MONS. TARDELLI: PER LA DIFESA DI OGNI VITA INNOCENTE

Nella recente esortazione di Papa Francesco “Gaudete et exultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, trovo al n.101: «La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù e in ogni forma di scarto».

Affermazioni chiare e precise che vanno a correggere quello strabismo di cui spesso soffriamo per il quale finiamo pure per contrapporci all’interno della stessa chiesa. La difesa e la promozione della vita umana, dal momento del concepimento e per tutte le fasi della vita, fino alla sua naturale conclusione è compito imprescindibile per chi voglia dare ancora un senso alla parola umanità e tanto più per un cristiano.

Dispiace profondamente allora sentir parlare dell’aborto come un diritto ed è triste vedere l’esultanza di chi gode per la vittoria dei sì all’abrogazione del divieto d’aborto in Irlanda o per la introduzione della legge 194 in Italia, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario. Non prima di tutto però, perché si è modificato l’ordinamento giuridico che influisce sempre sul vivere civile, ma perché non è difficile scorgere dietro tutto questo l’idea di un diritto che non è tale, bensì prevaricazione del più forte contro il diritto del più debole, di chi viene considerato un “non-uomo” ma solo un grumo di sangue.

Fa però ugualmente dispiacere e dispiacere profondo vedere le persone senza lavoro o con un lavoro precario, non sano, pericoloso, mal retribuito e da schiavi; vedere licenziare persone solo per fare più profitto; registrare così spesso incidenti sul lavoro che non possono essere attribuiti frettolosamente alla disattenzione dei lavorati; come fa piangere il cuore vedere una società che scarta le persone, che rifiuta i migranti, che abbandona o maltratta i vecchi. Nell’ingiustizia sociale si manifesta una radicale offesa della persona umana e del suo creatore che l’ha voluta con una dignità inalienabile, a sua immagine e somiglianza.

Fausto Tardelli, vescovo




CARITÀ CRISTIANA: ISTRUZIONI PER L’USO

L’intervento di Mons. Tardelli al primo incontro del corso di formazione Caritas

In occasione dell’Anno pastorale dedicato ai poveri, la Caritas Diocesana ha proposto un corso di formazione rivolto alle Caritas parrocchiali e tutti gli operatori pastorali impegnati nella comunità. Il corso ha per tema: “il cammino nella carità per le parrocchie”. La formazione, infatti, è destinata a comunicare la trasversalità della carità sulle attività parrocchiali e ad ampliare il numero delle parrocchie in cui è presente la caritas parrocchiale (cfr. Orientamenti Pastorali 2016-2019, nn. 14-15).

Il primo incontro, a cui hanno partecipato circa 70 persone, si è svolto giovedì 5 aprile e ha visto l’intervento del vescovo Fausto Tardelli.

La relazione del vescovo ha toccato i seguenti tre punti: 1. L’importanza della Carità nella comunità cristiana; 2. Le caratteristiche della carità cristiana; 3. Suggerimenti per gli operatori della carità.

Circa l’importanza della Carità nella comunità cristiana il vescovo ha affermato che «l’esercizio della carità è parte integrante della vita, dell’opera del cristiano e della comunità cristiana insieme all’ascolto/annuncio della Parola di Dio e al culto in spirito e verità attraverso i Sacramenti».

Quali sono le caratteristiche della Carità cristiana? Il vescovo ne ha elencate almeno tre: attenzione, ascolto, accoglienza dell’altro, della persona concreta nella sua situazione di vita.
Non sono mancate tante indicazioni concrete: «dare tempo, prima che dare cose, prendersi a cuore prima che prendersi cura». Il vescovo ricorda che prioritario è «mettersi al servizio del bene che Dio vuole per l’altro». Per questo «non ogni richiesta va esaudita; non ogni desiderio accontentato. La verità, anche se fa male, è carità ma è carità anche aiutare ad accogliere la verità». La carità – ha aggiunto il vescovo- non può essere confusa con il proselitismo perché «non si può amare il prossimo per portarlo in chiesa». Allo stesso tempo, però, occorre tenere sempre presente che «la carità cristiana si distingue dalla solidarietà umana, dalla filantropia, da un progetto politico di riforma sociale. Non sposa alcun partito. Pur se l’annuncio cristiano ha una imprescindibile dimensione sociale».
La Carità cristiana chiede anche di amare il prossimo con la testa e con il cuore. «Cuore e mente debbono andare di pari passo. Per cui la carità esige lo studio, la competenza e la professionalità». Infine ha chiuso mons. Tardelli, «l’esercizio della carità nella chiesa riguarda ciascuno come singolo ma anche le comunità».

Il terzo punto del suo intervento è stato dedicato agli operatori della carità. Mons. Tardelli ha invitato quanti si rendono disponibili alle necessità del prossimo a «riandare continuamente alla fonte: “Dio che è amore”, ascoltando la sua Parola; partecipando ai sacramenti; pregando nella lode e intercedendo per gli altri; vivere la comunione ecclesiale; esercitarsi ad avere gli stessi occhi di Dio, a guardare coi suoi occhi le persone e le situazioni».

Dopo la relazione del nostro Vescovo il vice direttore Caritas don Paolo Tofani e Francesca Meoni, responsabile della formazione, hanno evidenziato come il ruolo della caritas parrocchiale debba «sollecitare e educare l’intera comunità ad un approccio concreto, intelligente ed evangelico della realtà sociale, avendo occhi soprattutto per i poveri vicini e lontani». L’azione della Caritas Parrocchiale è finalizzata ad «aiutare a far diventare problema di tutti la sofferenza di ogni fratello e a mettere al centro della vita ecclesiale i diversi volti della povertà umana». Un compito che impegna la comunità a interrogarsi «sulla trasparenza della carità di Cristo nell’annuncio della Parola, nelle celebrazioni, negli itinerari formativi nell’attenzione agli ammalati, ai disabili e alle emarginazioni, nell’uso delle risorse economiche e degli ambienti, nella valorizzazione dei vari carismi, nei rapporti con la società e con gli enti pubblici come nell’attenzione ai problemi dei paesi più poveri, del mondo del lavoro e della politica».

