Omelia per la Festa di San Domenico (24 maggio 2016)

FESTA DI SAN DOMENICO

Chiesa di San Domenico – Pistoia 24 maggio 2016

 

Il ricordo di San Domenico ci vede qui riuniti stasera, in questa chiesa pistoiese a lui dedicata, nell’occasione anche degli ottocento anni di vita dell’Ordine. Pistoia deve molto ai figli di San Domenico. L’opera del Beato Vescovo Andrea Franchi (1335 – 26 maggio 1401) rimane un momento importante nella storia della chiesa pistoiese, per la predicazione fervente, per l’attenzione ai poveri, per la costante opera di pacificazione nella città. Oltre a lui, molti altri sono i testimoni di fede domenicani – uomini e donne – che hanno lasciato traccia in questa nostra terra. Fino ad arrivare ai nostri giorni e ho in mente in particolare la figura di Mons. Paolo Andreotti (1921 – 1995), vescovo missionario in Pakistan, scomparso in tempi ancora recenti.

Vien da dire davvero con il profeta Isaia: “Come sono belli i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza in Sion!”. Si, perché così può ben essere definito San Domenico e chi lo ha seguito e lo segue: un messaggero che annuncia la pace, un messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza.

Il brano della prima lettura, tratto dal Deuteroisaia, parla di consolazione e di speranza. E’ un invito a Sion, la città santa, immagine del mondo intero che ha bisogno di questo messaggio di consolazione e speranza, viste le condizioni in cui versa. Il motivo della consolazione è il ritorno del Signore in Sion. Nei versetti che precedono la pericope liturgica, Sion, personificata nella figura di una nobile signora, caduta nella polvere, con gli abiti sporchi, è invitata a rialzarsi e a rivestirsi delle vesti più splendide perché viene il Signore. E l’annuncio, il vangelo, di questo ritorno del Signore è portato da un messaggero che corre verso Gerusalemme attraverso i monti. Le sentinelle della città lo avvistano, e alzano la voce, gridano di esultanza. Ecco prorompere la gioia che da speranza a una città che è in rovina, che ha bisogno di riscatto e salvezza. Il Signore viene a salvare il suo popolo ma questa salvezza è per tutti i popoli, tutti i popoli sperimenteranno la salvezza del Signore. Canto profetico, questo di Isaia, che apre direttamente alla scena della venuta del Salvatore in terra di Giuda, a quella Buona notizia che è il Signore Gesù.

I “messaggeri di buone notizie”, cioè di vangelo – i settanta traducono il mebassèr ebraico con una forma del verbo evangelizzo (εuαγγελιζομένοS) – per San Paolo (in Rm 10,15) sono gli apostoli, annunciatori del messaggio della redenzione operata da Cristo. Gli apostoli e i loro successori, come ci fa intendere proprio Paolo scrivendo a Timoteo nel brano ascoltato. Estensivamente possiamo pensare però a tutti i battezzati che condividono la gioia dell’annuncio del Vangelo. Ce lo ha recentemente ricordato Papa Francesco nella Evangelii gaudium. Una missione nella quale i figli di San Domenico si sono sempre distinti: “santa greggia” dice Dante, che “Domenico mena per cammino”, alla cui scuola però, come avverte ancora il sommo poeta, “ben s’impingua se non si vaneggia”.

Il brano della II a Timoteo costituisce quasi il testamento spirituale di Paolo. Il tono è accorato, possiamo anche dire preoccupato. Timoteo deve sentirsi responsabile dell’annuncio della Parola. Di qui l’insistenza ad assumersi un impegno a tutto campo che l’incalzare dei verbi sottolinea: annuncia, insisti, cerca di convincere, rimprovera, esorta. Il messaggero, l’evangelista o, come nella traduzione liturgica attuale – l’annunciatore del vangelo – è portatore di una Buona notizia che è salvezza: la Misericordia prorompente di Dio rivelatasi nella morte e resurrezione di Cristo. Non è però dato affatto per scontato che gli uomini, tutti gli uomini, questa buona notizia la vogliano accogliere e, prima ancora, la considerino davvero “buona”. Con sottile ironia infatti Paolo descrive una situazione che sembra una profezia dei nostri tempi: pur non sopportando più la sana dottrina, gli uomini non rinunceranno a farsi erudire, non da uno solo, ma addirittura da una folla di falsi maestri che accarezzano le loro orecchie e propineranno loro favole, invece della verità.

