Tardelli: Fedeltà al Signore e discernimento per sognare in grande con i piedi per terra

Riprendiamo dal Corriere Fiorentino di venerdì 24 agosto il testo integrale dell’intervista di Paolo Ceccarelli al vescovo di Pistoia Fausto Tardelli «L’accoglienza non sia ideologia, ma chi chiude non è un cristiano». 

Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. 

Da Camaldoli il Movimento ecclesiale di impegno culturale lancia l’allarme sullo svuotamento della democrazia. Un tema su cui, ha scritto Riccardo Saccenti, riflette “una minoranza di cattolici italiani” mentre la maggioranza riscopre “una fede identitaria e esclusiva”. Monsignor Tardelli, respira anche lei questa divaricazione tra popolo ed élite cattolici?

Si la respiro, perché è così. Una divaricazione che deve far riflettere e che non va bene. Invece di stare a lamentarsi, sarebbe meglio domandarsi il perché e come sia successo. Non però partendo dalla presunzione che le élite abbiano per forza ragione su tutto e che il popolo della strada o che riempie le chiese sia fatto di gente che non capisce. Ci vuole ascolto sincero e capacità di mettersi in discussione. Occorre sforzarsi di capire i motivi. Forse ci sono domande e attese legittime che non hanno trovato risposta. Forse cose buone sono state comunicate male.

Certo che sono preoccupato per lo svuotamento della democrazia e per la barbarie che avanza. Sono molto preoccupato. Ci sono segnali inquietanti e foschi che non ci fanno stare per niente tranquilli, anche perché vanno oltre l’Italia e attraversano i continenti. Ma non serve fare proclami e gridare “al lupo, al lupo”. Certo occorre anche svegliare le coscienze e vigilare. Anche dire con chiarezza come gli apostoli quando è necessario: “Non possumus”. Soprattutto però bisogna costruire dal basso una nuova società e con molta umiltà e fatica compiere una vasta e capillare opera di educazione anche ecclesiale, soprattutto nei confronti dei e coi giovani, verso i quali abbiamo completamente fallito. Perché a preoccupare e tanto, non sono solo le uscite di questo o di quello, bensì il consenso che vi si coagula attorno.

Ma secondo lei quali devono essere le risposte della Chiesa alla rivolta politica e sociale anti establishment in moto in quasi tutto l’Occidente?

La chiesa deve convertirsi al suo Signore. Lo ha richiamato anche Papa Francesco nella sua recente lettera al popolo di Dio per le nefandezze della pedofilia: preghiera e digiuno. La Chiesa deve concentrarsi su Gesù Cristo che è il suo sposo e il suo Signore, accettando l’umiliazione di riconoscersi peccatrice in tante sue membra ma anche annunciandolo senza vergogna come la Via, la Verità e la Vita. Solo così sarà luce e sale.

Il problema principale della chiesa è la fedeltà al suo Signore, alla Verità fatta amore e all’amore reso autentico dalla Verità, non altro. Anche se ritengo che la Chiesa di oggi sia migliore di quello che sembra o di come la si dipinge, c’è bisogno di una profonda conversione e di una solida formazione cristiana, a partire da noi vescovi e preti, perché c’è sporcizia nella chiesa, c’è lassismo, mondanità, travisamento della fede trasmessa dagli apostoli, superficialità, indisciplina e, cosa più grave di tutte, mancanza di amore.

In questa profonda conversione, la chiesa deve anche imparare a leggere i “segni dei tempi”; non quelli che si pensa già di conoscere: quelli piuttosto che vengono fuori dal tempo che stiamo vivendo. Non può quindi per es. non osservare con attenzione questa rivolta che viene dalle persone e dai popoli contro una globalizzazione che cancella le identità, che ci vuole tutti intercambiabili e asettici, tutti uguali solo perché appunto senza identità, sottoposti a una burocrazia che ci amministra e alla finanza mondiale che oltre a non dare lavoro, ci vuole senza ideali, senza onore e dignità, senza patria, senza Dio, liberi solo di appagare i nostri istinti.

Uno dei cavalli di battaglia dei sovranisti è ovunque nel mondo quella contro i migranti. Papa Francesco ha perduto in popolarità anche tra i cattolici per le sue parole a favore dell’accoglienza, secondo un sondaggio realizzato da Demos per Repubblica. La Chiesa rischia di perdere contatto con il suo popolo proprio sul messaggio evangelico dell’accoglienza?

Il cristiano non si può dimenticare delle parole di Cristo: ero forestiero e mi avete accolto. La chiesa è un popolo formato da genti e culture diverse, dove l’accoglienza reciproca è legge. Al fondo, questo è chiaro. Molte delle nostre parrocchie sono guidate da africani o comunque da preti provenienti da altri continenti, immigrati pure loro. Se un cristiano è contro l’accoglienza di chi è in difficoltà o nel bisogno, semplicemente non è cristiano e farebbe bene a farsi un bell’esame di coscienza. Resta il fatto che occorre impegnarsi per fargli cambiare mentalità e non semplicemente condannarlo. Comunque, se non condivide, è libero di andarsene. Anche se ci dispiace, non ci fa paura rimanere in pochi.

La chiusura dunque non è accettabile. Bisogna però riconoscere che qualcuno ha fatto dell’immigrazione una questione ideologica, non umanitaria. Inoltre non si è voluto capire che la cosa andava organizzata in un modo diverso e non puramente emergenziale, perchè l’obiettivo è l’integrazione. Si è dato a intendere che tutto fosse chiaro nei flussi migratori, in particolare quelli che ci interessano da vicino, quelli cioè di giovani provenienti dall’Africa, anzi, da una certa parte dell’Africa; non si è spinto a sufficienza per una soluzione internazionale ed europea del problema e, a volte, anche le parole del Papa, sempre molto chiare, sono invece state strumentalizzate, finendo in modo manipolato nei vari organi di comunicazione.

Quanto al sondaggio di Repubblica, ci andrei molto piano a dire che il papa paga per la sua posizione sui migranti…. Si tratta di una opinabilissima interpretazione dei dati. Pressappochismo, lo definirei…. Quando Papa Benedetto perdeva consensi, per cosa pagava, allora?

A Pistoia e anche fuori hanno fatto discutere alcune uscite pubbliche di don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro divenuto famoso per la foto in piscina con alcuni profughi. Da vescovo come ha vissuto le polemiche che ne sono seguite?

Le ho vissute con grande dolore. Primo perché contro un sacerdote che pur con i limiti che tutti abbiamo cerca di aiutare il prossimo in difficoltà, ho visto scatenarsi una montagna incredibile di insulti e di odio, persino con vere e proprie minacce e l’assurda pretesa di controllo da parte di forze politiche di estrema destra – cose tutte assolutamente inaccettabili e che mi hanno rattristato non poco; secondo, anche perché ritengo che l’uso abituale della provocazione non serva assolutamente a niente, non costruisca ponti e non faccia cambiare idea ad alcuno. Inoltre, l’esposizione mediatica è l’ultima cosa che aiuta l’integrazione dei giovani immigrati, i quali hanno bisogno piuttosto di tranquillità e serenità per trovare la propria strada in pace.