La caritas parrocchiale, coordinando le diverse espressioni caritative della parrocchia, deve invitare tutti a compiere «un cambiamento di mentalità e di prassi, passando: dalla delega alla partecipazione; dalle risposte emotive e occasionali all’intervento organico e continuativo».
Le caritas parrocchiali, dunque, come «sentinelle», ha affermato il vescovo in chiusura dell’incontro: sentinelle «perché hanno il compito di promuovere la solidarietà sul loro territorio, intercettare le situazioni di bisogno» e renderle note alla comunità, in modo che questa sia sollecitata all’impegno.

Il corso prosegue giovedì 19 aprile (ore 21, presso l’Aula Magna del Seminario Vescovile di Pistoia) e sarà dedicato al tema “come animare la comunità”.

La brochure con la scheda d’iscrizione può essere scaricata qui, quindi dovrà essere restituita via mail o di persona.

Scheda di iscrizione (file .doc)




SE LA RESURREZIONE RESTA INDIGESTA: OMELIA DEL GIORNO DI PASQUA

Se la resurrezione resta indigesta non è colpa del pranzo, né della merenda fuori porta del giorno di Pasquetta. Neppure è colpa del tempo che non è più quello di una volta.
Forse è colpa dei tempi? Conseguenza inevitabile dell’età secolare o preludio di una nuova stagione culturale, in cui le antiche domande dell’uomo chiedono modalità inedite di annuncio?

«È stato detto, con uno slogan che rende però l’idea – ha esordito Mons. Tardelli nella sua omelia per il giorno di Pasqua – che non siamo semplicemente in una epoca di cambiamenti, bensì in un cambiamento d’epoca. Si prospettano nuovi scenari super tecnologici, sul piano economico, sociale, politico, persino umano (…) Opportunità future e antichi fantasmi danzano insieme nello scenario dei giorni presenti».
Un presente talmente spinto nel futuro da volersi aggrappare a tutti i costi al passato. Eppure è oggi che la Chiesa rinnova l’annuncio pasquale: «in questo mondo cambiato e mutevole, ha ancora senso la nostra fede nel Signore Risorto? Ciò che noi crediamo, ha ancora da dire qualcosa a questo mondo?».

Un film commedia di questi giorni ha pensato pure di giocare con la religione, fondandone una tutta nuova: lo ionismo: «una religione – ha affermato il regista – con elementi liberatori, molto comoda e contemporanea. Mette lo specchio e te stesso al centro, in un’epoca in cui i selfie sono il modo di manifestare la propria esistenza e ci si sente poeti scrivendo un post su facebook. (…) una commedia sulla religione, in un momento storico in cui è un tema quasi tragico».

Di fronte a questo scenario, si domandava il vescovo Tardelli: «Che cosa può voler dire per l’uomo di oggi, la Pasqua, la morte e la risurrezione di Cristo? La domanda è seria e la risposta non può essere banale, quasi a dimostrare come ovvia la fede nel risorto».
La fede chiama l’uomo a uscire dalla propria autoreferenzialità per aprirsi ad un Altro. Che pure non si vede, né si tocca. Ma che è veramente risorto. Sì, la fede non è ovvia: «Gesù non volle rivelarsi a tutto il mondo come risorto; volle invece affidare la sua risurrezione alla fede; alla fede dei suoi discepoli che “videro” ma dovettero “credere” anch’essi; credere cioè che non era un fantasma Colui che avevano incontrato; che non era un sogno, una loro fantasia, una proiezione del loro desiderio».
Anche a noi oggi, il Signore chiede di compiere questo passaggio: «La fede resta qualcosa di “scandaloso” per il mondo, di “ostico” alla mente nostra e alla nostra esperienza umana. Rimane un “salto”, un affidarsi, un confidare nella testimonianza degli apostoli e di chi, prima di noi, ha “creduto”. Un “salto” nel buio, per certi versi».

Anche il documento preparatorio del sinodo dei Giovani, elaborato qualche giorno fa nell’incontro presinodale tra centinaia di giovani e il papa sottolinea la difficoltà di riferirsi, pur in un contesto “aperto alla spiritualità”, al discorso della fede: «sebbene i giovani riescano ad interrogarsi sul senso dell’esistenza, questo non sempre implica che siano pronti a dedicarsi in maniera decisiva a Gesù e alla Chiesa. Oggi la religione non è più vista come il mezzo principale attraverso il quale un giovane si incammina verso la ricerca di senso» (n. 5).

La fede della Chiesa, dunque, professata solennemente il giorno di Pasqua «è certamente una sfida per noi uomini di oggi, giovani e adulti; una sfida per il mondo».
Ma allo stesso tempo è «un proclamare al mondo che tutti gli sforzi per salvare se stessi e l’uomo in genere, per salvare il pianeta, per una convivenza tra i popoli; tutti gli sforzi per vincere la cattiveria e l’odio; tutto l’impegno per la giustizia e per dare dignità alla vita dell’uomo; tutto il nostro gran da fare per vincere la morte e goderci la vita; ecco tutto questo è destinato al fallimento se non riconosciamo che Gesù è il Signore, l’unico che ha vinto la morte e nel quale solamente abita quell’amore puro che può trasformare il cuore dell’uomo e darci la gioia e la pace che il nostro cuore inquieto cerca».

La Pasqua riafferma il segno di contraddizione della proposta cristiana: «è qui il punto che renderà sempre un po’ “indigesta” la fede cristiana. E ogni tentativo di smussarne gli angoli, per renderla compatibile con le aspettative tutte terrene dell’uomo, riducendone la pretesa paradossale, addomesticandola per farla diventare un semplice supporto motivazionale all’impegno sociale; così come ogni sforzo per eliminare le esigenti conseguenze morali della fede che indicano all’uomo un cammino faticoso e controcorrente rispetto ai propri istinti e desideri; tutto questo non produce alcun effetto positivo sull’uomo, anzi, rende insignificante e vana la morte e la risurrezione di Cristo».
Parole forti, che suonano scomode. «Questa dunque – ha continuato Mons. Tardelli – è la nostra fede e non vogliamo far niente per renderla accettabile e toglierle il suo carattere paradossale, anche se riteniamo che risponda alle vere attese dell’uomo di ogni tempo».

