mettessero invece sempre più in luce le cose positive che sono presenti nel nostro territorio e che ci permettono di sperare in una risoluzione dei problemi e in un futuro migliore di questa città.

Credo che tutti vogliamo che Pistoia sia una città di pace, bella, accogliente, multietnica e al tempo stesso sicura e ben custodita, che cresce e prospera attraverso l’apporto sereno di tutti. E allora, lavoriamo tutti generosamente per questo. Per questo diamoci da fare, insieme.

Mons. Fausto Tardelli – vescovo di Pistoia




Mons. Tardelli: «una sinfonica costellazione di spunti di riflessione»

Pubblichiamo l’intervento di Mons. Tardelli pronunciato in  occasione dell’apertura della rassegna teologica “i linguaggi del divino”, venerdì 5 ottobre presso il Battistero di San Giovanni in Corte.

Discorso in apertura della rassegna teologica (5 ottobre 2018)

Con stasera inizia la II° edizione de’ “I linguaggi del divino”. In realtà, si tratta della XXXI edizione della storica “settimana teologica” pistoiese, perla preziosa della nostra chiesa. Dopo l’edizione straordinaria 2017, che celebrava il trentennale della sua istituzione, all’interno dell’anno in cui Pistoia è stata capitale italiana della cultura, riprendiamo adesso il cammino per così dire “ordinario” ma con importanti novità. A Dio piacendo, continueremo anche negli anni prossimi, sempre nel mese di ottobre.

Con l’anno scorso sono state apportate diverse novità che in gran parte ritroviamo nell’edizione 2018. Credo che ce ne fosse bisogno, per non perdere nell’abitudine il molto di buono che era stato fatto e insieme per aggiornarci ai tempi nuovi, complessi, liquidi, difficili, contraddittori ma anche ricchi di opportunità e nuove sfide. C’è oggi necessità più che mai di darsi tempo per ascoltare e per riflettere, ma anche per spaziare su orizzonti larghi che coinvolgano non solo la mente ma anche il cuore, la persona nel suo complesso. La formula adottata l’anno scorso ha avuto successo; è piaciuta; è stata molto partecipata, a volte di più a volte di meno, ma sempre a un buon livello. Abbiamo portato la riflessione in vari luoghi della città, unendo il pensiero che nutre la mente alla contemplazione del bello che arricchisce straordinariamente la nostra città e testimonia della fecondità della fede cristiana.. Abbiamo poi corredato la rassegna teologica di qualche altro appuntamento di variegata forma espressiva. Insomma, siamo rimasti molto soddisfatti. Voglio qui ringraziare i tanti che hanno collaborato a pensare, impostare e organizzare “I linguaggi del divino” nella edizione del trentennale. L’apporto è continuato anche per l’edizione di quest’anno. Un apporto corale che ha dato i suoi buoni frutti, permettendo a mio parere di offrire davvero un bel percorso e di qualità, sia per il tema individuato che per i relatori, come per gli appuntamenti di contorno allestiti. Quest’anno, pur in un tempo più contenuto, solo il mese di ottobre cioè, abbiamo pensato di proseguire con la formula dell’anno scorso.

L’obiettivo che si prefigge questa rassegna teologica non è tanto quello di dettare una “linea” teologica e pastorale alla diocesi o di svolgere un tema “accademico” distante dalla vita. Piuttosto quello di fornire una sinfonica costellazione di spunti di riflessione teologica, a partire dal vissuto esistenziale delle persone, dalle attese, dai bisogni, dalle ansie di noi uomini e donne del nostro tempo; ripercorrendo le domande che stanno alla base del vivere e sulle quali si innesta la proposta cristiana. L’intento è quello di offrire uno “spazio” non soltanto fisico, ma intellettuale e spirituale a quel “quaerere Deum” , quel movimento di ricerca di Dio, suscitato dallo stesso Spirito Santo, che è l’anima della edificazione di una città umana a misura d’uomo e insieme aperta verso l’infinito, come ebbe a dire Papa Benedetto XVI° in una memorabile lezione sul monachesimo e l’Europa nella scuola dei Bernardins a Parigi qualche anno fa.

Vorrei spendere ora qualche breve parola sul tema de “I linguaggi del divino di quest’anno”: rinascere dall’alto. Un tema che si riallaccia a quello degli orientamenti pastorali diocesani che ci siamo dati nel triennio che sta per concludersi. Orientamenti che – come ben sapete – portano significativamente il titolo “Sulle ali dello Spirito. Il padre, i poveri, la comunità fraterna e missionaria”. Le “ali dello Spirito” sono quelle che appunto ci fanno rinascere dall’alto e ci conducono in alto verso la nostra piena dignità di figli di Dio, coeredi con Cristo del Regno dei cieli.

Rinascere dall’alto. Sono le parole che Gesù rivolge a Nicodemo quando quest’uomo, un fariseo, va da lui di notte. Lo muove la curiosità e forse una certa inquietudine interiore. Inizia un dialogo nel quale Nicodemo è per così dire “costretto” a entrare in una dimensione diversa da quella dalla quale è partito. È un uomo invecchiato, Nicodemo, ma non è solo una questione d’età. C’è un indurimento che vuol dire chiusura, rinuncia alla ricerca, roccaforte, sicurezze posticce. Nel colloquio con quest’uomo, Gesù, secondo la narrazione giovannea, richiama parole che hanno il sapore di un vocabolario fondamentale della vera vita, quella che rinasce sempre e non muore. Parole ‘originarie’, che fanno parte della vicenda dell’uomo, ma che – allo stesso tempo – assumono una densità sorprendente. «Rinascere», «Dall’alto», «Lo Spirito». La vita secondo lo Spirito è una nuova vita, quella dei redenti, dai battezzati innestati in Cristo. Una nuova vita che cerca, desidera altro e si avvia su cammini diversi da quelli del mondo e della “carne”. «Carne». Ecco un’altra parola chiave. L’edizione dei linguaggi del divino 2018 intende prendere sul serio questo vocabolario.