Non c’è il rischio che alcune provocazioni fatte in nome dell’accoglienza danneggino anche la causa dei migranti?

Si, dal mio punto di vista, si. Bisogna cercare di risolverli, i problemi delle persone, non acuirli. Se l’obiettivo è, come io ritengo, l’integrazione, ci si deve domandare che cosa la favorisca e cosa invece la ostacoli, operando con pazienza per superare gli ostacoli e per renderla possibile.

Lei ha più volte richiamato i cattolici all’impegno in politica. Ma concretamente questo impegno come deve realizzarsi? Pensare a una nuova Dc nel 2018 sembra una forma di antiquariato…

Come ho avuto modo di scrivere recentemente, le difficoltà sono grandi e non ci sono strade già segnate o scorciatoie. Si tratta di costruire un tessuto, una trama sociale. Prioritario ritengo che i cattolici – riscoprendo la propria identità – si parlino, si confrontino, senza anatemi reciproci, nel rispetto, nel dialogo, alla ricerca di ciò che è giusto e possibile oggi per il bene comune.

Bisogna anche imparare a leggere la realtà mutevole dei nostri giorni; misurandosi con essa così com’è e sforzandosi di trovare prospettive di pensiero e di azione, facendo tesoro delle numerose e belle esperienze di prossimità già presenti silenziosamente ma efficacemente nel territorio nazionale. Coltivando cioè un sogno, un progetto; un progetto però che sia anche un metodo applicabile, un modo, uno stile basato sul discernimento, fatto di idee grandi e tradotto in cose concrete e possibili già oggi, fecondato dalla dottrina sociale della chiesa, aperto a tutti anche ai non cattolici, soprattutto sognato e costruito ogni giorno insieme alle nuove generazioni, capace quindi di scaldare il cuore dei giovani. Infine, cosa non meno importante, attorno al quale saper costruire con tenacia e determinazione un consenso capillare e convinto.




Giovani in cammino verso Roma e verso Cristo. Le parole del vescovo Tardelli ai giovani toscani

«Siamo in cammino, carissimi giovani», verso Roma e «verso Cristo, per essere afferrati e conquistati da Lui». Giovani in cammino per «realizzare un mondo nuovo, migliore di quello che conosciamo», giovani in cammino per vincere la «globalizzazione dell’indifferenza» e imparare a a discernere la propria vocazione.

Così il vescovo Tardelli nell’omelia rivolta ai giovani toscani arrivati a Pistoia per una giornata di condivisione e preghiera. La tappa pistoiese, infatti, ha raccolto i pellegrini prima della partenza verso Roma per l’incontro dei giovani italiani con papa Francesco. Nella chiesa di San Francesco, venerdì 10 agosto Mons. Fausto Tardelli, insieme ad altri vescovi toscani, ha celebrato la santa Messa con oltre 300 giovani.

Un incontro, ha ricordato il vescovo nell’omelia, che si è svolto nel segno di san Jacopo, il santo patrono della città; il Santiago che ha trasformato Pistoia in un centro di pellegrinaggio e di accoglienza. «Una sosta importante; non a caso a Pistoia – ha affermato il vescovo – perché la cattedrale di questa città custodisce da tanti secoli, dal 1145 per la precisione, una reliquia dell’apostolo Giacomo, ricevuta direttamente da Santiago di Compostela, dove sono i resti mortali dell’apostolo Giacomo. Pistoia, chiamata la Santiago minor, custodisce la memoria preziosa di un grande apostolo, e per questo motivo è stata meta di pellegrinaggio, punto di partenza per il cammino; sosta di passaggio per raggiungere Roma, oppure la stessa Santiago».

Nell’omelia il  vescovo ha toccato il tema del discernimento vocazionale, in linea con il tema del prossimo sinodo dei Giovani: «Papa Francesco – ha ricordato – vi ha invitato a ripensare la vostra vita, a fare discernimento, cioè a comprendere la chiamata che Dio vi fa. Ognuno infatti ha una chiamata da Dio, non è venuto al mondo per caso. Ognuno di noi è chiamato in modi diversi e originali, alla santità che è la pienezza dell’amore».

Le parole di Mons. Tardelli, in tempi di emergenza educativa, scommettono sui giovani, e li invitano a prendere in mano la propria esistenza, senza sprecarla, ad impegnarsi per un mondo diverso, lasciando che la fede nel Signore la faccia fiorire.  «Camminare esprime il desiderio e la voglia di realizzare qualcosa che valga per davvero, di dare un senso pieno alla propria esistenza»,  e anche quando si sperimenta il fallimento e la caduta, la tentazione di fermarsi: «Voi, in questi giorni, con il vostro camminare pronunziate una parola di speranza: state dicendo che la vita va vissuta, che la vita è comunque bella; che non ci si può arrendere nel pianto, ma ci si deve rialzare e riprovare sempre. Perché non c’è sconfitta che ci possa abbattere definitivamente; non c’è contrarietà o difficoltà che ci possa o ci debba fermare» e «agli occhi di Dio non conta il successo delle nostre imprese».

Il vescovo, ricordando la figura di San Jacopo, ha anche ricordato come da secoli sia «legata al sorgere di luoghi di accoglienza, ospitalità, veri e propri ospedali. E allora carissimi amici, continuiamo a camminare dietro al Signore, sulle orme dei santi, imparando a servire e ad amare come Lui».  «Non ci è permesso voltarci dall’altra parte! Non ci è permesso farci prendere da quella che Papa Francesco ha più volte stigmatizzato, come la globalizzazione dell’indifferenza. Le persone che attendono, che hanno bisogno di una mano amica e fraterna, addirittura in certi casi solo per sopravvivere, sono molte. Qui da noi e nel mondo».

Infine l’invito a chiedere a San Jacopo, di cui i giovani pellegrini hanno venerato la reliquia in Cattedrale nel pomeriggio, la grazia di vivere «tre semplici ma grandi cose: una fede forte, coraggiosa e gioiosa, da veri innamorati di Cristo; un cuore aperto e generoso che vede, sente e opera per il bene degli altri; infine la saggezza del discernimento, per scoprire quale sia il vostro posto nel mondo secondo la vocazione che Dio vi ha dato».

Il vescovo, dopo il saluto ai pellegrini in partenza, sabato 11 agosto si dirigerà a Roma, dove parteciperà all’incontro dei giovani italiani con papa Francesco. Qui incontrerà i pellegrini pistoiesi che parteciperanno all’evento, tra cui il gruppo dell’associazione Maria Madre Nostra, che tra i suoi giovani comprende circa 30 ragazzi con disabilità.

Leggi l’intera omelia.

https://www.agensir.it/chiesa/2018/08/10/stanchi-ma-felici-migliaia-di-giovani-a-roma-per-incontrare-il-papa/

 




I cattolici in politica secondo Mons. Tardelli

CATTOLICI IN POLITICA: IL BENE INTEGRALE DELLA PERSONA AL CENTRO DI UN RINNOVATO IMPEGNO

Una riflessione a tutto campo del vescovo di Pistoia. Criticità, punti fermi e proposte per una stagione complessa ma stimolante.