È la stessa fede che fa prendere posizione di fronte al mondo e «ci fa dire che la cattiveria, il sopruso, l’ingiustizia, l’odio, la morte, non avranno il sopravvento perché Cristo è risorto; questa fede ci fa dire ancora che qualsiasi peccato, trasgressione alla legge santa di Dio, può essere sconfitto nella nostra vita, per la croce di Cristo; questa fede ci fa dire inoltre che è possibile già su questa terra vivere, seppur a costo della stessa vita, una vita nuova segnata dall’amore vero verso gli altri; una vita che allora fiorirà in pienezza oltre la morte, perché la morte è stata sconfitta per sempre».




GLI AUGURI DI PASQUA DEL VESCOVO: “LA FEDE È INCREDIBILE”




IL VESCOVO ALLA MESSA CRISMALE: UNITI ATTORNO ALLA MENSA DEL SIGNORE

Con la celebrazione della Santa Messa crismale il vescovo ha aperto solennemente i riti della settimana santa, che ci accompagneranno alla Santa Pasqua. Un momento centrale per la vita diocesana, perchè questa messa
vuole significare l’unità della Chiesa locale raccolta intorno al proprio vescovo, alla quale sono invitati tutti i presbiteri della diocesi i quali, dopo l’omelia del vescovo, rinnovano le promesse fatte nel giorno della loro ordinazione sacerdotale.

In questa messa inoltre il vescovo consacra gli olii santi: il crisma, l’olio dei catecumeni e l’olio degli infermi, che si useranno durante tutto il corso dell’anno liturgico per celebrare i sacramenti.

«L’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni, il Crisma. Sono questi gli oli santi che stasera noi benediremo e consacreremo; e lo facciamo nel contesto della Eucaristia, cioè del memoriale della passione, morte e risurrezione del Signore, da cui scaturisce la salvezza, rendendo grazie a Dio per averci riuniti nel suo popolo santo, la Chiesa.

Una celebrazione ricca di segni, quella di stasera. Su due segni in particolare vorrei soffermarmi – afferma il vescovo –  quello della nostra unità attorno alla mensa del Signore e per l’appunto il segno degli oli santi.

Il primo segno è l’unità bella e molteplice di questa congregazione. L’essere qui insieme è una grande cosa ed è opera di Dio, miracolo suo. La Chiesa si presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Tutti insieme formiamo l’unico popolo di Dio radunato in Cristo sotto la guida del Vescovo, quale successore degli apostoli, in comunione con Pietro, Papa Francesco, e quindi in comunione con tutti gli altri vescovi e chiese particolari diffuse nel mondo a formare l’unica Santa chiesa cattolica. E’ un segno importante di unità e di comunione, di fraternità e di amicizia; levato in alto nel cuore del mondo, spesso diviso e in guerra. Un segno della novità del Regno di Dio presente nella storia.

Ciò che il segno mostra, dev’essere però realtà nei fatti della vita. Il dono del Signore, deve trovare coerenza d’impegno e di scelte. Da esso scaturisce la necessità di accoglierci l’un l’altro con amore, nonostante le nostre diversità. Anzi, considerando le nostre differenze una ricchezza, sempre che si sappiano armonizzare attorno al servizio pastorale che è affidato al Vescovo. La nostra è infatti un’unità organica, un’unità ordinata, un’unità gerarchica. Non siamo un agglomerato di persone anarchico e indistinto, bensì un organismo vivente. Per cui, ogni volontà di fare per conto proprio, di camminare in autonomia, senza confrontarsi seriamente con gli altri e col Vescovo; ogni isolamento autoreferenziale; ogni personalismo, ogni insofferenza a lasciarsi correggere per il bene comune; come ogni tentativo di ritagliarsi spazi di indipendenza, disertando i momenti della comunione e del discernimento comunitario; ogni campanilismo di parrocchie e realtà ecclesiali, ebbene, tutto questo va contro il progetto di Dio e falsifica, svuota dall’interno, contraddice e impoverisce quel segno di unità e di comunione che stasera qui tutti insieme stiamo dando e che il mondo attende.

Il secondo segno che vorrei evidenziare è quello dell’olio, o meglio degli oli santi. Ogni olio santo ci ricorda qualcosa. Innanzitutto l’olio degli infermi: ci ricorda la malattia, la vecchia, la nostra fragilità. Malattia, vecchiaia e fragilità che possono diventare partecipazione alla passione, morte e risurrezione di Cristo e quindi trasformarsi in canto di lode. Siamo deboli; non siamo dei “super eroi”; non siamo inossidabili e infrangibili. Saper accettare la nostra finitezza e debolezza, gli acciacchi dell’età che avanza, come pure la malattia che viene a spezzare i nostri progetti e i nostri sogni, è a volte molto difficile ma è possibile per il dono della Grazia, per l’opera dello spirito Santo in noi. E ciò ci toglie dall’ansia e dalla paura, da quel nervosismo che non ci da tregua, aprendoci invece alla pace interiore, alla serenità di sentirsi nelle mani del Signore. Ma l’olio degli infermi ci richiama anche la necessità di prendersi cura degli altri, in particolare di chi è malato, anziano o particolarmente fragile. Chi vive in queste condizioni, deve poter trovare nella comunità cristiana e in particolare nei sacerdoti, conforto, sostegno e vicinanza. Soprattutto deve poter incontrare la grazia di Cristo che da significato alle sue sofferenze.

