Che cos’è l’accoglienza? Una riflessione a partire dalle parole del vescovo
Ci sono molti spunti di riflessione, almeno per coloro che siano riusciti a conservare calma e ragionevolezza, nelle parole che il vescovo di Pistoia ha rivolto alla Chiesa e alla città nel suo recente comunicato. Parole che rappresentano certo un contributo utile alla comprensione di quanto sia accaduto nel tempo recente.
Uno dei richiami sui quali il comunicato di mons. Fausto si incentra riguarda il valore dell’accoglienza. La domanda che in tutta questa vicenda realmente rintocca, sottotraccia, profonda e sorda, è infatti proprio questa: che cos’è davvero l’accoglienza? Cosa significa veramente accogliere? È questo il punto vero di quanto accaduto, finora affrontato solo dalle parole del vescovo, sul quale appare necessario riflettere. Si tratta di una domanda e di una questione che travalicano gli spiccioli fatti di cronaca più o meno gradevoli.
In questo senso non è possibile non cogliere nelle parole del vescovo il tentativo di strappare alle logiche della cronaca gli accadimenti e gli episodi, per loro stessa natura sempre effimeri e passeggeri, e ricondurre il tutto agli orizzonti di senso, ai significati primi e ultimi dove il rumore della cronaca non può riuscire ad arrivare. Non si tratta, infatti, o non si tratta più di una semplice vicenda parrocchiale. Quello che ormai è in discussione è uno dei valori di riferimento di chi cerca di seguire il Signore. Che cos’è l’accoglienza? Come, e perché, e quando, e in nome di chi praticarla?
Lezioni splendide e senza tempo si potrebbero ritrovare, a questo riguardo, nelle pagine di profeti del nostro passato. Ne cito uno tra tutti: don Tonino Bello. L’accoglienza si rintraccia certamente nelle scelte pastorali che una comunità parrocchiale o una diocesi operano. E a questo proposito occorre dire che sarebbe (stato) bello poter vedere che molte parrocchie si adoperano in questa direzione, mentre si deve purtroppo annotare che i molteplici appelli di mons. Tardelli in tal senso, invece, sono stati scarsamente o frettolosamente ascoltati. Ma ancora di più l’accoglienza si rintraccia in uno stile pastorale, in un atteggiamento interiore davanti ad ogni vicenda. Di essa ci sono chiarissimi e inequivocabili segnali rivelatori che ne evidenziano la presenza (o l’assenza) e che, a volte istintivamente, le persone sanno riconoscere senza errore.
L’accoglienza cristiana quindi è veramente tale quando diventa stile di vita ancora più e ancora prima che scelta organizzativa. Quali siano questi segnali non è semplicissimo da dire, ma alcuni possono essere individuati. Certamente il rispetto dell’altro qualunque siano la sua provenienza o il colore della pelle o l’età o le convinzioni politiche. Certamente il rifiuto dello scontro, a partire proprio da coloro che la pensano diversamente.
L’accoglienza, quando è atteggiamento interiore – e quindi stile di vita, e solo allora scelta operativa – non ha nemici, non sente persecutori, non interrompe il dialogo con alcuno. Vede, apprezza, dà valore alle ragioni dell’altro; fa sue le esigenze di tutti, quelle fisiche, quelle morali, quelle pastorali; si adopera perché chiunque si possa sentire preso in cura.
In un certo senso noi cristiani ne abbiamo un alto modello perché l’accoglienza, se è vera, è il frutto di quell’amore all’altro che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Viceversa, se anche dessi tutti i miei beni ai poveri e perfino consegnassi il mio corpo alle fiamme, non sono nulla di più di un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
Un programma altissimo che coglie tutti in difetto, a partire dal sottoscritto, e di fronte al quale l’unico atteggiamento possibile è un’umiltà silenziosa e raccolta.