Il “messaggero di pace e di salvezza” in ogni caso non si può e non si deve arrendere. Paolo porta ad esempio se stesso. Già intuisce quale sarà la sua fine; ciononostante ha il cuore pieno di gioia nella consapevolezza di aver fatto del suo meglio per adempiere al mandato che gli era stato affidato. Quelli di Paolo dovrebbero essere i sentimenti di ogni buon domenicano, certamente, ma anche di tutti noi, chiamati dal Signore a essere testimoni del suo Vangelo in questo nostro tempo; dentro questa umanità contraddittoria ma al tempo stesso amata infinitamente da Dio.

Il brano di Matteo è la conclusione del suo vangelo. Una sua narrazione esclusiva, anche se ci sono dei parallelismi con gli altri evangelisti. Qui però siamo in Galilea. La Galilea delle genti, regione di frontiera aperta al mondo dei pagani, dei non circoncisi. Questa cristofania apostolica, sul monte, in Galilea, orienta decisamente alla missione universale. L’atto dell’adorazione precede la missione, anche se è un’adorazione sempre minacciata dal dubbio. Qualcosa dunque che si deve rinnovare ogni giorno. Ogni giorno l’inviato deve incontrare il Signore risorto e fare esperienza di Lui. Da questo incontro nasce la missione. Come non ricordare qui il ben noto motto domenicano, così sapiente e vero: “contemplata aliis tradere”? E la missione, in questa finale matteana è connotata da una indiscutibile dimensione ecclesiale. Potremmo dire, si, la chiesa è al servizio del Regno, ma non si può entrare nel Regno se non appartenendo ad essa. La missione quindi, secondo Matteo, che non conosce limiti di spazio e di genti, è per tutti; che non conosce limiti di tempo, è sino alla fine dei tempi, ha come scopo specifico quello di far discepoli, portando gli uomini all’adesione di fede alla persona del Cristo, attraverso il battesimo quale sigillo interno e segno esterno di appartenenza alla chiesa. Un’adesione che è inseparabile dall’osservanza dei precetti evangelici: “insegnando ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato”.

Compito certo arduo, quello che ci è affidato, considerando anche la nostra debolezza e il nostro peccato. Ma la chiusa del Vangelo di stasera ci deve dare coraggio. “Ecco” – dice il Signore – “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.

 




Diritti civili e Vangelo. La riflessione del Vescovo tra ragione, magistero e segni dei tempi

Pubblichiamo di seguito una riflessione del vescovo Tardelli sul tema delle unioni civili e altre questioni etiche di attualità.

“Desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza.” (Amoris laetitia n. 250) … “Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso». (Amoris laetitia n. 251).

Con queste chiare parole di Papa Francesco nella Esortazione apostolica post sinodale “Amoris laetitia” che egli ha voluto donare alla chiesa e al mondo, è riassunto in modo splendido il pensiero dei cattolici riguardo alle cosiddette “unioni civili” e al rispetto sempre e dovunque dovuto alle persone.

  1. QUALI DIRITTI?

La lotta per veder riconosciuti i diritti civili è certamente sacrosanta e ci deve vedere tutti uniti. Si tratta indubbiamente di una battaglia di civiltà. Quali sono però questi diritti? Bisogna pur domandarselo. Non credo si possano considerare diritti semplicemente i desideri degli individui. Confondere desideri e diritti
ha conseguenze deleterie per la società. Quando ciò accade, si costruisce un mondo piegato all’individualismo.