L’altro olio, quello dei catecumeni, ha invece un altro significato. Indica il bisogno di ogni uomo di essere liberato dal peccato e dal male morale. L’olio dei catecumeni si usa nei riti prebattesimali e significa la necessità del combattimento spirituale contro il demonio e che occorre essere forti in questa lotta all’ultimo sangue contro le potenze del maligno. Non è solo la salute del corpo che a volte ci manca. Ogni uomo ha necessità di essere liberato dal male dell’anima e di essere salvato; ha bisogno di sfuggire all’inferno e di entrare nel paradiso; ha assoluta urgenza di salvarsi l’anima, perché, come dice il Signore nel Vangelo: a che cosa servirà all’uomo aver conquistato il mondo, se poi perderà l’anima sua? Occorre dunque che curiamo la salute della nostra anima, purificandola dal peccato. Ma occorre anche che i sacerdoti e i diaconi col loro ministero, cerchino soprattutto questo per le persone che sono loro affidate. Il prete è chiamato innanzitutto ad annunciare Gesù Cristo salvatore, a renderlo presente e comunicabile nella Santa Eucaristia, a perdonare i peccati in nome suo, a pregare per il popolo e a guidare i membri della comunità alla santità e quindi verso la pienezza della vita eterna. La “salus animarum”, la “salvezza delle anime”, seppur con espressione datata e non esente da rischi, resta il compito fondamentale di ogni presbitero.

In ultimo ecco il Crisma. L’olio più santo di tutti. Si fa aggiungendo all’olio del profumo, in modo che la mistura emani una buona fragranza. Lo si usa per confermare nella vita cristiana i battezzati col sigillo dello Spirito Santo. Lo si usa ancora per significare la dignità dei nuovi battezzati, la missione dei sacerdoti e dei Vescovi. E’ dunque l’olio che ci ricorda la grandezza della vita nuova in Cristo, come pure la capacità donata all’uomo di compiere le cose di Dio. Ci ricorda la sovrabbondante misericordia del Signore che ci viene incontro, non solo liberandoci dal peccato ma elevandoci alla dignità di figli di Dio, divinizzandoci, facendo di noi un popolo di sacerdoti, re e profeti. Partecipare alla gloria di Dio è la meta più grande che possiamo raggiungere; è la vera ricchezza della nostra vita. Non facciamoci confondere le idee da pensieri mondani! Non sono i beni terreni la pienezza della vita; non è il potere; non è il dominio sugli altri; non è la possibilità di realizzare ogni nostro desiderio la cosa più bella che ci può capitare: la cosa più bella è piuttosto l’essere riempiti di Dio che è amore, l’essere trasfigurati nella sua gloria; vivere la vita nuova dello Spirito. E come per gli altri oli santi, il Crisma ancora di più ci indica con chiarezza la missione della Chiesa: aiutare gli uomini a incontrare Cristo e a lasciarsi trasformare dallo Spirito santo in creature nuove, in figli veri di Dio e in fratelli veri degli altri.

Carissimi amici nel sacerdozio, carissimi diaconi, religiose e religiosi, laici tutti del santo Popolo di Dio, ragazzi che in quest’anno riceverete la Cresima, come dicevo all’inizio: la celebrazione di stasera è davvero molto significativa. Ricca cioè di segni importanti dell’amore di Dio per noi. Ringraziamo allora Dio; con riconoscenza rendiamogli grazie e facciamo in modo di portare nel cuore e nella vita la bellezza di questa esperienza. Col nostro entusiasmo e col nostro impegno di carità nei giorni quotidiani, cerchiamo di comunicarla a tutti con gioia, raccontando con semplicità di cuore le meraviglie del Signore.

(foto di Ilaria Giusti)




IL PROFUMO DELLA VITA

Venerdì 23 marzo, con il tragitto dal Battistero di San Giovanni in Corte alla chiesa di San Giovanni Fuorcivitas, si è concluso il cammino delle stazioni quaresimali; un «itinerario quaresimale che ci ha visto attraversare la città da un chiesa all’altra, andando dietro al Signore, per cercare Colui che ci ha cercato e trovato per primo».

Un cammino fermatosi alle soglie della Settimana Santa, che prima di ripercorrere la passione di Cristo ha fatto gustare, in anticipo, il profumo della vita. Il vangelo di venerdì scorso raccontava infatti la vicenda di Lazzaro: «il tripudio della vita – ha ricordato il vescovo Tardelli nella sua omelia -. La resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, come la risurrezione del figlio della sunamita ad opera del profeta Eliseo, ci fanno sentire la gioia, il profumo, l’allegria della vita».

Una fragranza che fa misurare tutta l’incompatibilità tra l’uomo e la morte. «Possiamo compiere tutti gli sforzi del mondo per assuefarci alla morte; possiamo tentare di esorcizzarla in ogni modo; cercare di tenerla lontana dalla nostra vista, dalla nostra esperienza….. Ma non c’è niente da fare. Pur nello stordimento della distrazione – ha ricordato il vescovo -, essa, col suo carico di tristezza, di gelo e di ineluttabilità, torna ad assalirci sempre di nuovo (…). Tutto si ribella in noi di fronte alla morte. Non siamo fatti per la morte».

La vicenda degli uomini, senza l’orizzonte di Dio, resta incastrata nel dramma della finitudine e della fragilità. Avvertiamo, infatti «come una contraddizione inaccettabile venire alla vita, respirarla a pieni polmoni, magari superando grandi difficoltà, e poi finire nel vuoto di un sepolcro. Per tutto questo, il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta una esplosione di gioia e di speranza». Eppure anche Lazzaro, tornato alla vita, era destinato a morire di nuovo. Il miracolo della vita sfuma forse nell’illusione?

Forse qualcuno si ricorda –di quel film scandaloso, ma per niente banale che è l’Ultima tentazione di Cristo di Scorsese – la scena in cui Gesù chiama Lazzaro a uscire dal sepolcro. D’improvviso, dall’oscurità del sepolcro, Lazzaro tende la mano a Cristo. Gesù è quasi sconvolto dalla forza della sua preghiera. La mano tesa di Lazzaro, già segnata dalla decomposizione, lo afferra e lo trascina con sé, per un attimo, nel buio del sepolcro. Immagine sconvolgente di un Cristo inconsapevole di fronte all’orrore della morte.