Il card. Bassetti, presidente della CEI, ha rivolto recentemente un appello all’impegno politico dei cattolici.
Lo aveva già fatto in altre occasioni e ritengo che vada preso molto sul serio. Mi domando però se nei cattolici italiani ci siano oggi punti di riferimento chiari, tali da motivare e dare sostanza al loro impegno politico. Mi domando quali siano, ma anche quali dovrebbero essere. Non credo che il problema stia nel fatto che si consideri la politica in se stessa qualcosa di “sporco” da cui il cristiano dovrebbe stare alla larga. Semmai c’è un giudizio negativo sulla politica praticata dai politici, ma questo è un discorso diverso.

Il problema mi pare invece un altro: ci sono ancora dei cattolici che sappiano cosa voglia dire esserlo? Ci sono ancora cattolici che abbiano un pensiero politico coerente e -cosa altrettanto importante- sappiano leggere la realtà alla luce di quel pensiero, trovando soluzioni politiche praticabili, offrendo inoltre una credibile testimonianza personale?

Non mi pare nemmeno del tutto vero che chi va in chiesa o almeno fa in qualche modo riferimento alla chiesa, si disinteressi di politica o non esprima col voto le sue idee. La maggior parte se ne occupa eccome di politica, e vota. Altrimenti non avremmo certi risultati elettorali, sia riguardo le amministrazioni locali oppure il governo del paese, con queste percentuali di affluenza alle urne. Forse qualcuno pensa che i cattolici si siano astenuti in massa o che non abbiano contribuito all’incremento dei partiti e delle coalizioni che hanno avuto più voti nell’ultima tornata elettorale?

COERENZA TRA IMPEGNO POLITICO E CRISTIANO

Il problema dunque è un altro: cioè che cosa si vota, quali scelte politiche si fanno e soprattutto sulla base di che cosa si sceglie. È quello cioè, della coerenza tra fede e scelte politiche; tra convinzioni di fede e impegno politico, dove il primo problema, a mio parere, è proprio la fede e le convinzioni di fede: dove sono? Quali sono?
C’è anche un altro elemento da non sottovalutare e da interpretare: un certo scollamento tra i sentimenti e le scelte politiche della maggioranza dei cattolici e quelle rappresentate dal cosiddetto “cattolicesimo democratico”. Sembra che la base cattolica non si ritrovi in quelle linee. Il grande Papa Paolo VI, nella Octogesima Adveniens, al n. 46 diceva che «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» e aggiungeva che «i cristiani, sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e l’evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini». Per i cattolici italiani però, cosa significa «impegno cristiano al servizio degli altri»? Cosa vuol dire «coerenza tra le opzioni e l’evangelo»? Più in generale: cosa dovrebbe caratterizzare l’impegno politico dei cattolici? Personalmente, ho come l’impressione che non lo si sappia o che in merito regni una grandissima confusione. Un po’ per la complessità della situazione e la difficoltà a leggere con obiettività la realtà, un po’ e soprattutto, per la confusione che regna sull’identità cattolica. Forse anche per quello scollamento a cui facevo riferimento, tra la base del popolo cristiano e le istanze del “cattolicesimo democratico” che hanno caratterizzato per lungo tempo l’impegno dei cattolici.

Potrebbe venirci in aiuto la “Nota della Congregazione per la Dottrina della fede circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” del 2002, a firma dell’allora cardinale Ratzinger. In essa si afferma che: «i fedeli laici si devono impegnare a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune, partendo da una retta concezione della persona. Su questo principio – testuali parole- l’impegno dei cattolici non può cedere a compromesso alcuno, perché altrimenti verrebbero meno la testimonianza della fede cristiana nel mondo e la unità e coerenza interiori dei fedeli stessi».

La nota suddetta esemplifica che cosa significhi «retta concezione della persona» e quali conseguenze “politiche” comporti la sua centralità. Riporto qui solo alcuni brani del testo come promemoria, rinviando a una lettura personale integrale. «Quando l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l’impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità.

Dinanzi a queste esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. È questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia; il caso del rispetto e della protezione dei diritti dell’embrione umano; della tutela e della promozione della famiglia, fondata sul matrimonio e diversa da ogni altra forma di convivenza; il caso ancora della libertà di educazione dei genitori; quello della tutela sociale dei minori e della liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù; quello del diritto alla libertà religiosa; quello dello sviluppo per un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà; il caso infine della promozione della pace. Non si tratta di per sé di “valori confessionali”, poiché tali esigenze etiche sono radicate nell’essere umano e appartengono alla legge morale naturale».

La nota riconosce poi la legittimità di un certo pluralismo nelle scelte politiche. «Dalla concretezza della realizzazione e dalla diversità delle circostanze scaturisce generalmente la pluralità di orientamenti e di soluzioni che debbono però essere moralmente accettabili».

IL BENE INTEGRALE DELLA PERSONA

Osservando con attenzione quanto si afferma nella nota, si può ben vedere come tutto ruoti attorno alla difesa e alla promozione del valore della persona umana, a qualsiasi razza o cultura appartenga, senza discriminazioni di sorta, a partire da coloro che sono più svantaggiati e dal momento del concepimento fino alla morte naturale. Una persona che è considerata intrinsecamente aperta alla trascendenza e agli altri; che comprende la dualità uomo e donna e quindi l’istituto familiare; che ha come connotato imprescindibile la libertà ma anche la responsabilità; che si realizza nella società anche se ha un destino eterno; una persona che ha diritti universali inalienabili, insieme a precisi doveri di rispetto di sé e degli altri, doveri cioè di solidarietà sociale. L’insieme di tutti questi elementi viene a delineare quello che nell’ambito della Dottrina sociale della chiesa è chiamato il “bene comune”.

Sorgono però subito un paio di problemi piuttosto grossi: il primo, che è dirimente, prende corpo in una domanda molto semplice: i cattolici condividono le affermazioni della nota e il suo impianto antropologico? C’è un comune sentire nel merito? C’è convergenza? Non vorrei sbagliarmi ma credo proprio di no. È difficile allora andare da qualche parte, se non si condivide la meta. Se le cose stanno così, anche se dispiace ammetterlo, ciò è dovuto in gran parte al fatto di aver buttato al macero la Dottrina sociale cristiana o – cosa non meno grave – di averla intesa solo come progetto politico. È da tempo che non si cerca di elaborare un pensiero sociale ispirato al Vangelo, ma esso non può nascere che come efflorescenza dell’incontro vivo e vivificante con Cristo, come pienezza di vita in Cristo. È questa la proposta che spesso manca nelle nostre parrocchie e di lì tutto il resto. Soprattutto difficilmente si trova quella formazione permanente, individuale e comunitaria alla vita in Cristo, che è la sola capace di generare prospettive convincenti anche di dedizione all’impegno politico per il bene comune.

Il secondo problema non è meno serio del primo e riguarda l’impostazione dello stesso impegno politico. La nota pone le questioni in termini validi ma piuttosto astratti, deduttivi. In un modo un po’ datato, direi. Oggi si ragiona diversamente e il consenso ricevuto da certe forze politiche lo dimostra. Oggi si parte dal concreto, da quel che si aspettano le persone, cercando quindi risposte ai loro problemi. Per fare politica, in effetti, non si può che partire misurandosi con la realtà, essendo capaci prima di tutto di leggere la società senza abbagli o “occhiali” ideologici.

