I 100 anni di don Italo Taddei
Il 25 ottobre don Italo Taddei, compie 100 anni. L’avvocato Alvaro Bartoli, che dal 1956 fino al 1965 è stato uno dei suoi “ragazzi” , racconta don Italo e la storia della “Casa del ragazzo”. Una bella pagina della chiesa pistoiese che non può essere dimenticata.
Avvocato, come ha conosciuto don Taddei?
Dopo la morte di mio padre nel 1955, in quanto orfano di lavoratore fui accolto nella “Casa del ragazzo” di via Enrico Bindi (a Monteoliveto), nell’ala del complesso già riservata al Seminario Minore. Allora eravamo una sessantina di ragazzi dai 10 anni in su. Personalmente sono profondamente debitore di don Taddei: contrariamente alle intenzioni dell’ente ENAOLI (ente nazionale orfani e lavoratori italiani) che pensava di avviarmi ad un istituto professionale, desideravo studiare latino e greco, così grazie alla tenacia e all’incoraggiamento di Don Taddei, anziché la scuola dell’ente, mi fu possibile frequentare il Liceo Forteguerri di Pistoia.
Può parlarci brevemente della sua personalità?
Don Taddei non era un teorico dell’educazione, ma aveva il senso della praticità e l’intento dell’inserimento dei propri ragazzi all’interno della comunità cittadina, tenendo conto delle loro aspirazioni e desideri, come delle loro capacità. Don Taddei ha sempre avuto rispetto dei “ragazzi”, oggi non solo sparsi a Pistoia, ma anche in Italia e all’estero. Tra loro ricordo Emilio, che partì per il Canada e dopo mantenne a lungo contatti con don Italo e gli altri ragazzi, chiedendo per sé fotografie e anche, per ricordo, una bandiera italiana. I ragazzi frequentavano le scuole pubbliche e grazie al suo aiuto sono state inseriti nel mondo del lavoro, trovando ognuno la propria strada. Tra loro ci sono stati anche laureati, musicisti che si sono specializzati in conservatorio, uno dei quali entrò nell’orchestra della RAI; altri sono diventati docenti e comunque si sono inseriti pienamente nella società. Oggi siamo quasi tutti nonni o bisnonni.
Don Taddei era un uomo forte: pretendeva, ma soprattutto incoraggiava a uscire dalla marginalità, a vivere un riscatto. Con lui abbiamo scoperto le Dolomiti, in cui ci accompagnava ogni anno, stringendo relazioni con altre comunità, anche fuori d’Italia, per momenti di collaborazione e ospitalità. Ci ha lasciato sempre liberi dal punto di vista religioso, ma era un sacerdote molto credente. Un episodio mi ha sempre colpito: uno dei ragazzi desiderava entrare in un corpo militare, ma tenuto conto dei precedenti familiari gli negarono l’accesso: don Taddei non si perse d’animo, andò a Roma, a parlare con i vertici militari perché fosse riconosciuto al giovane il diritto di entrare e la cosa si risolse.
Molti non sanno o non ricordano cosa fosse la “casa dei ragazzi” di Pistoia: ce ne può parlare?
Don Taddei iniziò la propria attività nel 1946, dopo due anni da cappellano a Montale inserendosi nella difficile realtà cittadina dell’immediato dopoguerra, segnata da distruzioni e diffusa povertà. Iniziò le sue attività con i giovani nel ricreatorio del Tempio in via San Pietro con l’aiuto della signorina Spagnesi e, tra gli altri, del maestro Amadori e del canonico Lelli. In un ala del seminario minore poté poi svolgere la sua attività di accoglienza di giovani orfani, occupandosi -tra le mille difficoltà dei primi anni- anche delle faccende più pratiche, ad esempio, imbullettando le finestre perché all’epoca mancavano i vetri.
Don Taddei, vorrei ricordarlo, non era solo, ma sostenuto nella sua attività dalle sorelle che hanno vissuto fino all’ultimo con lui. Nella storia della “Casa del ragazzo” la svolta avvenne il primo agosto 1957, quando l’istituto si trasferì in via San Biagio in Cascheri, dove attualmente si trova la fondazione MAiC, in un immobile più grande, dotato di campo sportivo. Lì confluirono molti ragazzi anche da altre province italiane, alcuni anche segnalati dal Tribunale dei minori. L’ambiente era davvero funzionale e spazioso. La fine della “Casa del ragazzo” fu dovuta, in parte, alla legge sull’adozione speciale del 1967, che svuotò gli istituti educativo-assistenziale. Nel 1975, con lo scioglimento dell’ONMI (opera nazionale maternità infanzia), ci fu una scelta politica (e forse anche ecclesiale) che pervenne allo scioglimento della “Casa”. D’altra parte, già per iniziativa di Don Taddei si era andati incontro a soluzioni sempre più legate al coinvolgimento delle famiglie. Nel 1977 don Italo diventò segretario del cardinale Benelli per poi continuare la sua attività presso la Santa Sede, nell’ufficio delle migrazioni. Più recentemente è diventato canonico di San Giovanni in Laterano, dove attualmente risiede.
Sono molti i ricordi che la legano a quel tempo trascorso con lui nella “casa del ragazzo”: com’era la vita con lui?
Le nostre giornate nella “Casa del ragazzo” non erano segnate da un rigido regolamento, ma c’era un bel senso di famiglia: ogni ragazzo aveva la propria responsabilità all’interno della casa: qualcuno si occupava della biblioteca, chi si preoccupava dei giochi, chi faceva “l’infermiere”: c’era un senso di responsabilità diffusa, ma anche tante difficoltà economiche. Eppure don Italo faceva di tutto per inserirci nella comunità cittadina: frequentavamo le attività culturali di Pistoia, facevamo uscite in montagna. Nella Casa fu anche istituita la “Banda primavera”: una piccola banda musicale in cui suonavano quasi tutti i ragazzi, guidati dal maestro Morosi; un’opportunità che dette spazio anche a momenti di uscita in diverse città italiane: Firenze, Bologna, Roma…
All’interno della casa, pur essendoci ragazzi segnalati e sostenuti dagli enti più diversi in base alle situazioni familiari di provenienza, per don Italo non c’erano differenze. Don Taddei si preoccupava di inserirli nel mondo del lavoro, aiutandoli anche a mettere su dei risparmi via via che iniziavano a lavorare. Ci ha sempre insegnato ad aborrire la parola “assistenziale” perché limitativa al diritto proprio di ogni ragazzo. Non dimenticheremo quanto ha fatto per noi. Ricordo che una volta gli regalammo un piccola targa per la sua auto, una fiat 600 familiare: c’era scritto: “Papà non correre”.
Daniela Raspollini