I Vangeli ci dicono che la morte non ha l’ultima parola. Che Gesù, con buona pace di Scorsese, è entrato davvero nel buio del sepolcro ma, seppure dentro il dramma della passione, ci è entrato consapevolmente. E ne è uscito risorto. Occorre, dunque, «andare più in profondità e leggere le cose alla luce, non tanto della risurrezione di Lazzaro ma di quella di Cristo (…) Alla luce di Cristo allora, morto e risorto per portare a compimento il disegno del Padre; morto e risorto nel segno dell’amore che è Dio stesso, possiamo comprendere che la vita vera, quella piena ed eterna, che già comincia quaggiù ma che si realizzerà definitivamente oltre la morte, è quella che si condensa nell’amore».

Cedere all’orrore e allo sgomento della morte, è per il cristiano una tentazione. «Ben misera cosa sarebbe però – ha precisato il vescovo- fermarsi a gustare la superficie della vita, i suoi aspetti esteriori, le sue manifestazioni più contingenti se non andassimo invece al succo della vita; se non andassimo ad attingere alla fonte della vita vera che è Gesù Cristo».

Ben misera cosa sarebbe se cedessimo alla nostra ‘ultima tentazione’, quella di sfuggire alla volontà di Dio, «se non imparassimo a godere della gioia che ci viene da questa vita di Dio in noi, che è libertà dal peccato, pienezza d’amore, carità operosa nei confronti dei fratelli. In questo modo, niente di ciò che è veramente umano viene disprezzato o perduto, anzi, nella vita di grazia che lo Spirito Santo realizza in noi, tutto trova pieno significato e profondità».

Il rischio di non andare in profondità e di non riuscire a cogliere il “di più” di vita che ci dona il Signore conduce ad un’esistenza perennemente in bilico sull’abisso. La notte dei morti viventi è in realtà il lungo giorno di chi rincorre la vita laddove non c’è: «Anche se brindassimo tutti i giorni alla vita, anche se passassimo i giorni nella spensieratezza di tutte le possibili gioie terrene; anche se avessimo tutto e tutto ci potessimo permettere, saremmo nient’altro che dei morti che camminano per le strade».

Una prospettiva assai misera ed amara, almeno quanto la celebre battuta del film horror “la notte dei morti viventi” : «Vivere assieme per noi non è una gran gioia, ma morire assieme non risolverà niente». Chi è già morto dentro non possiede – ha continuato il vescovo – «la vita di Dio, la vera vita, quella Grazia santificante che proviene solo da Dio e si realizza soltanto nell’amore da Lui ricevuto e a sua volta donato a Lui e agli altri».

È proprio di fronte alla possibilità di vivere da morti, come se non ci fosse prospettiva davanti all’orrore della morte «che Gesù, come dice il racconto evangelico, letteralmente “scoppiò in pianto”. Pensiamoci».

«Alla luce interiore della Grazia – ha concluso mons. Tardelli-, anche il morire terreno diventa occasione di lode e gratitudine». Non c’è nessuna morte (neanche la seconda morte di Lazzaro) che possa sottrarre alla vita piena chi si lascia raggiungere dall’amore di Dio.
«È San Francesco a dircelo nel suo meraviglioso cantico delle creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.”»

Leggi l’intera omelia..




TI SEI MAI ACCORTO DI ESSERE GUARITO?

L’omelia del Vescovo Tardelli per la IV stazione quaresimale

Ci sono occasioni in cui il Signore ci guarda con particolare evidenza. Sta lì e ci scruta. In silenzio. Umilmente. È uno sguardo discreto, colmo di misericordia. E quanto più ci legge dentro, tanto più è misericordioso.
Nell’adorazione eucaristica il Signore ci guarda. Dal piccolo occhio aperto nell’ostensorio volge lo sguardo sull’umanità varia, dolente e gaudente che si ferma –anche soltanto per il tempo di un segno di croce – davanti a Lui.

La quarta stazione quaresimale si inserisce in questo clima di adorazione e preghiera che da qualche anno, grazie a Papa Francesco, sta diventando tradizione. Venerdì 16 marzo, infatti, la Diocesi di Pistoia ha celebrato presso la parrocchia di San Paolo Apostolo la “24ore per il Signore”. Una ‘maratona’ di adorazione no-stop durante la quale è offerta la possibilità di riconciliarsi con il Signore. Un bagno di misericordia e di preghiera per riconoscere il primato di Dio. Papa Francesco lo ha ricordato anche in questa edizione 2018: «Dio è il primo e ci salva totalmente con amore».

A Pistoia il Vescovo Fausto Tardelli ha celebrato la messa stazionale all’interno di questo contesto di preghiera proponendo alla riflessione dei fedeli il brano evangelico del miracolo del Cieco nato (Gv 9,1-9).

Di fronte a chi gli contesta la prodigiosa guarigione, contrapponendosi a Gesù, il cieco ribatte con decisione quanto gli è accaduto. «Questo cieco nato – ha affermato il vescovo – ha dalla sua, la forza dei fatti. Gli altri, i farisei, fan solo discorsi, chiacchiere, ideologia, esprimono pregiudizi, non vedono la realtà; sono davvero, loro, dei ciechi che, per giunta, pensano di vederci bene».

Uno scambio delle parti che rischia di farci pensare. Ma anche l’affermazione netta e decisa di chi è stato raggiunto da una grazia insperata e neppure richiesta: «nel caso del cieco nato, l’iniziativa è presa da Gesù». «questo “fatto” è “capitato” al cieco. È sopravvenuto alla sua vita. Non lo ha cercato. Non risulta infatti dal testo che il cieco abbia chiesto la guarigione, come invece in altri casi descritti nel vangelo. Tutto ciò, carissimi amici, ci fa riflettere su di una verità che connota l’agire di Dio, sempre: è Lui che prende l’iniziativa e tutto viene da lui».
È il primato di Dio che tanto ripropone papa Francesco e che il vescovo Tardelli racconta con efficacia: «Anche quando giustamente noi cerchiamo il suo volto, lo desideriamo, ci rivolgiamo a lui con la supplica del peccatore, ciò è possibile solo perché Egli con il suo amore ci ha prevenuto. Lui sempre ci ama per primo. Senza alcun nostro merito, senza alcuna nostra pretesa».