Mi piace qui richiamare le parole di Papa Francesco, nella recente Esortazione apostolica “Gaudete et Exultate”. Un documento a mio parere ben presto passato nel dimenticatoio, tant’è che non se ne sente quasi più parlare. Testimonianza evidente della selettività con lui i mezzi di comunicazione approcciano Papa Francesco, la sua persona e il suo insegnamento. Cosa che non gli rende senz’altro un buon servizio. Dice appunto Papa Francesco al n. 15 della “Gaudete et exultate”, rivolgendosi a ciascuno di noi personalmente: «Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, “come una sposa si adorna di gioielli” (Is 61,10)». E ancora Papa Francesco al n. 21 della stessa Esortazione apostolica: «Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. In definitiva, è Cristo che ama in noi, perché “la santità non è altro che la carità pienamente vissuta”. Pertanto, “la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua”. Così, ciascun santo è un messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo».

Ecco, approfondire queste cose; percepirne la corrispondenza con le inquietudini e i desideri profondi del nostro cuore; imparare a sognare e a costruire un mondo dove si rinasce dall’alto ogni giorno e si è capaci di incontrarci nella novità dell’amore: questa è la proposta che si dipana con una pluralità di prospettive contenuta nel percorso de “I linguaggi del divino” di quest’anno. E abbiamo scelto di iniziare proprio qui, in questo battistero di San Giovanni in corte. Terminato nel 1361, ci son voluti quasi sessant’anni per costruirlo ed è l’ultimo degli antichi battisteri monumentali presenti in diverse città italiane. Conserva ancora questa magnifica vasca battesimale, segno palese della rinascita dall’acqua e dallo Spirito. C’era forse luogo più significativo e bello di questo battistero per parlare di “rinascita dall’alto”? Un luogo simbolo, proprio della rinascita dall’alto ad opera dello Spirito. Luogo che si erge al centro della città e va su in alto, quasi ad indicare la necessità per la città stessa di rinascere ogni giorno dall’alto, per essere città a misura e degna dell’uomo?

Ancora un’ultima parola per dire grazie all’Abate di San Minato al Monte che ha accettato di venire tra noi, l’abate Bernardo. Lo seguiamo con affetto e con attenzione mentre da quell’abbazia millenaria sopra Firenze si spande una luce di bellezza, di spiritualità, di cultura e di fede che è diventata sempre più punto di riferimento per tante persone, credenti e non, in ricerca della verità e della pace. È una gioia averlo tra noi e lo ringraziamo davvero di cuore.

+ Fausto Tardelli, vescovo

(foto di Mariangela Montanari)




Lettera pastorale: il vescovo la racconta in un video

In onda su TVL per la trasmissione Ora Insieme,  una sintesi della lettera pastorale di Mons. Tardelli : “una comunità fraterna e missionaria“.

Nel video mons. vescovo illustra i contenuti della lettera pastorale accanto alle voci di don Cristiano d’Angelo, vicario per la pastorale, giovani e laici impegnati in parrocchia.  L’invito a riscoprire la fraternità, un rinnovato slancio missionario, l’impegno per crescere nella sinodalità, l’attenzione ai giovani: questi i temi discussi nella trasmissione che permette di avere uno sguardo di sintesi, ma anche alcuni spunti di riflessione e provocazioni sul tema dell‘anno pastorale 2018/2019.

La puntata di Ora Insieme, a cura dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Diocesi, è stata realizzata da Daniel Giusti.

Il filmato è disponibile su youtube, nel canale della Diocesi di Pistoia.

Ora Insieme può essere considerata la più antica trasmissione di Tvl, nata per dare la parola agli ultimi con un filo diretto con la vita della Fondazione MAiC. Spesso, infatti, protagonisti della trasmissione, curata di Don Diego Pancaldo e Elena Allegri, sono ragazzi diversamente abili. Da Ora Insieme sono passati e passano ogni settimana personaggi e testimoni di livello nazionale e internazionale, per parlare di fede, cultura e disabilità.

https://www.tvl.it/programmi/ora-insieme




Disposizione del vescovo: pregare il rosario per la Chiesa

Disposizione del vescovo di Pistoia

Rispondendo all’appello del Santo Padre Francesco chiedo alle parrocchie e comunità cristiane della diocesi come pure ai singoli fedeli, che ogni giorno, durante tutto il mese mariano di ottobre si reciti a gruppi o singolarmente il Santo Rosario con l’intenzione data dallo stesso Papa: “chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi.”

Al termine del Santo rosario, recitato in gruppo o singolarmente, sempre su suggerimento di Papa Francesco, si aggiungano le preghiere “Sub tuum praesidium” rivolta alla Vergine Santa e “Sancte Michael Archangele” rivolta a San Michele.

Sub tuum praesidium

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta.

Sancte Michael Archangele

San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen.

Pistoia, 29 settembre 2018

+Fausto Tardelli




Lettera del vescovo alla diocesi di Pistoia

Venerdì 21 settembre l’apertura dell’anno pastorale con il pellegrinaggio diocesano al Santuario della Madonna di Valdibrana

Carissimi fedeli della Diocesi,

la Madonna detta “di Valdibrana” ci aspetta!