A mio modesto parere, l’insuccesso elettorale di certe forze politiche è dovuto principalmente all’incapacità di leggere in profondità la realtà, i reali bisogni della gente e i cambiamenti in atto. E il cattolico? Ebbene, da una parte dovrebbe essere in grado di leggere la realtà, intercettando i bisogni reali delle persone, le paure, le ansie, le attese e i sogni; dall’altra, riuscire a dimostrare come quella visione dell’essere umano, della persona e della società, diciamo pure quell’orizzonte antropologico che porta con sé e che gli viene da una ragione illuminata dalla fede, non è astrazione ma luce fondamentale ed efficace, nonché istanza critica del presente, per trovare risposte concrete ai bisogni dell’oggi, nella prospettiva di un futuro migliore. La conclusione del ragionamento fatto fin qui potrebbe essere amara. Se, infatti, da una parte mettiamo l’inconsistenza dell’identità cattolica con relativa confusione nel definirla e dall’altra poniamo l’incapacità di misurarsi davvero con la realtà e non solo con le mode del momento, resta compromessa la possibilità di qualsiasi impegno politico.

UNA NUOVA STAGIONE DI ASCOLTO

Mettiamo allora i remi in barca e chi s’è visto s’è visto? Direi proprio di no. Con molta pazienza e umiltà, credo dovremmo innanzitutto pensare in termini di lungo periodo. Nell’immediato sarebbe già tanto se i cattolici che militano in politica, sia a livello locale che nazionale, riuscissero ad essere critici dall’interno, senza appiattirsi sui luoghi comuni o sugli slogan degli schieramenti a cui si decide di appartenere. Dovremmo poi provare ad ascoltarci e a parlarci liberamente e tranquillamente, pur da versanti opposti, per riscoprire ciò che accomuna i cattolici che vogliano essere tali; tentando di confrontarsi su di una lettura senza pregiudiziali, la più oggettiva possibile, dei fatti, dei problemi, delle attese e delle paure della gente. Partendo intanto col misurarsi, per esempio, su quanto è avvenuto con le ultime elezioni e il governo che ne è venuto fuori. Di primo acchito si potrebbe parlare di un trionfo dell’egoismo, dell’individualismo, della chiusura agli altri. E in gran parte è vero. Non mi pare però azzardato ritenere che al fondo si è manifestato soprattutto un disagio, un malessere, un rifiuto e una voglia di cambiamento che ha coinvolto anche le nuove generazioni e che andrebbe analizzato con attenzione.

È innegabile la dimensione di protesta e il desiderio di provare qualcosa di nuovo del voto del 4 marzo con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi. Però la protesta, lo sconforto, la rabbia, la ricerca di un cambiamento non si possono liquidare facilmente. Sarebbe un grave errore. Non è certo facile interpretare il disagio, la rabbia, la protesta e le aspettative. Dobbiamo però ugualmente interrogarci sulle cause. È una situazione indotta dai mezzi di comunicazione che amplificano e deformano? È la corruzione che, almeno secondo i media, appare dilagante? È la sensazione di insicurezza o la insicurezza reale? È la mancanza di lavoro o l’enorme precariato diffuso oppure ancora il debole sostegno alle famiglie con figli? Forse, perché no, il disagio è provocato anche dall’essere dentro una società liquida, senza punti di riferimento, dove si propugna come un bene la liquidazione di ogni identità, in un relativismo che confonde ogni cosa? E dove forse anche l’accoglienza è intesa da alcuni come negazione del valore della propria identità? Forse c’è anche nausea per le burocrazie europee che non risolvono i problemi? Forse, ancora, si reagisce al fatto che una certa parte politica ha spesso guardato dall’alto in basso il popolo ignorante, rivendicando per sé una superiorità ideale e morale che umilia e provoca?

Tante domande con poche risposte; però non possiamo eluderle. È urgente rifletterci sopra, perché la storia ci insegna che dal non ascoltato disagio delle popolazioni, snobbato, non preso in seria considerazione, spuntano sempre prima o poi scelte autoritarie, che magari avranno il volto cibernetico e affascinante di un algoritmo, ma non per questo meno pericolose e distruttive. Non basta però confrontarsi sulla realtà. Anche se, in questo momento, riuscire ad ascoltarsi e a parlarsi sarebbe già un bel contributo alla nostra povera Italia che rischia di deflagrare in una guerra di tutti contro tutti. Occorre anche, insieme, mettersi con serietà ad approfondire la Dottrina sociale della chiesa, evitando però il rischio di una sua lettura ideologica. La Dottrina sociale infatti è Vangelo vissuto e pensato, lievito dentro la realtà sociale. Poi si dovrebbe tentare di individuare risposte concrete sulla base di uno studio serio dei problemi e di un’altrettanta seria conoscenza e pratica del Vangelo di Gesù.

La stagione che stiamo vivendo credo in ogni caso che sia stimolante per la Chiesa, perché la stimola a rivedere le priorità della sua azione pastorale. Un’azione pastorale che sia quindi centrata per davvero sull’annuncio di Cristo morto e risorto e sulla vita nuova in Cristo, secondo lo Spirito; che valorizzi i carismi di tutti senza elitarismi e nello stesso tempo spinga a “pensare” la società e il mondo nell’orizzonte di un’integrale antropologia cristiana, unendo a questo “pensiero” la pratica dell’attenzione e del servizio alle persone, a partire da quelle più deboli. In questo modo potrebbe davvero sorgere col tempo una nuova bella stagione di impegno politico dei cattolici, capace di catalizzare le forze e i sogni di tanti uomini e donne di buona volontà, liberi e forti. Ce lo auguriamo.

+ Fausto Tardelli, vescovo di Pistoia

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Catechisti in parrocchia: una missione possibile e bella

di Fausto Tardelli, vescovo

In tutte le parrocchie sta finendo l’anno catechistico. Un anno di impegno e di cammino iniziato nel settembre ottobre scorso. Vorrei ringraziare di vero cuore tutti quei laici, in gran parte donne, adulti e giovani che donano il loro tempo con generosità per far crescere nella fede i ragazzi loro affidati. Questi catechisti meritano davvero la riconoscenza di tutta la Chiesa. La fatica è tanta, credo però sia tanta anche la soddisfazione di collaborare alla diffusione del Regno di Dio, aiutando le giovani generazioni ad incontrare il Signore.

L’occasione mi da modo di richiamare tre punti essenziali della catechesi. Non fa male ricordarli proprio al termine dell’anno catechistico e quando già ci si orienta al prossimo.