E se qualcuno, come i farisei di allora, introduce il baco del sospetto e invita a pensare che dietro “Dio” sta una mera proiezione il vescovo ricorda che «Non è il nostro vuoto che chiede e fonda la sua pienezza. Non è l’uomo che crea Dio. È vero esattamente il contrario: è Dio che crea l’uomo e imprime nell’uomo la nostalgia di Lui. È il Signore che ama infinitamente e dona infinitamente se stesso a noi ed è ancora lui, luce del mondo che fa scoprire la novità gioiosa del vedere e svela la bruttura delle tenebre del male che sono in noi e nel mondo, senza che nemmeno ce ne accorgiamo».

Il Signore ci ha guariti. Ma forse non ce ne siamo neppure accorti. Quando ce ne rendiamo conto iniziamo a vivere da cristiani. «La vita cristiana – aggiunge il vescovo – inizia laddove ci si riconosce cercati e amati; laddove ci si riconosce voluti e pensati con amore. Il primo atto della vita cristiana … è accorgersi di essere cercati e trovati; che c’è uno che è totalmente per noi, Gesù di Nazareth, figlio di Dio».

Cristo, come afferma un autore, è davvero il “terapeuta dello sguardo”: non soltanto ci aiuta a vedere e affina la nostra vista «tende per noi il ponte che ci fa passare dal vedere al contemplare e dal semplice sguardo alla visione di fede».

«Anche noi, – ha proseguito il vescovo- come il cieco nato, dovremmo vivere della certezza di un fatto molto concreto: che cioè siamo stati guariti; ci è stata donata la vista». Il problema – paradossalmente- resta la fatica di riconoscere la nostra guarigione. La vita nuova donata dal battesimo è un fatto; ma quanto spesso è facile dimenticarlo!

«Lo dobbiamo dire infatti: tante volte, l’essere stati fatti partecipi della salvezza; l’essere stati fatti rinascere come figli di Dio; l’essere stati illuminati dalla Grazia non è un fatto, nella nostra vita». Amara constatazione che registra cristiani senza Cristo, salvati senza desiderio di salvezza. Quanto è un dato di fatto -precisa il vescovo- «Non è la certezza della nostra vita; non è la roccia su cui poggia la nostra esistenza. Non è esperienza vissuta; non è gioia di chi ha ritrovato la vista; non è entusiasmo di chi è stato liberato dalle catene e finalmente si sente libero. È una fede sbiadita, scolorita, la nostra. Abitudinaria e mesta. Ed è precisamente in questo contesto di fiacchezza della nostra fede che diventano facili i tradimenti della legge del Signore, le ottusità nei confronti dei fratelli; i compromessi con i nostri vizi, l’accomodamento alle logiche egoistiche del mondo».

Anche per questo abbiamo bisogno di entrare dentro il suo sguardo. Di farci contemplare con amore e lasciarci toccare dalla sua misericordia, perché il suo sguardo risani i nostri occhi.

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QUANDO GESÙ SIEDE STANCO PER CERCARMI. LE PAROLE DEL VESCOVO PER LA TERZA STAZIONE QUARESIMALE

La chiesetta di Santa Maria del Soccorso, nota anche come Santa Maria in Borgo Bambini o Santa Liberata, è sconosciuta a molti pistoiesi, ma ospita da qualche anno la comunità cristiano ortodossa rumena. L’interno, tappezzato di icone, riflette il timbro tutto orientale della spiritualità ortodossa. Da qui si muove, fino alla Chiesa di San Bartolomeo, la processione della stazione quaresimale, guidata dal vescovo. In alto, sopra l’altare della chiesetta, si custodisce un antico affresco con la Madonna “in umiltà”, seduta per terra, con in braccio il suo bambino. Un dipinto arrivato qui dalla vicina chiesa dei Gesuati, oggi distrutta, che ha dato il nome di Santa Maria del Soccorso. Un titolo che ha il sapore del “pronto soccorso”, forse per via dell’attenzione alla medicina e al servizio ai malati proprio dell’ordine dei Gesuati. L’efficacia del “soccorso” che reca la Vergine è tutto nel bambino che stringe al petto. Un Dio bambino protagonista assoluto di quell’ospedale da campo che dovrebbe essere la Chiesa. Gesù è entrato nelle difficoltà della condizione umana: ha sperimentato la fame e la sete, ha provato stanchezza, ha “gustato” la morte. Ha portato soccorso, dalla posizione, tutta inedita, di salvatore affaticato e ferito.

Il Vangelo pronunciato venerdì 9 marzo proponeva il dialogo tra Gesù e la Samaritana. Gesù, ricordava il vescovo Tardelli nella sua omelia «è lì, al pozzo, stanco, affaticato, affamato – i suoi erano andati a cercare del cibo. Si è seduto e anch’egli ha sete. Una profonda sete. Ma non dell’acqua del pozzo. Egli ha sete dell’anima di quella donna; ha sete dell’anima di ognuno di noi; ha sete di me e della mia vita».

Forse non lo ricordiamo spesso così, eppure, prosegue il Vescovo, Gesù giunge stremato alle porte della nostra umanità: «Egli, stanco, sta cercando me, come canta un antico e ingiustamente abbandonato inno liturgico: “quaerens me sedisti lassus” Tu, signore sedesti stanco per cercare me, per darmi il tuo amore, per salvarmi dal non senso della mia vita, dal male nel quale spesso sono incatenato».

«La stanchezza del Signore Gesù  -ha precisato Mons. Tardelli- è la sua croce d’amore, è la fatica del buon pastore che va per dirupi e rovi a cercare la pecora perduta e caricarsela sulle spalle». Alla stanchezza si accompagna una sete divina: «La richiesta che Gesù fa alla donna, rileva questa sua sete: “dammi da bere”, cioè, dammi la tua anima, dammi la tua persona, lasciati amare, lasciati salvare, apri il tuo cuore a me e sarai salva». Il grande fascino di questa pagina evangelica risiede proprio nell’incontro tra la sete di Dio e quella dell’uomo. «Che la nostra sete e quella di Cristo si incontrino: questo allora c’è da augurarsi stasera, per la nostra vita, per il nostro cammino quaresimale che ci conduce alla Pasqua».