Come già preannunciato, venerdì 21 settembre prossimo, da tutte le parrocchie della diocesi ci muoveremo in pellegrinaggio verso il nostro Santuario diocesano, dove si venera l’antica immagine della Madonna di Valdibrana. Spero davvero che ci sia una larga e sentita partecipazione. Ho voluto questo pellegrinaggio per esprimere l’attaccamento della nostra chiesa locale a Maria Santissima. Ci teniamo a Lei; per noi è madre e sorella; fulgido esempio di ciò che è chiamata ad essere la chiesa; consolazione nel cammino della vita e sostegno nella sequela amorosa ed esigente di Cristo.

Ho desiderato questo pellegrinaggio diocesano per affidare in modo del tutto particolare alla Madonna di Valdibrana, tutta la nostra chiesa: i laici tutti, le religiose e i religiosi, i presbiteri, i diaconi, i nostri seminaristi. Tutti coloro che soffrono e son in mezzo alle difficoltà, i nostri fratelli immigrati che sono tra noi in cerca di un futuro migliore, i nostri anziani e i nostri giovani e in modo tutto speciale le nostre famiglie.
Alla Madonna affidiamo anche il nostro anno pastorale, dedicato alla “comunità fraterna e missionaria”. Per questo, il 21 settembre daremo anche inizio ufficiale all’anno pastorale, con il mandato ai catechisti e ai vari responsabili parrocchiali.

Che ci si muova da ogni angolo della diocesi per convenire nel santuario di Valdibrana è un bel segno di comunione e di quel “camminare insieme” che è ciò che ci prefiggiamo di fare, in quello stile e pratica sinodale che è caratteristica tipica della chiesa. Il pellegrinaggio sarà l’occasione per benedire la nuova, grande aula liturgica che è stata costruita accanto al Santuario e per inaugurare anche i locali annessi. Ambienti che sono a servizio della diocesi e offrono belle opportunità di incontro e di formazione.

A tal proposito chiedo anche ad ogni parrocchia un gesto di generosità: un contributo economico perché si possano ripianare al più presto i debiti fatti per realizzare quest’opera di utilità comune. Chiedo quindi a tutte le parrocchie un impegno straordinario il cui frutto deporremo proprio il 21 prossimo ai piedi della Madonna di Valdibrana.

Ogni parrocchia può organizzarsi come meglio credere, scegliendo la modalità di pellegrinaggio che ritiene più opportuna.

La celebrazione eucaristica inizierà alle 21.30 nella nuova aula liturgica.
Alle 20.00, per tutti coloro che vi si vorranno unire, partirà dal nuovo parcheggio un breve pellegrinaggio che girando dietro la chiesa di San Romano raggiungerà il Santuario per la S.Messa.

Prima della celebrazione, a partire dalle ore 20.00, ci sarà la possibilità di confessarsi presso lo stesso Santuario.

Cercate di non mancare e anche coloro che non potranno venire si uniscano quella sera in preghiera, per i bisognosi, per la conversione dei peccatori, per la nostra chiesa, per un mondo di giustizia e di Pace.

Pistoia, 1 settembre 2018
+ Fausto Tardelli


La lettera pastorale del Vescovo Tardelli “L’anno della comunità fraterna e missionaria” è disponibile presso la Libreria San Jacopo in via Puccini 32, oppure presso la segreteria degli Uffici Pastorali (Sig.ra Daniela, Seminario Vescovile, Via Puccini, 36). Il testo può essere scaricato anche in pdf dal sito web diocesano.




Tardelli: Fedeltà al Signore e discernimento per sognare in grande con i piedi per terra

Riprendiamo dal Corriere Fiorentino di venerdì 24 agosto il testo integrale dell’intervista di Paolo Ceccarelli al vescovo di Pistoia Fausto Tardelli «L’accoglienza non sia ideologia, ma chi chiude non è un cristiano». 

Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. 

Da Camaldoli il Movimento ecclesiale di impegno culturale lancia l’allarme sullo svuotamento della democrazia. Un tema su cui, ha scritto Riccardo Saccenti, riflette “una minoranza di cattolici italiani” mentre la maggioranza riscopre “una fede identitaria e esclusiva”. Monsignor Tardelli, respira anche lei questa divaricazione tra popolo ed élite cattolici?

Si la respiro, perché è così. Una divaricazione che deve far riflettere e che non va bene. Invece di stare a lamentarsi, sarebbe meglio domandarsi il perché e come sia successo. Non però partendo dalla presunzione che le élite abbiano per forza ragione su tutto e che il popolo della strada o che riempie le chiese sia fatto di gente che non capisce. Ci vuole ascolto sincero e capacità di mettersi in discussione. Occorre sforzarsi di capire i motivi. Forse ci sono domande e attese legittime che non hanno trovato risposta. Forse cose buone sono state comunicate male.

Certo che sono preoccupato per lo svuotamento della democrazia e per la barbarie che avanza. Sono molto preoccupato. Ci sono segnali inquietanti e foschi che non ci fanno stare per niente tranquilli, anche perché vanno oltre l’Italia e attraversano i continenti. Ma non serve fare proclami e gridare “al lupo, al lupo”. Certo occorre anche svegliare le coscienze e vigilare. Anche dire con chiarezza come gli apostoli quando è necessario: “Non possumus”. Soprattutto però bisogna costruire dal basso una nuova società e con molta umiltà e fatica compiere una vasta e capillare opera di educazione anche ecclesiale, soprattutto nei confronti dei e coi giovani, verso i quali abbiamo completamente fallito. Perché a preoccupare e tanto, non sono solo le uscite di questo o di quello, bensì il consenso che vi si coagula attorno.