Il primo obiettivo non può mai essere dimenticato:tutta la comunità è chiamata a aiutare i ragazzi a incontrare il Signore, perché rimangano affascinati da Lui e imparino a vivere con Lui, per Lui e in Lui. Già lo diceva il documento base del rinnovamento della catechesi in Italiana, tanti anni fa, nel 1970: «la catechesi promuove itinerari per una crescita permanente del cristiano, dall’infanzia all’età adulta, avendo come fine l’acquisizione di una mentalità di fede… Cioè educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo». Sono passati molti anni da allora e la situazione è un po’ cambiata. Oggi occorre dare un taglio nuovo alla catechesi: quello kerigmatico. In poche parole, non si può più dare per scontata la fede nei ragazzi e nelle famiglie. Quindi oggi c’è bisogno anche del “primo annuncio”, in modo che la novità di Gesù morto e risorto e del suo Regno d’amore, risuoni nel cuore dei ragazzi e dei genitori.

Il secondo punto importate per la catechesi è la comunità cristiana. Punto dolente ma irrinunciabile. Gli “Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia” dati dai vescovi italiani nel 2014, dal significativo titolo “Incontriamo Gesù”, affermano: «La Chiesa nel suo insieme, e i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Di qui l’impegno a far sorgere e vivere comunità cristiane che facciano della loro esperienza del Dio trinitario il centro del proprio esistere».

Infine il linguaggio. Terzo punto necessario per la catechesi. Cito il documento base senza commentarlo perché non ce n’è bisogno: «la catechesi dovrà servirsi di un linguaggio, che corrisponda alla cultura odierna e sappia far comprendere la Rivelazione agli uomini di oggi. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. La preoccupazione di un linguaggio adatto alla mentalità contemporanea deve essere presente nell’elaborazione dei catechismi, dei testi didattici e più ancora nella catechesi viva».




MONS. TARDELLI: PER LA DIFESA DI OGNI VITA INNOCENTE

Nella recente esortazione di Papa Francesco “Gaudete et exultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, trovo al n.101: «La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù e in ogni forma di scarto».

Affermazioni chiare e precise che vanno a correggere quello strabismo di cui spesso soffriamo per il quale finiamo pure per contrapporci all’interno della stessa chiesa. La difesa e la promozione della vita umana, dal momento del concepimento e per tutte le fasi della vita, fino alla sua naturale conclusione è compito imprescindibile per chi voglia dare ancora un senso alla parola umanità e tanto più per un cristiano.

Dispiace profondamente allora sentir parlare dell’aborto come un diritto ed è triste vedere l’esultanza di chi gode per la vittoria dei sì all’abrogazione del divieto d’aborto in Irlanda o per la introduzione della legge 194 in Italia, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario. Non prima di tutto però, perché si è modificato l’ordinamento giuridico che influisce sempre sul vivere civile, ma perché non è difficile scorgere dietro tutto questo l’idea di un diritto che non è tale, bensì prevaricazione del più forte contro il diritto del più debole, di chi viene considerato un “non-uomo” ma solo un grumo di sangue.

Fa però ugualmente dispiacere e dispiacere profondo vedere le persone senza lavoro o con un lavoro precario, non sano, pericoloso, mal retribuito e da schiavi; vedere licenziare persone solo per fare più profitto; registrare così spesso incidenti sul lavoro che non possono essere attribuiti frettolosamente alla disattenzione dei lavorati; come fa piangere il cuore vedere una società che scarta le persone, che rifiuta i migranti, che abbandona o maltratta i vecchi. Nell’ingiustizia sociale si manifesta una radicale offesa della persona umana e del suo creatore che l’ha voluta con una dignità inalienabile, a sua immagine e somiglianza.

Fausto Tardelli, vescovo




CARITÀ CRISTIANA: ISTRUZIONI PER L’USO

L’intervento di Mons. Tardelli al primo incontro del corso di formazione Caritas

In occasione dell’Anno pastorale dedicato ai poveri, la Caritas Diocesana ha proposto un corso di formazione rivolto alle Caritas parrocchiali e tutti gli operatori pastorali impegnati nella comunità. Il corso ha per tema: “il cammino nella carità per le parrocchie”. La formazione, infatti, è destinata a comunicare la trasversalità della carità sulle attività parrocchiali e ad ampliare il numero delle parrocchie in cui è presente la caritas parrocchiale (cfr. Orientamenti Pastorali 2016-2019, nn. 14-15).

Il primo incontro, a cui hanno partecipato circa 70 persone, si è svolto giovedì 5 aprile e ha visto l’intervento del vescovo Fausto Tardelli.

La relazione del vescovo ha toccato i seguenti tre punti: 1. L’importanza della Carità nella comunità cristiana; 2. Le caratteristiche della carità cristiana; 3. Suggerimenti per gli operatori della carità.

Circa l’importanza della Carità nella comunità cristiana il vescovo ha affermato che «l’esercizio della carità è parte integrante della vita, dell’opera del cristiano e della comunità cristiana insieme all’ascolto/annuncio della Parola di Dio e al culto in spirito e verità attraverso i Sacramenti».

Quali sono le caratteristiche della Carità cristiana? Il vescovo ne ha elencate almeno tre: attenzione, ascolto, accoglienza dell’altro, della persona concreta nella sua situazione di vita.
Non sono mancate tante indicazioni concrete: «dare tempo, prima che dare cose, prendersi a cuore prima che prendersi cura». Il vescovo ricorda che prioritario è «mettersi al servizio del bene che Dio vuole per l’altro». Per questo «non ogni richiesta va esaudita; non ogni desiderio accontentato. La verità, anche se fa male, è carità ma è carità anche aiutare ad accogliere la verità». La carità – ha aggiunto il vescovo- non può essere confusa con il proselitismo perché «non si può amare il prossimo per portarlo in chiesa». Allo stesso tempo, però, occorre tenere sempre presente che «la carità cristiana si distingue dalla solidarietà umana, dalla filantropia, da un progetto politico di riforma sociale. Non sposa alcun partito. Pur se l’annuncio cristiano ha una imprescindibile dimensione sociale».
La Carità cristiana chiede anche di amare il prossimo con la testa e con il cuore. «Cuore e mente debbono andare di pari passo. Per cui la carità esige lo studio, la competenza e la professionalità». Infine ha chiuso mons. Tardelli, «l’esercizio della carità nella chiesa riguarda ciascuno come singolo ma anche le comunità».

Il terzo punto del suo intervento è stato dedicato agli operatori della carità. Mons. Tardelli ha invitato quanti si rendono disponibili alle necessità del prossimo a «riandare continuamente alla fonte: “Dio che è amore”, ascoltando la sua Parola; partecipando ai sacramenti; pregando nella lode e intercedendo per gli altri; vivere la comunione ecclesiale; esercitarsi ad avere gli stessi occhi di Dio, a guardare coi suoi occhi le persone e le situazioni».

Dopo la relazione del nostro Vescovo il vice direttore Caritas don Paolo Tofani e Francesca Meoni, responsabile della formazione, hanno evidenziato come il ruolo della caritas parrocchiale debba «sollecitare e educare l’intera comunità ad un approccio concreto, intelligente ed evangelico della realtà sociale, avendo occhi soprattutto per i poveri vicini e lontani». L’azione della Caritas Parrocchiale è finalizzata ad «aiutare a far diventare problema di tutti la sofferenza di ogni fratello e a mettere al centro della vita ecclesiale i diversi volti della povertà umana». Un compito che impegna la comunità a interrogarsi «sulla trasparenza della carità di Cristo nell’annuncio della Parola, nelle celebrazioni, negli itinerari formativi nell’attenzione agli ammalati, ai disabili e alle emarginazioni, nell’uso delle risorse economiche e degli ambienti, nella valorizzazione dei vari carismi, nei rapporti con la società e con gli enti pubblici come nell’attenzione ai problemi dei paesi più poveri, del mondo del lavoro e della politica».