Il Vescovo, rileggendo le parole del Vangelo  parla di stanchezza e di sete, di esigenze interiori ed esteriori, molto concrete, dell’uomo di oggi. Manca l’acqua che disseta l’anima e quella che disseta il corpo. «“In quei giorni, il popolo soffriva per la mancanza di acqua”. Parole antiche, dell’esodo… Ma quanto attuali! Quanto contemporanee, quanto dolorosamente vere. Perché, anche materialmente è proprio così: oggi un sacco di persone soffrono per la mancanza di acqua. “Sono circa 900 milioni le persone che non hanno accesso ad acqua potabilmente sicura. Sono almeno 1,8 milioni i bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno per malattie collegate alla qualità dell’acqua: uno ogni 20 secondi.”»

La verità del Vangelo non dimentica mai la concretezza dell’esistenza. Per questo la stanchezza di Gesù non è una posa teatrale, non è finzione edificante, ma stanchezza concreta, sete reale e spirituale insieme. Una sete che parla all’uomo dei suoi bisogni più profondi e “integrali”. «Non è difficile riconoscere che siamo tutti degli assetati, che abbiamo sete di vita e di amore, sete di gioia e di bene, sete di felicità e di pace (…) non è difficile riconoscerla, questa sete, dentro di noi e nel cuore dell’umanità». È una sete che conduce a conseguenze molto concrete.  «Spesso – continua mons. Tardelli – la nostra sete, la si soddisfa bevendo acqua putrida, di pozzanghere sudice e maleodoranti, acqua velenosa; all’apparenza cristallina e pura ma in realtà piena di germi mortiferi (…) Domandiamoci inoltre se per soddisfare la nostra sete, invece di amare e donare come ci ha insegnato il Signore, sfruttiamo gli altri, utilizzandoli per i nostri fini».

Di fronte al nostro profondo desiderio di salvezza integrale, di fronte alla sete dell’uomo, il  Signore ripete: «L’acqua che cerchi “sono io, che parlo con te”. E ce lo dice anche questa sera, qui, in questa celebrazione eucaristica dove l’altare è per tutti noi, il pozzo di Giacobbe dove egli ci attende».

Il cammino delle stazioni quaresimali prosegue venerdì 16 marzo presso la Chiesa di San Paolo Apostolo, per la celebrazione delle 24 ore per il Signore. Un’occasione di preghiera di adorazione e misericordia che si prolungherà ininterrottamente dal pomeriggio di venerdì 16 fino alla sera di sabato 17. Alle 21 di venerdì 16, la messa presieduta dal vescovo Tardelli.

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FEDE, RELIGIONE E RELIGIONI OGGI: UNA CONVERSAZIONE TRA MARCO VANNINI E ROBERTO CELADA BALLANTI

Sabato 17 marzo il Centro culturale “J. Maritain” propone una conversazione tra Marco Vannini e Roberto Celada Ballanti

Il prossimo incontro del Centro Culturale Maritain è dedicato alla presentazione del volume “Il muro del paradiso” di Marco Vannini e Roberto Celada Ballanti. Entrambi gli autori saranno presenti per una conversazione che riproporrà i temi del libro. L’incontro, che avrà luogo nell’aula magna del Seminario alle ore 17, sarà moderato da Beatrice Iacopini.

Nel loro “Il muro del Paradiso. Dialoghi sulla religione nel terzo millennio” (Lorenzo de’Medici Press, Firenze 2017), Roberto Celada Ballanti, docente di filosofia della religione e del dialogo interreligioso e Marco Vannini, filosofo e studioso di mistica, epigoni degli antichi filosofi che nel tempo dell’otium discutevano amichevolmente le grandi questioni della vita, conversano sul destino della religione e della fede nell’immobile calura estiva di un giardino versiliese: due percorsi di ricerca, due visioni del mondo che si incontrano e si intrecciano, ricchi di dense suggestioni ispirate ad una schiera di autori classici e contemporanei, capaci di affascinare il lettore e stimolarlo ad interrogarsi e approfondire.

I due filosofi, a partire ciascuno dalla propria storia intellettuale, convergono su un punto centrale: che l’elemento religioso, la tensione verso l’Assoluto, è qualcosa non solo di connaturato ma di essenziale nell’uomo; è orizzonte di senso per l’esistenza e denominatore comune dell’umanità. Ispirato il primo dalla luminosa tradizione umanistica di Cusano, Erasmo, Bruno, l’altro dall’amore per la grecità e per quella mistica che in occidente ne ha salvato e tramandato l’essenza, entrambi si fanno araldi di una tradizione alta, in cui filosofare è soprattutto indagare Dio e l’anima, e attingere a ciò che è universale, che appartiene a tutti gli uomini al di là delle connotazioni culturali specifiche.

Percorrere una via del genere oggi può essere arduo, ma denota la presa in carico di un serio compito etico, in tempi in cui una lettura superficiale degli eventi ha gioco facile nel proporre il fatto religioso piuttosto come elemento retrogrado che divide e suscita guerre e oppressioni; in tempi in cui è diffusa e comune la sensazione che nessun orizzonte di senso contenga e illumini il nostro essere nel mondo.

Nel dialogo che il Centro Maritain propone, si alterneranno letture dal testo e interventi dei due autori, in cui avranno occasione di emergere la filosofia profonda e spiazzante di Marco Vannini – una vita dedicata alla traduzione e allo studio di mistici quali Meister Eckhart, Margherita Porete, Enrico Suso, Giovanni Taulero – e l’originale lettura del fenomeno religioso e di nuovi orizzonti di dialogo tra le religioni di Roberto Celada Ballanti.

Beatrice Iacopini




LASCIATI GUARDARE DA CHI HAI UCCISO. L’OMELIA DEL VESCOVO TARDELLI NELLA SECONDA STAZIONE QUARESIMALE

La Bibbia non è un libro per vecchi. Uno di quei testi rassicuranti e ammorbiditi che possono conciliarci il sonno o la pensione. La vicenda di Giuseppe.venduto dai fratelli o alcune parabole di Gesù, come quella di Vignaioli omicidi ci inquietano e ricordano anche molto da vicino episodi di cronaca nera. Con la.differenza, per restare vaghi, che le pagine bibliche restano li da millenni ad.interrogarci sulle eterne miserie dell’uomo in cui trova spazio l’azione di Dio.