C’è una domanda nel comunicato che il vescovo Fausto ha rivolto che rintocca e fa riflettere. Come possiamo far crescere tra di noi, nelle nostre comunità, nella nostra città il senso di una fraternità accogliente? Di fronte a quali percorsi, a quali vicende, a quali testimonianze il cuore si allarga, lo spirito cresce, le coscienze maturano? Cosa può ancora essere capace di renderci persone migliori?
Difficile da dire. Di sicuro nulla e nessuno che scelgano di consegnarsi alle alterne sorti della cronaca e alle logiche mediatiche possono farlo. Bauman ha detto parole decisive a questo proposito, tanto per citare qualcuno. Anche se a volte ne siamo tentati e la nostra fragilità ci fa cadere in questi atteggiamenti non possiamo dimenticare che certo non è con la contrapposizione, col dire quattro e quattr’otto, con la pressione mediatica, col dividere i buoni dai cattivi che si dà all’altro una occasione di riflessione, di cambiamento o di integrazione.
Dialogo, pazienza, dolcezza, cura del dettaglio, disponibilità a mettersi in discussione, inclusività ed attenzione nei confronti delle necessità di ognuno, sono la strada obbligata per chiunque e specialmente per chi sceglie di stare dalla parte degli ultimi. Di più, sono l’inoppugnabile riscontro della bontà delle intenzioni profonde.
Un ultimo punto mi preme sottolineare nelle parole del vescovo Tardelli: il ruolo della politica nelle vicende ecclesiali. Altissimo è il contributo che, almeno in tempi passati, i cristiani e il pensiero cattolico hanno saputo dare alla vicenda politica del nostro Paese, almeno alla politica intesa come servizio all’uomo, impegno disinteressato per il bene comune, forma di carità. Tuttavia la distinzione e lo scarto di questi valori di fondo con l’attualità e con la cronaca è piuttosto stridente perché tali principi, peraltro da tutti evocati, anche in questo caso non sembrano nascere da atteggiamenti ed orizzonti interiori che poi diventano stili di vita e alla fine si incarnano in decisioni e scelte e comportamenti. Restano spesso parole. Parole di cartone.
Il rapporto tra la Chiesa e la politica – si potrebbe dire recuperando un linguaggio un po’ arcaico – va facendosi di conseguenza molto complesso. Se non mancano atti e circostanze di aperta ostilità, permangono tuttavia situazioni e momenti (ad esempio quelli elettorali) in cui la politica, nelle sue espressioni di partito o di associazione, cerca di strumentalizzare la Chiesa, a volte anche per supplire ad una mancanza di idee o di collegamento vero con le persone. Purtroppo non sembrano scarseggiare infatti coloro che, a vario titolo, cercano di sfruttarla dal punto di vista della visibilità personale, o economico, o del pubblico consenso o altro ancora. Ed ogni vicenda di cronaca, perfino questa, ne è un esempio.
Eppure anche di fronte a questo la Chiesa deve continuare a dialogare e a battersi, opportune et importune, per un mondo in cui l’uomo, la sua dignità e i suoi bisogni fondamentali siano al centro.
Se mai come ora è stato fragile e problematico il dialogo tra Chiesa e politica, tra Chiesa e politici (o aspiranti tali), è altrettanto vero che mai come ora è urgente riaprire questo dialogo e cercare di dare, da cristiani, il contributo più efficace possibile specialmente in un tempo, come è stato detto nelle conclusioni della Settimana Sociale di Cagliari, di «investimenti senza progettualità; finanza senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza; politica senza società; rendite senza ridistribuzione; richiesta di risultati senza sacrifici».
Orizzonti di senso – e non piccole vicende di cronaca – da riscoprire e sui quali riflettere a lungo. Almeno per chi vuole lavorare per una comunità più bella e più giusta.
Edoardo Baroncelli
ConDirettore Regionale della Pastorale Sociale e del Lavoro
Conferenza Episcopale Toscana