Di quali diritti civili si parla? Del diritto di chiamare matrimonio ciò che matrimonio non è? Del diritto di appropriarsi di un nome per piegarlo ai propri desideri? È forse diritto civile affittare un utero? È diritto civile pagare qualcuno perché ci dia un figlio? È diritto civile impedire a un bambino di avere un padre e una madre, suo padre e sua madre?

Sembrerebbe evidente di no. Credo che molti fautori del riconoscimento delle unioni civili siano pronti a dire che no, non è di queste cose che si parla quando si vogliono affermare i diritti. Se però i desideri sono diritti, perché no? Non ora, forse, ma domani?

  1. LE UNIONI OMOSESSUALI

Il matrimonio è una cosa. Le unioni omosessuali sono un’altra. Dovrebbe essere pacifico. Il matrimonio che è alla base della società è l’unione di un uomo e di una donna, di per sé stabile, da cui sorgono per generazione, di per sé, i figli. Tale matrimonio è una realtà che precede lo stato e che la legge riconosce e tutela a motivo della sopravvivenza e della vita stessa di un popolo, ma che non inventa. La famiglia poi, in senso proprio, è quella fondata sul matrimonio. Le altre si chiamano famiglie in senso lato.

Metaforicamente dunque si può benissimo dire che dove c’è amore c’è famiglia. In senso specifico però ciò non basta. Anche l’attuale Costituzione italiana ce lo ricorda. Comunque, pur se domani si cambiasse la Costituzione, resta il fatto che equiparare legalmente le convivenze omosessuali alla famiglia naturale fondata sul matrimonio è prima di tutto un assurdo logico. In secondo luogo è fonte di confusione antropologica deleteria ai fini sociali, in particolare se desse adito a adozioni o, peggio, a forme surrogate di genitorialità, dove il diritto del bambino sarebbe misconosciuto in partenza e la povertà sfruttata.

Occorre poi mettersi dalla parte del bambino che in tutta la questione è la parte più debole. Se un diritto deve prevalere sugli altri, è il suo, quello del più debole. E il bambino ha diritto a nascere in una famiglia in senso proprio, salvo casi di necessità che chiedono di dare per lo meno una qualche forma di famiglia a chi non ce l’ha. Una volta c’erano gli orfanotrofi, oggi possono esserci altre forme. Si tratta però sempre di sopperire a situazioni di disagio in essere, non di crearne consapevolmente delle altre.

Le unioni tra persone dello stesso sesso possono comunque avere un riconoscimento che comporta diritti

e doveri. Sono però altra cosa dal matrimonio e dalla famiglia in senso stretto. Che due persone, ma anche tre, quattro o più ancora, dello stesso sesso o meno non fa differenza, costituiscano una di quelle “formazioni sociali” di cui parla l’Art. 2 della Costituzione, può essere senz’altro considerato un fatto positivo, in quanto incrementa il tessuto solidaristico della società.

  1. LA RICERCA DI RICONOSCIMENTO

Qui si apre un altro discorso. Questo forse è il vero problema che sta a monte di tutto il resto. Chi vive la condizione omosessuale sente la necessità di avere un riconoscimento che lo tolga da un disagio evidentemente reale. Disagio accentuato enormemente da atteggiamenti irrispettosi, offensivi o addirittura violenti che sono inaccettabili. Ci si illude allora che la strada da percorrere sia quella del riconoscimento dell’unione omosessuale come matrimonio o, in via secondaria e di passaggio, come unione civile. Non ci si rende conto però, che non sarà mai una legge a far superare il disagio, il quale non sta nelle leggi ma nelle mentalità e nella cultura.

L’omosessualità rimane un mistero le cui cause sono ben lontane dall’essere individuate. Chi è omosessuale non è da emarginare, condannare o allontanare dalla società. È un figlio amato da Dio, né più né meno di ogni uomo. È addirittura fuorviante introdurre divisioni nell’umanità sulla base degli orientamenti sessuali.

Ogni essere umano ha un’inalienabile dignità a prescindere e nessuno può ignorarla o calpestarla. Per questo non può essere oggetto di discriminazione e nemmeno di sarcasmo. E vogliamo quindi anche essere in prima fila nella battaglia contro l’omofobia per una società rispettosa di ogni persona.