«Il sacro tempo della quaresima – ricorda il vescovo Tardelli nella seconda stazione quaresimale, presso la chiesa di san Paolo apostolo– ci richiama ad altre considerazioni; a cambiare mente e mentalità (…) magari accompagnata da un lamento per i tempi tristi che stiamo vivendo. Troppo facile cavarcela così!».

Siamo proprio sicuri di non essere.un po’ simili ai fratelli di Giuseppe? Di non essere come loro almeno un po’ invidiosi, gelosi, senza scrupoli? La questione è ancora più profonda e ci interessa da vicino, ci coinvolge personalmente. «È chiaro infatti, che la figura di Giuseppe rimanda a quella di Cristo, venduto dai suoi stessi amici ai capi del popolo di Israele; non accolto, anzi rifiutato proprio da coloro che erano il suo popolo; da coloro – come i discepoli – che per primi avrebbero dovuto riconoscerlo. Questa sera allora, ognuno di noi è messo davanti a Cristo».

Stare.di fronte.a Cristo, come.sostare.di fronte alla.pagine bibliche non è cosi facile e indolore. Gesù ci guarda. Scruta il nostro cuore. Un’atteggiamento che in San Paolo, prima e dopo la messa, è assicurato da alcuni momenti di adorazione del Santissimo Sacramento. Un’esperienza che dice un po’ la cifra di questa chiesa cittadina, da tanti anni accompagnata, sotto il campanile. dalla cappella dell’adorazione perpetua. Un piccolo spazio, che guarda la città che passa. Un’occhio aperto sul cuore dell’uomo che circola distratto e pensieroso davanti alla porticina a vetri della cappella.
«È Lui, il Signore Gesù che si pone davanti a noi e ci fissa coi suoi occhi che vedono ogni cosa, anche le profondità della nostra anima. E davanti a lui siamo invitati a scegliere nuovamente: o con Lui o contro di Lui.(…) stasera Lui ci invita a identificarci coi fratelli che hanno venduto Giuseppe; coi contadini che hanno ucciso il figlio del vignaiolo. Si, proprio noi; si, proprio io, ho venduto, ho ucciso. Ho venduto, ho ucciso Lui, Gesù, con la mia indifferenza, con la mediocrità della mia fede, con la mia indolenza, con la mia superficialità, con il mio cedere sempre di nuovo agli impulsi dell’uomo vecchio fatto di gelosie, di invidie, di rancori, di pigrizia, di lussuria, di ipocrisia».

Il vescovo Tardelli smonta, uno ad uno, i nostri fraintendimenti e le nostre mancanze con un catalogo impietoso: «Abbiamo venduto e ucciso Lui, quando non abbiamo obbedito ai suoi comandamenti, quando ci siamo voltati da un’altra parte di fronte al fratello, quando non abbiamo servito, amato, abbracciato chi era nel dolore, o abbiamo insultato, maledetto, offeso l’altro».

Siamo bravi a puntare il dito, a commentare che le cose vanno a rotoli, che gli altri meriterebbero una lezione pesante. Eppure quel che condanniamo è talvolta anche «ciò che abbiamo fatto», che «unito al peccato di altri, ha reso possibile i drammi che riempiono le cronache di ogni giorno. Senza che neanche ce ne rendiamo conto. (…) Gesù parla di noi, parla a noi e noi siamo davanti a lui. Lui, con calma, fissandoci negli occhi e dentro il cuore, ci racconta la storia di Giuseppe venduto dai fratelli. Non ci accusa; non ci condanna; semplicemente ci racconta quella storia e ci chiede di ascoltarla; è sicuro che ne capiamo il significato. E, come se non bastasse, con la stessa calma, ci racconta anche la parabola dei contadini malvagi. Scandisce le parole, perché entrino in noi e ancora, perché noi capiamo da soli; continuando a fissarci negli occhi, mentre noi facciamo fatica a sostenere il suo sguardo; non c’è rabbia nel suo sguardo, non c’è risentimento, solo infinito amore, ma proprio per questo non riusciamo a sostenerlo».

Il suo sguardo è lo sguardo che recuperiamo nella presenza muta e indifesa, fragile e umile del suo corpo eucaristico offerto in sacrificio per noi. Con la Sua presenza e le Sue parole «il Signore Gesù svela la radice del male che è in ognuno di noi, la necessità di vigilare perché l’uomo vecchio non prenda il sopravvento, perché guardando in faccia il male che ci attacca, lo possiamo prevenire confidando in Lui. È questo alla fine ciò che conta e ciò che il Signore vuole da noi. Che smettiamo l’atteggiamento farisaico di chi si crede giusto e di non aver bisogno di guarigione e assumiamo invece l’atteggiamento che onora la verità, facendoci prendere coscienza di avere un assoluto bisogno del tocco della mano di Dio per la nostra salvezza».

Non è un libro per vecchi la Bibbia. Anche se spesso i suoi racconti hanno il lieto fine. Un finale che rivela principalmente la misericordia di Dio, la sua alleanza fedele, aldilà del nostro merito. Giuseppe, «odiato dai fratelli, sarà quello che salverà i fratelli, quando, mossi dalla carestia, cercheranno rifugio in Egitto dove Giuseppe è diventato importante. Lo scartato diventa il salvatore (…) Così la parabola dei contadini ci dice che il figlio ucciso, Gesù, darà salvezza agli uomini».

Sì il Signore ci conosce e sa che abbiamo bisogno di lieto fine. Anche se non a buon mercato. Desidera, in primo luogo che ci conosciamo, nella nostra reale misura e miseria.per costruire «la nuova umanità che inizia dal nostro cuore pentito e redento. A partire da stasera».

Prossimo appuntamento venerdì 9 marzo, con la Stazione Quaresimale dalla Madonna del Soccorso fino alla Chiesa di San Bartolomeo Apostolo.

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