La caritas parrocchiale, coordinando le diverse espressioni caritative della parrocchia, deve invitare tutti a compiere «un cambiamento di mentalità e di prassi, passando: dalla delega alla partecipazione; dalle risposte emotive e occasionali all’intervento organico e continuativo».
Le caritas parrocchiali, dunque, come «sentinelle», ha affermato il vescovo in chiusura dell’incontro: sentinelle «perché hanno il compito di promuovere la solidarietà sul loro territorio, intercettare le situazioni di bisogno» e renderle note alla comunità, in modo che questa sia sollecitata all’impegno.

Il corso prosegue giovedì 19 aprile (ore 21, presso l’Aula Magna del Seminario Vescovile di Pistoia) e sarà dedicato al tema “come animare la comunità”.

La brochure con la scheda d’iscrizione può essere scaricata qui, quindi dovrà essere restituita via mail o di persona.

Scheda di iscrizione (file .doc)




SE LA RESURREZIONE RESTA INDIGESTA: OMELIA DEL GIORNO DI PASQUA

Se la resurrezione resta indigesta non è colpa del pranzo, né della merenda fuori porta del giorno di Pasquetta. Neppure è colpa del tempo che non è più quello di una volta.
Forse è colpa dei tempi? Conseguenza inevitabile dell’età secolare o preludio di una nuova stagione culturale, in cui le antiche domande dell’uomo chiedono modalità inedite di annuncio?

«È stato detto, con uno slogan che rende però l’idea – ha esordito Mons. Tardelli nella sua omelia per il giorno di Pasqua – che non siamo semplicemente in una epoca di cambiamenti, bensì in un cambiamento d’epoca. Si prospettano nuovi scenari super tecnologici, sul piano economico, sociale, politico, persino umano (…) Opportunità future e antichi fantasmi danzano insieme nello scenario dei giorni presenti».
Un presente talmente spinto nel futuro da volersi aggrappare a tutti i costi al passato. Eppure è oggi che la Chiesa rinnova l’annuncio pasquale: «in questo mondo cambiato e mutevole, ha ancora senso la nostra fede nel Signore Risorto? Ciò che noi crediamo, ha ancora da dire qualcosa a questo mondo?».

Un film commedia di questi giorni ha pensato pure di giocare con la religione, fondandone una tutta nuova: lo ionismo: «una religione – ha affermato il regista – con elementi liberatori, molto comoda e contemporanea. Mette lo specchio e te stesso al centro, in un’epoca in cui i selfie sono il modo di manifestare la propria esistenza e ci si sente poeti scrivendo un post su facebook. (…) una commedia sulla religione, in un momento storico in cui è un tema quasi tragico».

Di fronte a questo scenario, si domandava il vescovo Tardelli: «Che cosa può voler dire per l’uomo di oggi, la Pasqua, la morte e la risurrezione di Cristo? La domanda è seria e la risposta non può essere banale, quasi a dimostrare come ovvia la fede nel risorto».
La fede chiama l’uomo a uscire dalla propria autoreferenzialità per aprirsi ad un Altro. Che pure non si vede, né si tocca. Ma che è veramente risorto. Sì, la fede non è ovvia: «Gesù non volle rivelarsi a tutto il mondo come risorto; volle invece affidare la sua risurrezione alla fede; alla fede dei suoi discepoli che “videro” ma dovettero “credere” anch’essi; credere cioè che non era un fantasma Colui che avevano incontrato; che non era un sogno, una loro fantasia, una proiezione del loro desiderio».
Anche a noi oggi, il Signore chiede di compiere questo passaggio: «La fede resta qualcosa di “scandaloso” per il mondo, di “ostico” alla mente nostra e alla nostra esperienza umana. Rimane un “salto”, un affidarsi, un confidare nella testimonianza degli apostoli e di chi, prima di noi, ha “creduto”. Un “salto” nel buio, per certi versi».

Anche il documento preparatorio del sinodo dei Giovani, elaborato qualche giorno fa nell’incontro presinodale tra centinaia di giovani e il papa sottolinea la difficoltà di riferirsi, pur in un contesto “aperto alla spiritualità”, al discorso della fede: «sebbene i giovani riescano ad interrogarsi sul senso dell’esistenza, questo non sempre implica che siano pronti a dedicarsi in maniera decisiva a Gesù e alla Chiesa. Oggi la religione non è più vista come il mezzo principale attraverso il quale un giovane si incammina verso la ricerca di senso» (n. 5).

La fede della Chiesa, dunque, professata solennemente il giorno di Pasqua «è certamente una sfida per noi uomini di oggi, giovani e adulti; una sfida per il mondo».
Ma allo stesso tempo è «un proclamare al mondo che tutti gli sforzi per salvare se stessi e l’uomo in genere, per salvare il pianeta, per una convivenza tra i popoli; tutti gli sforzi per vincere la cattiveria e l’odio; tutto l’impegno per la giustizia e per dare dignità alla vita dell’uomo; tutto il nostro gran da fare per vincere la morte e goderci la vita; ecco tutto questo è destinato al fallimento se non riconosciamo che Gesù è il Signore, l’unico che ha vinto la morte e nel quale solamente abita quell’amore puro che può trasformare il cuore dell’uomo e darci la gioia e la pace che il nostro cuore inquieto cerca».

La Pasqua riafferma il segno di contraddizione della proposta cristiana: «è qui il punto che renderà sempre un po’ “indigesta” la fede cristiana. E ogni tentativo di smussarne gli angoli, per renderla compatibile con le aspettative tutte terrene dell’uomo, riducendone la pretesa paradossale, addomesticandola per farla diventare un semplice supporto motivazionale all’impegno sociale; così come ogni sforzo per eliminare le esigenti conseguenze morali della fede che indicano all’uomo un cammino faticoso e controcorrente rispetto ai propri istinti e desideri; tutto questo non produce alcun effetto positivo sull’uomo, anzi, rende insignificante e vana la morte e la risurrezione di Cristo».
Parole forti, che suonano scomode. «Questa dunque – ha continuato Mons. Tardelli – è la nostra fede e non vogliamo far niente per renderla accettabile e toglierle il suo carattere paradossale, anche se riteniamo che risponda alle vere attese dell’uomo di ogni tempo».

È la stessa fede che fa prendere posizione di fronte al mondo e «ci fa dire che la cattiveria, il sopruso, l’ingiustizia, l’odio, la morte, non avranno il sopravvento perché Cristo è risorto; questa fede ci fa dire ancora che qualsiasi peccato, trasgressione alla legge santa di Dio, può essere sconfitto nella nostra vita, per la croce di Cristo; questa fede ci fa dire inoltre che è possibile già su questa terra vivere, seppur a costo della stessa vita, una vita nuova segnata dall’amore vero verso gli altri; una vita che allora fiorirà in pienezza oltre la morte, perché la morte è stata sconfitta per sempre».