La questione è piuttosto un’altra e cioè se dall’orientamento omosessuale si possa dedurre la bontà, la giustezza, la validità di un legame di tipo coniugale o matrimoniale. Ecco, qui la Chiesa, sulla scia delle Sacre Scritture, ma anche a seguito di una riflessione razionale sul significato dell’essere uomo e donna, su quella cioè che si può definire la struttura della natura umana, afferma che no, non è un amore di tipo matrimoniale quello che può realizzarsi tra persone omosessuali. Può esserci affetto, amicizia anche profonda, comunione, amore, ma rapporto di tipo coniugale no. Esso sarebbe privo infatti della possibilità di realizzare quell’unità psicofisica complementare, dialogica e di per sé aperta alla vita, che è tipica di una relazione coniugale.

L’amore è parola bella e grande, ma estremamente generica. Dire che “l’amore è amore” è una banalità incredibile e insieme una menzogna. I tipi di amore infatti sono tanti. Alcuni addirittura si chiamano amore ma sono solo violenza e sopraffazione. Altri possono essere veri, autentici, profondi e intensi ma diversi l’uno dall’altro, come per esempio l’amore di un padre e di una madre per i propri figli, di un amico per l’amico, di un discepolo per il maestro o viceversa, come l’amore ancora per un animale e così via. Non tutti questi amori sono di tipo coniugale o sessuale. Non tutti sbocciano in un matrimonio. Così, nell’amore omosessuale, la via per così dire della propria realizzazione, non è tanto quella del matrimonio, bensì quella della maturazione di una capacità oblativa che raccolga tutte le proprie energie nella dedizione al bene altrui e dell’umanità.

  1. TENDENZA OMOSESSUALE E PRATICA OMOSESSUALE

Bisogna poi fare ancora una considerazione di carattere più generale. Dalle tendenze che ognuno di noi ha, sessuali o meno, non deriva mai automaticamente la legittimità morale del comportamento corrispondente. Le tendenze sono una cosa di cui non si è personalmente responsabili. Le troviamo in noi stessi, senza la nostra volontà. I comportamenti invece derivano dalla libera volontà, sono espressione di libere scelte e quindi sono soggetti a una valutazione di tipo morale. Dalla tendenza omosessuale perciò occorre distinguere la pratica omosessuale. Le due cose non si identificano.

La tendenza omosessuale, infatti, indica l’attrazione psicosessuale per persone dello stesso sesso che può dar seguito – se lo si sceglie – a una pratica sessuale. Un comportamento, questo, che resta discutibile sul piano morale ma che si inquadra in un contesto che occorre prendere in debita considerazione. La pratica
o comportamento, invece, indica la pratica sessuale che di per sé potrebbe essere messa in atto anche da persone che non abbiano tendenza omosessuale, quindi a solo fine ludico. In questo secondo caso, l’esercizio della sessualità non è assolutamente accettabile, vuoi perché non scaturisce dall’amore, vuoi perché è finalizzato esclusivamente alla soddisfazione di un piacere, vuoi perché è privo della complementarietà che appartiene alla relazione sessuale, sia infine perché non è in alcun modo aperto alla generazione di vite umane.

Oggi si è propensi a usare il termine “orientamento” sessuale al posto di “tendenza”. Va bene. Se però con tale termine si volesse affermare che i comportamenti sessuali sono determinati dalla libera volontà e per questo sempre legittimi dal punto di vista morale, avrei delle grosse perplessità. Vorrebbe dire in pratica che il comportamento sessuale esula completamente da ogni valutazione di tipo morale. Quindi non sarebbe umano. Chiaramente un assurdo.