Ma secondo lei quali devono essere le risposte della Chiesa alla rivolta politica e sociale anti establishment in moto in quasi tutto l’Occidente?

La chiesa deve convertirsi al suo Signore. Lo ha richiamato anche Papa Francesco nella sua recente lettera al popolo di Dio per le nefandezze della pedofilia: preghiera e digiuno. La Chiesa deve concentrarsi su Gesù Cristo che è il suo sposo e il suo Signore, accettando l’umiliazione di riconoscersi peccatrice in tante sue membra ma anche annunciandolo senza vergogna come la Via, la Verità e la Vita. Solo così sarà luce e sale.

Il problema principale della chiesa è la fedeltà al suo Signore, alla Verità fatta amore e all’amore reso autentico dalla Verità, non altro. Anche se ritengo che la Chiesa di oggi sia migliore di quello che sembra o di come la si dipinge, c’è bisogno di una profonda conversione e di una solida formazione cristiana, a partire da noi vescovi e preti, perché c’è sporcizia nella chiesa, c’è lassismo, mondanità, travisamento della fede trasmessa dagli apostoli, superficialità, indisciplina e, cosa più grave di tutte, mancanza di amore.

In questa profonda conversione, la chiesa deve anche imparare a leggere i “segni dei tempi”; non quelli che si pensa già di conoscere: quelli piuttosto che vengono fuori dal tempo che stiamo vivendo. Non può quindi per es. non osservare con attenzione questa rivolta che viene dalle persone e dai popoli contro una globalizzazione che cancella le identità, che ci vuole tutti intercambiabili e asettici, tutti uguali solo perché appunto senza identità, sottoposti a una burocrazia che ci amministra e alla finanza mondiale che oltre a non dare lavoro, ci vuole senza ideali, senza onore e dignità, senza patria, senza Dio, liberi solo di appagare i nostri istinti.

Uno dei cavalli di battaglia dei sovranisti è ovunque nel mondo quella contro i migranti. Papa Francesco ha perduto in popolarità anche tra i cattolici per le sue parole a favore dell’accoglienza, secondo un sondaggio realizzato da Demos per Repubblica. La Chiesa rischia di perdere contatto con il suo popolo proprio sul messaggio evangelico dell’accoglienza?

Il cristiano non si può dimenticare delle parole di Cristo: ero forestiero e mi avete accolto. La chiesa è un popolo formato da genti e culture diverse, dove l’accoglienza reciproca è legge. Al fondo, questo è chiaro. Molte delle nostre parrocchie sono guidate da africani o comunque da preti provenienti da altri continenti, immigrati pure loro. Se un cristiano è contro l’accoglienza di chi è in difficoltà o nel bisogno, semplicemente non è cristiano e farebbe bene a farsi un bell’esame di coscienza. Resta il fatto che occorre impegnarsi per fargli cambiare mentalità e non semplicemente condannarlo. Comunque, se non condivide, è libero di andarsene. Anche se ci dispiace, non ci fa paura rimanere in pochi.

La chiusura dunque non è accettabile. Bisogna però riconoscere che qualcuno ha fatto dell’immigrazione una questione ideologica, non umanitaria. Inoltre non si è voluto capire che la cosa andava organizzata in un modo diverso e non puramente emergenziale, perchè l’obiettivo è l’integrazione. Si è dato a intendere che tutto fosse chiaro nei flussi migratori, in particolare quelli che ci interessano da vicino, quelli cioè di giovani provenienti dall’Africa, anzi, da una certa parte dell’Africa; non si è spinto a sufficienza per una soluzione internazionale ed europea del problema e, a volte, anche le parole del Papa, sempre molto chiare, sono invece state strumentalizzate, finendo in modo manipolato nei vari organi di comunicazione.

Quanto al sondaggio di Repubblica, ci andrei molto piano a dire che il papa paga per la sua posizione sui migranti…. Si tratta di una opinabilissima interpretazione dei dati. Pressappochismo, lo definirei…. Quando Papa Benedetto perdeva consensi, per cosa pagava, allora?

A Pistoia e anche fuori hanno fatto discutere alcune uscite pubbliche di don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro divenuto famoso per la foto in piscina con alcuni profughi. Da vescovo come ha vissuto le polemiche che ne sono seguite?

Le ho vissute con grande dolore. Primo perché contro un sacerdote che pur con i limiti che tutti abbiamo cerca di aiutare il prossimo in difficoltà, ho visto scatenarsi una montagna incredibile di insulti e di odio, persino con vere e proprie minacce e l’assurda pretesa di controllo da parte di forze politiche di estrema destra – cose tutte assolutamente inaccettabili e che mi hanno rattristato non poco; secondo, anche perché ritengo che l’uso abituale della provocazione non serva assolutamente a niente, non costruisca ponti e non faccia cambiare idea ad alcuno. Inoltre, l’esposizione mediatica è l’ultima cosa che aiuta l’integrazione dei giovani immigrati, i quali hanno bisogno piuttosto di tranquillità e serenità per trovare la propria strada in pace.

Non c’è il rischio che alcune provocazioni fatte in nome dell’accoglienza danneggino anche la causa dei migranti?

Si, dal mio punto di vista, si. Bisogna cercare di risolverli, i problemi delle persone, non acuirli. Se l’obiettivo è, come io ritengo, l’integrazione, ci si deve domandare che cosa la favorisca e cosa invece la ostacoli, operando con pazienza per superare gli ostacoli e per renderla possibile.