GLI AUGURI DI PASQUA DEL VESCOVO: “LA FEDE È INCREDIBILE”




IL VESCOVO ALLA MESSA CRISMALE: UNITI ATTORNO ALLA MENSA DEL SIGNORE

Con la celebrazione della Santa Messa crismale il vescovo ha aperto solennemente i riti della settimana santa, che ci accompagneranno alla Santa Pasqua. Un momento centrale per la vita diocesana, perchè questa messa
vuole significare l’unità della Chiesa locale raccolta intorno al proprio vescovo, alla quale sono invitati tutti i presbiteri della diocesi i quali, dopo l’omelia del vescovo, rinnovano le promesse fatte nel giorno della loro ordinazione sacerdotale.

In questa messa inoltre il vescovo consacra gli olii santi: il crisma, l’olio dei catecumeni e l’olio degli infermi, che si useranno durante tutto il corso dell’anno liturgico per celebrare i sacramenti.

«L’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni, il Crisma. Sono questi gli oli santi che stasera noi benediremo e consacreremo; e lo facciamo nel contesto della Eucaristia, cioè del memoriale della passione, morte e risurrezione del Signore, da cui scaturisce la salvezza, rendendo grazie a Dio per averci riuniti nel suo popolo santo, la Chiesa.

Una celebrazione ricca di segni, quella di stasera. Su due segni in particolare vorrei soffermarmi – afferma il vescovo –  quello della nostra unità attorno alla mensa del Signore e per l’appunto il segno degli oli santi.

Il primo segno è l’unità bella e molteplice di questa congregazione. L’essere qui insieme è una grande cosa ed è opera di Dio, miracolo suo. La Chiesa si presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Tutti insieme formiamo l’unico popolo di Dio radunato in Cristo sotto la guida del Vescovo, quale successore degli apostoli, in comunione con Pietro, Papa Francesco, e quindi in comunione con tutti gli altri vescovi e chiese particolari diffuse nel mondo a formare l’unica Santa chiesa cattolica. E’ un segno importante di unità e di comunione, di fraternità e di amicizia; levato in alto nel cuore del mondo, spesso diviso e in guerra. Un segno della novità del Regno di Dio presente nella storia.

Ciò che il segno mostra, dev’essere però realtà nei fatti della vita. Il dono del Signore, deve trovare coerenza d’impegno e di scelte. Da esso scaturisce la necessità di accoglierci l’un l’altro con amore, nonostante le nostre diversità. Anzi, considerando le nostre differenze una ricchezza, sempre che si sappiano armonizzare attorno al servizio pastorale che è affidato al Vescovo. La nostra è infatti un’unità organica, un’unità ordinata, un’unità gerarchica. Non siamo un agglomerato di persone anarchico e indistinto, bensì un organismo vivente. Per cui, ogni volontà di fare per conto proprio, di camminare in autonomia, senza confrontarsi seriamente con gli altri e col Vescovo; ogni isolamento autoreferenziale; ogni personalismo, ogni insofferenza a lasciarsi correggere per il bene comune; come ogni tentativo di ritagliarsi spazi di indipendenza, disertando i momenti della comunione e del discernimento comunitario; ogni campanilismo di parrocchie e realtà ecclesiali, ebbene, tutto questo va contro il progetto di Dio e falsifica, svuota dall’interno, contraddice e impoverisce quel segno di unità e di comunione che stasera qui tutti insieme stiamo dando e che il mondo attende.

Il secondo segno che vorrei evidenziare è quello dell’olio, o meglio degli oli santi. Ogni olio santo ci ricorda qualcosa. Innanzitutto l’olio degli infermi: ci ricorda la malattia, la vecchia, la nostra fragilità. Malattia, vecchiaia e fragilità che possono diventare partecipazione alla passione, morte e risurrezione di Cristo e quindi trasformarsi in canto di lode. Siamo deboli; non siamo dei “super eroi”; non siamo inossidabili e infrangibili. Saper accettare la nostra finitezza e debolezza, gli acciacchi dell’età che avanza, come pure la malattia che viene a spezzare i nostri progetti e i nostri sogni, è a volte molto difficile ma è possibile per il dono della Grazia, per l’opera dello spirito Santo in noi. E ciò ci toglie dall’ansia e dalla paura, da quel nervosismo che non ci da tregua, aprendoci invece alla pace interiore, alla serenità di sentirsi nelle mani del Signore. Ma l’olio degli infermi ci richiama anche la necessità di prendersi cura degli altri, in particolare di chi è malato, anziano o particolarmente fragile. Chi vive in queste condizioni, deve poter trovare nella comunità cristiana e in particolare nei sacerdoti, conforto, sostegno e vicinanza. Soprattutto deve poter incontrare la grazia di Cristo che da significato alle sue sofferenze.

L’altro olio, quello dei catecumeni, ha invece un altro significato. Indica il bisogno di ogni uomo di essere liberato dal peccato e dal male morale. L’olio dei catecumeni si usa nei riti prebattesimali e significa la necessità del combattimento spirituale contro il demonio e che occorre essere forti in questa lotta all’ultimo sangue contro le potenze del maligno. Non è solo la salute del corpo che a volte ci manca. Ogni uomo ha necessità di essere liberato dal male dell’anima e di essere salvato; ha bisogno di sfuggire all’inferno e di entrare nel paradiso; ha assoluta urgenza di salvarsi l’anima, perché, come dice il Signore nel Vangelo: a che cosa servirà all’uomo aver conquistato il mondo, se poi perderà l’anima sua? Occorre dunque che curiamo la salute della nostra anima, purificandola dal peccato. Ma occorre anche che i sacerdoti e i diaconi col loro ministero, cerchino soprattutto questo per le persone che sono loro affidate. Il prete è chiamato innanzitutto ad annunciare Gesù Cristo salvatore, a renderlo presente e comunicabile nella Santa Eucaristia, a perdonare i peccati in nome suo, a pregare per il popolo e a guidare i membri della comunità alla santità e quindi verso la pienezza della vita eterna. La “salus animarum”, la “salvezza delle anime”, seppur con espressione datata e non esente da rischi, resta il compito fondamentale di ogni presbitero.

In ultimo ecco il Crisma. L’olio più santo di tutti. Si fa aggiungendo all’olio del profumo, in modo che la mistura emani una buona fragranza. Lo si usa per confermare nella vita cristiana i battezzati col sigillo dello Spirito Santo. Lo si usa ancora per significare la dignità dei nuovi battezzati, la missione dei sacerdoti e dei Vescovi. E’ dunque l’olio che ci ricorda la grandezza della vita nuova in Cristo, come pure la capacità donata all’uomo di compiere le cose di Dio. Ci ricorda la sovrabbondante misericordia del Signore che ci viene incontro, non solo liberandoci dal peccato ma elevandoci alla dignità di figli di Dio, divinizzandoci, facendo di noi un popolo di sacerdoti, re e profeti. Partecipare alla gloria di Dio è la meta più grande che possiamo raggiungere; è la vera ricchezza della nostra vita. Non facciamoci confondere le idee da pensieri mondani! Non sono i beni terreni la pienezza della vita; non è il potere; non è il dominio sugli altri; non è la possibilità di realizzare ogni nostro desiderio la cosa più bella che ci può capitare: la cosa più bella è piuttosto l’essere riempiti di Dio che è amore, l’essere trasfigurati nella sua gloria; vivere la vita nuova dello Spirito. E come per gli altri oli santi, il Crisma ancora di più ci indica con chiarezza la missione della Chiesa: aiutare gli uomini a incontrare Cristo e a lasciarsi trasformare dallo Spirito santo in creature nuove, in figli veri di Dio e in fratelli veri degli altri.