  1. LA SITUAZIONE CHE STIAMO VIVENDO

Della situazione così come oggi si presenta, non possiamo che prendere atto senza recriminazioni e lamentele. Ci rendiamo anche conto che è molto difficile ragionare e far ragionare quando si è in presenza di una pressione mediatica di così grande forza e si sperimenta una specie di ubriacatura ideologica che rende impossibile ogni confronto serio e costruttivo. A farne le spese sono soprattutto i giovani e – io credo – gli stessi omosessuali. Ancor più comprendiamo allora che c’è da intraprendere una lunga strada, quella del rifondare, dell’educare, quella del porre con pazienza le basi di una nuova umanità che rinasca dalle ceneri del presente, imparando di nuovo a sillabare l’abc della vita. Sentiamo che dobbiamo lavorare molto perché la ragione torni a brillare e la fede a illuminare i cuori.

C’è una mentalità, una cultura della vita e dell’amore da ricostruire, partendo dalla testimonianza personale e dal recupero della voglia di cercare la verità senza pregiudizi. C’è anche un compito educativo da mettere in atto, che sappia tenere in debito conto l’acquisizione di una corretta visione antropologica, elaborata sulle ali della ragione e della fede. Cosa cui forse non abbiamo dato il debito peso. La “mentalità di fede” a cui l’evangelizzazione e la formazione cristiana mirano è ben espressa nella Evangelii nuntiandi di Papa Paolo VI che mi piace citare perché davvero illuminante: “per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione «Gaudium et Spes», partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio”Ev(angelii nuntiandi, n. 19).

In un’epoca come la nostra, dove per forza di cose aumenta a dismisura il senso di frustrazione personale e quindi la rabbia, anche l’evangelizzazione non può che assumere i connotati capillari di una prossimità compassionevole che ricostruisce pezzetto per pezzetto, con infinita pazienza, l’umano più semplice ed elementare. Dobbiamo però metterci all’opera, sapendo che il vangelo della misericordia è salvezza per l’uomo di tutti i tempi e in qualsiasi condizione si trovi. La strada da fare è lunga e i risultati non sono per l’immediato. Siamo certi però di lavorare per un futuro migliore.

Vi saluto con affetto e vi accompagno con la mia benedizione.

+ Fausto Tardelli




Domenica del Buon Pastore

Domenica del buon pastore

Cattedrale 16 aprile 2016

“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna”, ha detto Gesù nel Vangelo che abbiamo ora proclamato.

Con queste parole Gesù si presenta oggi quarta domenica di Pasqua, chiamata la domenica del Buon Pastore. Gesù si presenta come guida e maestro che guida il gregge, come pastore cioè. Un’immagine forse non più consueta per noi ma chiara al tempo di Gesù. Gesù si presenta come guida sicura che conduce al pascolo le pecore, verso prati verdeggianti, verso acque fresche dove è possibile dissetarsi, acque di sollievo, acque di salvezza.

Gesù si presenta a noi così oggi, ma lo fa possiamo dire con le carte in regola, non come un millantatore. Son tante le persone che si offrono come guida degli altri ma sono guide false e pericolose; come capi e sapienti ma pensano solo a pascere se stessi. Il vero e autentico pastore, quello con le carte veramente in regola è Lui, perché Lui ha dato la sua vita per noi, ha versato tutto il suo sangue per noi, ha legato la sua vita a noi facendosi, pur essendo Dio, uno di noi in tutto eccetto il peccato.

Ecco perché nel libro dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato come seconda lettura, si dice che il nostro Pastore Gesù è anche agnello, l’agnello sacrificale, l’agnello che va muto alla morte accettata per amore nostro. Gesù è il pastore vero perché è anche l’agnello di Dio che porta su si di sè il peccato del mondo, tutti i peccati degli uomini.

Non possiamo che ringraziare Gesù nostro pastore e guida per quello che ha fatto e continua a fare per noi. Il suo amore è tenerissimo e forte, perchè egli ci conosce uno ad uno, conosce il timbro della nostra voce, il colore e il numero dei nostri capelli, conosce i nostri peccati e i nostri talenti, sa il nostro nome.