Lei ha più volte richiamato i cattolici all’impegno in politica. Ma concretamente questo impegno come deve realizzarsi? Pensare a una nuova Dc nel 2018 sembra una forma di antiquariato…

Come ho avuto modo di scrivere recentemente, le difficoltà sono grandi e non ci sono strade già segnate o scorciatoie. Si tratta di costruire un tessuto, una trama sociale. Prioritario ritengo che i cattolici – riscoprendo la propria identità – si parlino, si confrontino, senza anatemi reciproci, nel rispetto, nel dialogo, alla ricerca di ciò che è giusto e possibile oggi per il bene comune.

Bisogna anche imparare a leggere la realtà mutevole dei nostri giorni; misurandosi con essa così com’è e sforzandosi di trovare prospettive di pensiero e di azione, facendo tesoro delle numerose e belle esperienze di prossimità già presenti silenziosamente ma efficacemente nel territorio nazionale. Coltivando cioè un sogno, un progetto; un progetto però che sia anche un metodo applicabile, un modo, uno stile basato sul discernimento, fatto di idee grandi e tradotto in cose concrete e possibili già oggi, fecondato dalla dottrina sociale della chiesa, aperto a tutti anche ai non cattolici, soprattutto sognato e costruito ogni giorno insieme alle nuove generazioni, capace quindi di scaldare il cuore dei giovani. Infine, cosa non meno importante, attorno al quale saper costruire con tenacia e determinazione un consenso capillare e convinto.




Giovani in cammino verso Roma e verso Cristo. Le parole del vescovo Tardelli ai giovani toscani

«Siamo in cammino, carissimi giovani», verso Roma e «verso Cristo, per essere afferrati e conquistati da Lui». Giovani in cammino per «realizzare un mondo nuovo, migliore di quello che conosciamo», giovani in cammino per vincere la «globalizzazione dell’indifferenza» e imparare a a discernere la propria vocazione.

Così il vescovo Tardelli nell’omelia rivolta ai giovani toscani arrivati a Pistoia per una giornata di condivisione e preghiera. La tappa pistoiese, infatti, ha raccolto i pellegrini prima della partenza verso Roma per l’incontro dei giovani italiani con papa Francesco. Nella chiesa di San Francesco, venerdì 10 agosto Mons. Fausto Tardelli, insieme ad altri vescovi toscani, ha celebrato la santa Messa con oltre 300 giovani.

Un incontro, ha ricordato il vescovo nell’omelia, che si è svolto nel segno di san Jacopo, il santo patrono della città; il Santiago che ha trasformato Pistoia in un centro di pellegrinaggio e di accoglienza. «Una sosta importante; non a caso a Pistoia – ha affermato il vescovo – perché la cattedrale di questa città custodisce da tanti secoli, dal 1145 per la precisione, una reliquia dell’apostolo Giacomo, ricevuta direttamente da Santiago di Compostela, dove sono i resti mortali dell’apostolo Giacomo. Pistoia, chiamata la Santiago minor, custodisce la memoria preziosa di un grande apostolo, e per questo motivo è stata meta di pellegrinaggio, punto di partenza per il cammino; sosta di passaggio per raggiungere Roma, oppure la stessa Santiago».

Nell’omelia il  vescovo ha toccato il tema del discernimento vocazionale, in linea con il tema del prossimo sinodo dei Giovani: «Papa Francesco – ha ricordato – vi ha invitato a ripensare la vostra vita, a fare discernimento, cioè a comprendere la chiamata che Dio vi fa. Ognuno infatti ha una chiamata da Dio, non è venuto al mondo per caso. Ognuno di noi è chiamato in modi diversi e originali, alla santità che è la pienezza dell’amore».

Le parole di Mons. Tardelli, in tempi di emergenza educativa, scommettono sui giovani, e li invitano a prendere in mano la propria esistenza, senza sprecarla, ad impegnarsi per un mondo diverso, lasciando che la fede nel Signore la faccia fiorire.  «Camminare esprime il desiderio e la voglia di realizzare qualcosa che valga per davvero, di dare un senso pieno alla propria esistenza»,  e anche quando si sperimenta il fallimento e la caduta, la tentazione di fermarsi: «Voi, in questi giorni, con il vostro camminare pronunziate una parola di speranza: state dicendo che la vita va vissuta, che la vita è comunque bella; che non ci si può arrendere nel pianto, ma ci si deve rialzare e riprovare sempre. Perché non c’è sconfitta che ci possa abbattere definitivamente; non c’è contrarietà o difficoltà che ci possa o ci debba fermare» e «agli occhi di Dio non conta il successo delle nostre imprese».

Il vescovo, ricordando la figura di San Jacopo, ha anche ricordato come da secoli sia «legata al sorgere di luoghi di accoglienza, ospitalità, veri e propri ospedali. E allora carissimi amici, continuiamo a camminare dietro al Signore, sulle orme dei santi, imparando a servire e ad amare come Lui».  «Non ci è permesso voltarci dall’altra parte! Non ci è permesso farci prendere da quella che Papa Francesco ha più volte stigmatizzato, come la globalizzazione dell’indifferenza. Le persone che attendono, che hanno bisogno di una mano amica e fraterna, addirittura in certi casi solo per sopravvivere, sono molte. Qui da noi e nel mondo».

Infine l’invito a chiedere a San Jacopo, di cui i giovani pellegrini hanno venerato la reliquia in Cattedrale nel pomeriggio, la grazia di vivere «tre semplici ma grandi cose: una fede forte, coraggiosa e gioiosa, da veri innamorati di Cristo; un cuore aperto e generoso che vede, sente e opera per il bene degli altri; infine la saggezza del discernimento, per scoprire quale sia il vostro posto nel mondo secondo la vocazione che Dio vi ha dato».