Carissimi amici nel sacerdozio, carissimi diaconi, religiose e religiosi, laici tutti del santo Popolo di Dio, ragazzi che in quest’anno riceverete la Cresima, come dicevo all’inizio: la celebrazione di stasera è davvero molto significativa. Ricca cioè di segni importanti dell’amore di Dio per noi. Ringraziamo allora Dio; con riconoscenza rendiamogli grazie e facciamo in modo di portare nel cuore e nella vita la bellezza di questa esperienza. Col nostro entusiasmo e col nostro impegno di carità nei giorni quotidiani, cerchiamo di comunicarla a tutti con gioia, raccontando con semplicità di cuore le meraviglie del Signore.

(foto di Ilaria Giusti)




IL PROFUMO DELLA VITA

Venerdì 23 marzo, con il tragitto dal Battistero di San Giovanni in Corte alla chiesa di San Giovanni Fuorcivitas, si è concluso il cammino delle stazioni quaresimali; un «itinerario quaresimale che ci ha visto attraversare la città da un chiesa all’altra, andando dietro al Signore, per cercare Colui che ci ha cercato e trovato per primo».

Un cammino fermatosi alle soglie della Settimana Santa, che prima di ripercorrere la passione di Cristo ha fatto gustare, in anticipo, il profumo della vita. Il vangelo di venerdì scorso raccontava infatti la vicenda di Lazzaro: «il tripudio della vita – ha ricordato il vescovo Tardelli nella sua omelia -. La resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, come la risurrezione del figlio della sunamita ad opera del profeta Eliseo, ci fanno sentire la gioia, il profumo, l’allegria della vita».

Una fragranza che fa misurare tutta l’incompatibilità tra l’uomo e la morte. «Possiamo compiere tutti gli sforzi del mondo per assuefarci alla morte; possiamo tentare di esorcizzarla in ogni modo; cercare di tenerla lontana dalla nostra vista, dalla nostra esperienza….. Ma non c’è niente da fare. Pur nello stordimento della distrazione – ha ricordato il vescovo -, essa, col suo carico di tristezza, di gelo e di ineluttabilità, torna ad assalirci sempre di nuovo (…). Tutto si ribella in noi di fronte alla morte. Non siamo fatti per la morte».

La vicenda degli uomini, senza l’orizzonte di Dio, resta incastrata nel dramma della finitudine e della fragilità. Avvertiamo, infatti «come una contraddizione inaccettabile venire alla vita, respirarla a pieni polmoni, magari superando grandi difficoltà, e poi finire nel vuoto di un sepolcro. Per tutto questo, il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta una esplosione di gioia e di speranza». Eppure anche Lazzaro, tornato alla vita, era destinato a morire di nuovo. Il miracolo della vita sfuma forse nell’illusione?

Forse qualcuno si ricorda –di quel film scandaloso, ma per niente banale che è l’Ultima tentazione di Cristo di Scorsese – la scena in cui Gesù chiama Lazzaro a uscire dal sepolcro. D’improvviso, dall’oscurità del sepolcro, Lazzaro tende la mano a Cristo. Gesù è quasi sconvolto dalla forza della sua preghiera. La mano tesa di Lazzaro, già segnata dalla decomposizione, lo afferra e lo trascina con sé, per un attimo, nel buio del sepolcro. Immagine sconvolgente di un Cristo inconsapevole di fronte all’orrore della morte.

I Vangeli ci dicono che la morte non ha l’ultima parola. Che Gesù, con buona pace di Scorsese, è entrato davvero nel buio del sepolcro ma, seppure dentro il dramma della passione, ci è entrato consapevolmente. E ne è uscito risorto. Occorre, dunque, «andare più in profondità e leggere le cose alla luce, non tanto della risurrezione di Lazzaro ma di quella di Cristo (…) Alla luce di Cristo allora, morto e risorto per portare a compimento il disegno del Padre; morto e risorto nel segno dell’amore che è Dio stesso, possiamo comprendere che la vita vera, quella piena ed eterna, che già comincia quaggiù ma che si realizzerà definitivamente oltre la morte, è quella che si condensa nell’amore».

Cedere all’orrore e allo sgomento della morte, è per il cristiano una tentazione. «Ben misera cosa sarebbe però – ha precisato il vescovo- fermarsi a gustare la superficie della vita, i suoi aspetti esteriori, le sue manifestazioni più contingenti se non andassimo invece al succo della vita; se non andassimo ad attingere alla fonte della vita vera che è Gesù Cristo».

Ben misera cosa sarebbe se cedessimo alla nostra ‘ultima tentazione’, quella di sfuggire alla volontà di Dio, «se non imparassimo a godere della gioia che ci viene da questa vita di Dio in noi, che è libertà dal peccato, pienezza d’amore, carità operosa nei confronti dei fratelli. In questo modo, niente di ciò che è veramente umano viene disprezzato o perduto, anzi, nella vita di grazia che lo Spirito Santo realizza in noi, tutto trova pieno significato e profondità».

Il rischio di non andare in profondità e di non riuscire a cogliere il “di più” di vita che ci dona il Signore conduce ad un’esistenza perennemente in bilico sull’abisso. La notte dei morti viventi è in realtà il lungo giorno di chi rincorre la vita laddove non c’è: «Anche se brindassimo tutti i giorni alla vita, anche se passassimo i giorni nella spensieratezza di tutte le possibili gioie terrene; anche se avessimo tutto e tutto ci potessimo permettere, saremmo nient’altro che dei morti che camminano per le strade».

Una prospettiva assai misera ed amara, almeno quanto la celebre battuta del film horror “la notte dei morti viventi” : «Vivere assieme per noi non è una gran gioia, ma morire assieme non risolverà niente». Chi è già morto dentro non possiede – ha continuato il vescovo – «la vita di Dio, la vera vita, quella Grazia santificante che proviene solo da Dio e si realizza soltanto nell’amore da Lui ricevuto e a sua volta donato a Lui e agli altri».

È proprio di fronte alla possibilità di vivere da morti, come se non ci fosse prospettiva davanti all’orrore della morte «che Gesù, come dice il racconto evangelico, letteralmente “scoppiò in pianto”. Pensiamoci».

«Alla luce interiore della Grazia – ha concluso mons. Tardelli-, anche il morire terreno diventa occasione di lode e gratitudine». Non c’è nessuna morte (neanche la seconda morte di Lazzaro) che possa sottrarre alla vita piena chi si lascia raggiungere dall’amore di Dio.
«È San Francesco a dircelo nel suo meraviglioso cantico delle creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.”»

Leggi l’intera omelia..