Il vescovo, dopo il saluto ai pellegrini in partenza, sabato 11 agosto si dirigerà a Roma, dove parteciperà all’incontro dei giovani italiani con papa Francesco. Qui incontrerà i pellegrini pistoiesi che parteciperanno all’evento, tra cui il gruppo dell’associazione Maria Madre Nostra, che tra i suoi giovani comprende circa 30 ragazzi con disabilità.

Leggi l’intera omelia.

Stanchi ma felici: migliaia di giovani a Roma per incontrare il Papa

 




I cattolici in politica secondo Mons. Tardelli

CATTOLICI IN POLITICA: IL BENE INTEGRALE DELLA PERSONA AL CENTRO DI UN RINNOVATO IMPEGNO

Una riflessione a tutto campo del vescovo di Pistoia. Criticità, punti fermi e proposte per una stagione complessa ma stimolante.

Il card. Bassetti, presidente della CEI, ha rivolto recentemente un appello all’impegno politico dei cattolici.
Lo aveva già fatto in altre occasioni e ritengo che vada preso molto sul serio. Mi domando però se nei cattolici italiani ci siano oggi punti di riferimento chiari, tali da motivare e dare sostanza al loro impegno politico. Mi domando quali siano, ma anche quali dovrebbero essere. Non credo che il problema stia nel fatto che si consideri la politica in se stessa qualcosa di “sporco” da cui il cristiano dovrebbe stare alla larga. Semmai c’è un giudizio negativo sulla politica praticata dai politici, ma questo è un discorso diverso.

Il problema mi pare invece un altro: ci sono ancora dei cattolici che sappiano cosa voglia dire esserlo? Ci sono ancora cattolici che abbiano un pensiero politico coerente e -cosa altrettanto importante- sappiano leggere la realtà alla luce di quel pensiero, trovando soluzioni politiche praticabili, offrendo inoltre una credibile testimonianza personale?

Non mi pare nemmeno del tutto vero che chi va in chiesa o almeno fa in qualche modo riferimento alla chiesa, si disinteressi di politica o non esprima col voto le sue idee. La maggior parte se ne occupa eccome di politica, e vota. Altrimenti non avremmo certi risultati elettorali, sia riguardo le amministrazioni locali oppure il governo del paese, con queste percentuali di affluenza alle urne. Forse qualcuno pensa che i cattolici si siano astenuti in massa o che non abbiano contribuito all’incremento dei partiti e delle coalizioni che hanno avuto più voti nell’ultima tornata elettorale?

COERENZA TRA IMPEGNO POLITICO E CRISTIANO

Il problema dunque è un altro: cioè che cosa si vota, quali scelte politiche si fanno e soprattutto sulla base di che cosa si sceglie. È quello cioè, della coerenza tra fede e scelte politiche; tra convinzioni di fede e impegno politico, dove il primo problema, a mio parere, è proprio la fede e le convinzioni di fede: dove sono? Quali sono?
C’è anche un altro elemento da non sottovalutare e da interpretare: un certo scollamento tra i sentimenti e le scelte politiche della maggioranza dei cattolici e quelle rappresentate dal cosiddetto “cattolicesimo democratico”. Sembra che la base cattolica non si ritrovi in quelle linee. Il grande Papa Paolo VI, nella Octogesima Adveniens, al n. 46 diceva che «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» e aggiungeva che «i cristiani, sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e l’evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini». Per i cattolici italiani però, cosa significa «impegno cristiano al servizio degli altri»? Cosa vuol dire «coerenza tra le opzioni e l’evangelo»? Più in generale: cosa dovrebbe caratterizzare l’impegno politico dei cattolici? Personalmente, ho come l’impressione che non lo si sappia o che in merito regni una grandissima confusione. Un po’ per la complessità della situazione e la difficoltà a leggere con obiettività la realtà, un po’ e soprattutto, per la confusione che regna sull’identità cattolica. Forse anche per quello scollamento a cui facevo riferimento, tra la base del popolo cristiano e le istanze del “cattolicesimo democratico” che hanno caratterizzato per lungo tempo l’impegno dei cattolici.

Potrebbe venirci in aiuto la “Nota della Congregazione per la Dottrina della fede circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” del 2002, a firma dell’allora cardinale Ratzinger. In essa si afferma che: «i fedeli laici si devono impegnare a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune, partendo da una retta concezione della persona. Su questo principio – testuali parole- l’impegno dei cattolici non può cedere a compromesso alcuno, perché altrimenti verrebbero meno la testimonianza della fede cristiana nel mondo e la unità e coerenza interiori dei fedeli stessi».

La nota suddetta esemplifica che cosa significhi «retta concezione della persona» e quali conseguenze “politiche” comporti la sua centralità. Riporto qui solo alcuni brani del testo come promemoria, rinviando a una lettura personale integrale. «Quando l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l’impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità.

Dinanzi a queste esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. È questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia; il caso del rispetto e della protezione dei diritti dell’embrione umano; della tutela e della promozione della famiglia, fondata sul matrimonio e diversa da ogni altra forma di convivenza; il caso ancora della libertà di educazione dei genitori; quello della tutela sociale dei minori e della liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù; quello del diritto alla libertà religiosa; quello dello sviluppo per un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà; il caso infine della promozione della pace. Non si tratta di per sé di “valori confessionali”, poiché tali esigenze etiche sono radicate nell’essere umano e appartengono alla legge morale naturale».

La nota riconosce poi la legittimità di un certo pluralismo nelle scelte politiche. «Dalla concretezza della realizzazione e dalla diversità delle circostanze scaturisce generalmente la pluralità di orientamenti e di soluzioni che debbono però essere moralmente accettabili».

IL BENE INTEGRALE DELLA PERSONA

Osservando con attenzione quanto si afferma nella nota, si può ben vedere come tutto ruoti attorno alla difesa e alla promozione del valore della persona umana, a qualsiasi razza o cultura appartenga, senza discriminazioni di sorta, a partire da coloro che sono più svantaggiati e dal momento del concepimento fino alla morte naturale. Una persona che è considerata intrinsecamente aperta alla trascendenza e agli altri; che comprende la dualità uomo e donna e quindi l’istituto familiare; che ha come connotato imprescindibile la libertà ma anche la responsabilità; che si realizza nella società anche se ha un destino eterno; una persona che ha diritti universali inalienabili, insieme a precisi doveri di rispetto di sé e degli altri, doveri cioè di solidarietà sociale. L’insieme di tutti questi elementi viene a delineare quello che nell’ambito della Dottrina sociale della chiesa è chiamato il “bene comune”.

Sorgono però subito un paio di problemi piuttosto grossi: il primo, che è dirimente, prende corpo in una domanda molto semplice: i cattolici condividono le affermazioni della nota e il suo impianto antropologico? C’è un comune sentire nel merito? C’è convergenza? Non vorrei sbagliarmi ma credo proprio di no. È difficile allora andare da qualche parte, se non si condivide la meta. Se le cose stanno così, anche se dispiace ammetterlo, ciò è dovuto in gran parte al fatto di aver buttato al macero la Dottrina sociale cristiana o – cosa non meno grave – di averla intesa solo come progetto politico. È da tempo che non si cerca di elaborare un pensiero sociale ispirato al Vangelo, ma esso non può nascere che come efflorescenza dell’incontro vivo e vivificante con Cristo, come pienezza di vita in Cristo. È questa la proposta che spesso manca nelle nostre parrocchie e di lì tutto il resto. Soprattutto difficilmente si trova quella formazione permanente, individuale e comunitaria alla vita in Cristo, che è la sola capace di generare prospettive convincenti anche di dedizione all’impegno politico per il bene comune.

Il secondo problema non è meno serio del primo e riguarda l’impostazione dello stesso impegno politico. La nota pone le questioni in termini validi ma piuttosto astratti, deduttivi. In un modo un po’ datato, direi. Oggi si ragiona diversamente e il consenso ricevuto da certe forze politiche lo dimostra. Oggi si parte dal concreto, da quel che si aspettano le persone, cercando quindi risposte ai loro problemi. Per fare politica, in effetti, non si può che partire misurandosi con la realtà, essendo capaci prima di tutto di leggere la società senza abbagli o “occhiali” ideologici.

A mio modesto parere, l’insuccesso elettorale di certe forze politiche è dovuto principalmente all’incapacità di leggere in profondità la realtà, i reali bisogni della gente e i cambiamenti in atto. E il cattolico? Ebbene, da una parte dovrebbe essere in grado di leggere la realtà, intercettando i bisogni reali delle persone, le paure, le ansie, le attese e i sogni; dall’altra, riuscire a dimostrare come quella visione dell’essere umano, della persona e della società, diciamo pure quell’orizzonte antropologico che porta con sé e che gli viene da una ragione illuminata dalla fede, non è astrazione ma luce fondamentale ed efficace, nonché istanza critica del presente, per trovare risposte concrete ai bisogni dell’oggi, nella prospettiva di un futuro migliore. La conclusione del ragionamento fatto fin qui potrebbe essere amara. Se, infatti, da una parte mettiamo l’inconsistenza dell’identità cattolica con relativa confusione nel definirla e dall’altra poniamo l’incapacità di misurarsi davvero con la realtà e non solo con le mode del momento, resta compromessa la possibilità di qualsiasi impegno politico.

UNA NUOVA STAGIONE DI ASCOLTO

Mettiamo allora i remi in barca e chi s’è visto s’è visto? Direi proprio di no. Con molta pazienza e umiltà, credo dovremmo innanzitutto pensare in termini di lungo periodo. Nell’immediato sarebbe già tanto se i cattolici che militano in politica, sia a livello locale che nazionale, riuscissero ad essere critici dall’interno, senza appiattirsi sui luoghi comuni o sugli slogan degli schieramenti a cui si decide di appartenere. Dovremmo poi provare ad ascoltarci e a parlarci liberamente e tranquillamente, pur da versanti opposti, per riscoprire ciò che accomuna i cattolici che vogliano essere tali; tentando di confrontarsi su di una lettura senza pregiudiziali, la più oggettiva possibile, dei fatti, dei problemi, delle attese e delle paure della gente. Partendo intanto col misurarsi, per esempio, su quanto è avvenuto con le ultime elezioni e il governo che ne è venuto fuori. Di primo acchito si potrebbe parlare di un trionfo dell’egoismo, dell’individualismo, della chiusura agli altri. E in gran parte è vero. Non mi pare però azzardato ritenere che al fondo si è manifestato soprattutto un disagio, un malessere, un rifiuto e una voglia di cambiamento che ha coinvolto anche le nuove generazioni e che andrebbe analizzato con attenzione.

È innegabile la dimensione di protesta e il desiderio di provare qualcosa di nuovo del voto del 4 marzo con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi. Però la protesta, lo sconforto, la rabbia, la ricerca di un cambiamento non si possono liquidare facilmente. Sarebbe un grave errore. Non è certo facile interpretare il disagio, la rabbia, la protesta e le aspettative. Dobbiamo però ugualmente interrogarci sulle cause. È una situazione indotta dai mezzi di comunicazione che amplificano e deformano? È la corruzione che, almeno secondo i media, appare dilagante? È la sensazione di insicurezza o la insicurezza reale? È la mancanza di lavoro o l’enorme precariato diffuso oppure ancora il debole sostegno alle famiglie con figli? Forse, perché no, il disagio è provocato anche dall’essere dentro una società liquida, senza punti di riferimento, dove si propugna come un bene la liquidazione di ogni identità, in un relativismo che confonde ogni cosa? E dove forse anche l’accoglienza è intesa da alcuni come negazione del valore della propria identità? Forse c’è anche nausea per le burocrazie europee che non risolvono i problemi? Forse, ancora, si reagisce al fatto che una certa parte politica ha spesso guardato dall’alto in basso il popolo ignorante, rivendicando per sé una superiorità ideale e morale che umilia e provoca?

Tante domande con poche risposte; però non possiamo eluderle. È urgente rifletterci sopra, perché la storia ci insegna che dal non ascoltato disagio delle popolazioni, snobbato, non preso in seria considerazione, spuntano sempre prima o poi scelte autoritarie, che magari avranno il volto cibernetico e affascinante di un algoritmo, ma non per questo meno pericolose e distruttive. Non basta però confrontarsi sulla realtà. Anche se, in questo momento, riuscire ad ascoltarsi e a parlarsi sarebbe già un bel contributo alla nostra povera Italia che rischia di deflagrare in una guerra di tutti contro tutti. Occorre anche, insieme, mettersi con serietà ad approfondire la Dottrina sociale della chiesa, evitando però il rischio di una sua lettura ideologica. La Dottrina sociale infatti è Vangelo vissuto e pensato, lievito dentro la realtà sociale. Poi si dovrebbe tentare di individuare risposte concrete sulla base di uno studio serio dei problemi e di un’altrettanta seria conoscenza e pratica del Vangelo di Gesù.

La stagione che stiamo vivendo credo in ogni caso che sia stimolante per la Chiesa, perché la stimola a rivedere le priorità della sua azione pastorale. Un’azione pastorale che sia quindi centrata per davvero sull’annuncio di Cristo morto e risorto e sulla vita nuova in Cristo, secondo lo Spirito; che valorizzi i carismi di tutti senza elitarismi e nello stesso tempo spinga a “pensare” la società e il mondo nell’orizzonte di un’integrale antropologia cristiana, unendo a questo “pensiero” la pratica dell’attenzione e del servizio alle persone, a partire da quelle più deboli. In questo modo potrebbe davvero sorgere col tempo una nuova bella stagione di impegno politico dei cattolici, capace di catalizzare le forze e i sogni di tanti uomini e donne di buona volontà, liberi e forti. Ce lo auguriamo.

+ Fausto Tardelli, vescovo di Pistoia

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Catechisti in parrocchia: una missione possibile e bella

di Fausto Tardelli, vescovo

In tutte le parrocchie sta finendo l’anno catechistico. Un anno di impegno e di cammino iniziato nel settembre ottobre scorso. Vorrei ringraziare di vero cuore tutti quei laici, in gran parte donne, adulti e giovani che donano il loro tempo con generosità per far crescere nella fede i ragazzi loro affidati. Questi catechisti meritano davvero la riconoscenza di tutta la Chiesa. La fatica è tanta, credo però sia tanta anche la soddisfazione di collaborare alla diffusione del Regno di Dio, aiutando le giovani generazioni ad incontrare il Signore.

L’occasione mi da modo di richiamare tre punti essenziali della catechesi. Non fa male ricordarli proprio al termine dell’anno catechistico e quando già ci si orienta al prossimo.

Il primo obiettivo non può mai essere dimenticato:tutta la comunità è chiamata a aiutare i ragazzi a incontrare il Signore, perché rimangano affascinati da Lui e imparino a vivere con Lui, per Lui e in Lui. Già lo diceva il documento base del rinnovamento della catechesi in Italiana, tanti anni fa, nel 1970: «la catechesi promuove itinerari per una crescita permanente del cristiano, dall’infanzia all’età adulta, avendo come fine l’acquisizione di una mentalità di fede… Cioè educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo». Sono passati molti anni da allora e la situazione è un po’ cambiata. Oggi occorre dare un taglio nuovo alla catechesi: quello kerigmatico. In poche parole, non si può più dare per scontata la fede nei ragazzi e nelle famiglie. Quindi oggi c’è bisogno anche del “primo annuncio”, in modo che la novità di Gesù morto e risorto e del suo Regno d’amore, risuoni nel cuore dei ragazzi e dei genitori.

Il secondo punto importate per la catechesi è la comunità cristiana. Punto dolente ma irrinunciabile. Gli “Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia” dati dai vescovi italiani nel 2014, dal significativo titolo “Incontriamo Gesù”, affermano: «La Chiesa nel suo insieme, e i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Di qui l’impegno a far sorgere e vivere comunità cristiane che facciano della loro esperienza del Dio trinitario il centro del proprio esistere».

Infine il linguaggio. Terzo punto necessario per la catechesi. Cito il documento base senza commentarlo perché non ce n’è bisogno: «la catechesi dovrà servirsi di un linguaggio, che corrisponda alla cultura odierna e sappia far comprendere la Rivelazione agli uomini di oggi. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. La preoccupazione di un linguaggio adatto alla mentalità contemporanea deve essere presente nell’elaborazione dei catechismi, dei testi didattici e più ancora nella catechesi viva».