Nello stesso tempo però dobbiamo domandarci, carissimi fratelli e sorelle, se noi siamo per davvero pecorelle del suo gregge, se ascoltiamo, noi, la sua voce e lo seguiamo ogni giorno. Perché questo ci chiede il Signore Gesù: che liberamente, consapevolmente, decisamente e radicalmente lo ascoltiamo e lo seguiamo; che ci facciamo guidare da Lui e ci lasciamo condurre ai pascoli erbosi e alle acque della salvezza. Ecco la questione seria, la questione davvero seria: se ci sforziamo di seguire con tutte le nostre forze il Signore in una vita lontana dal peccato; se cioè possiamo dire in verità che seguire il Signore Gesù è la nostra prima e fondamentale preoccupazione, il primo e fondamentale interesse della nostra vita,  il primo e assolutamente irrinunciabile impegno.

Certo, carissimi amici e fratelli, a vedere come vanno le cose nel mondo, bisogna dire che questa non è la preoccupazione fondamentale. Un’Europa che non sa accogliere gli immigrati, che erige muri e fili spinati, è lontana dalla volontà di Cristo, non è certo guidata dal Buon Pastore. Di fronte alla catastrofe umanitaria più grande dopo la seconda guerra mondiale, come ha detto oggi il Papa andando nell’isola di Lesbo, le risposte sono incerte, paurose, spesso egoistiche. Chi fugge da guerra e miseria è visto come un nemico. Ma certo, chi, popolo, gruppo o singolo contribuisce a causare questo enorme flusso migratorio – e sono tanti i responsabili diretti – non è certo in ascolto di Dio e della sua parola di amore. Tutto si tiene: la catastrofe umanitaria degli immigrati si unisce alla drammatica e diffusa soppressione di bambini nel seno materno mediante l’aborto che è un vero flagello dell’umanità, anche di quella più sviluppata. Si unisce ancora alla dilagante immoralità che fa del corpo un mero strumento di piacere o di mercimonio; si unisce al flagello della corruzione dove l’interesse per il denaro domina i cuori; si unisce allo sfascio della famiglie, al numero incredibile dei divorzi e delle separazioni, alla violenza perpetrata in mille modi sulle donne, allo sfacelo di una vita vissuta cercando solo di fare quello che ci piace e pare, senza rispettare i comandamenti dati da Dio a ogni uomo.

Siamo spesso, dobbiamo riconoscerlo, gente che non ascolta per niente la voce del Buon Pastore; siamo distratti, insensibili, attratti da mille voci che non sono la sua, guidati da chi detiene le leve del potere e della comunicazione, ben lontani dal seguire invece Lui, il vero maestro che ci vuol condurre sulle strade della verità, della giustizia e dell’amore. E’ così, purtroppo. E, cosa ancora più triste, è così anche tra noi che pure siamo il gregge particolare di Cristo, la sua chiesa, i suoi discepoli.

“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”, ci ha detto il Signore Gesù. Domandiamoci allora se sia proprio così: se possiamo dire di ascoltare sempre la sua voce, se ci lasciamo guidare da Lui, se lo seguiamo.

Questi interrogativi sono oggi per tutti noi. E ve li dovere porre in particolare anche voi carissimi figli miei che oggi vi presentate per essere ammessi ufficialmente tra i candidati dall’ordine sacro del diaconato e del presbiterato. In voi sono stati riconosciuti i segni di una chiamata al ministero sacro che ora dovrete attentamente verificare con l’aiuto della chiesa e quindi preparavi ad esercitarlo con cuore puro e dedizione somma al Signore e alle anime. La questione di fondo sarà sempre anche per voi innanzitutto quella di essere veramente persone che ascoltano e seguono il Buon Pastore e si lasciano condurre da Lui verso la pienezza della vita.

La prima e la seconda lettura della Liturgia di oggi, ci fanno capire, l’una, come si concretizza la sequela di Gesù Buon Pastore, mentre l’altra ci fa comprendere che i servitori fedeli del Signore entreranno nella gloria.

Nel libro degli atti degli apostoli, abbiamo visto Paolo e Barnaba alle prese con la missione, prima ai giudei e poi ai pagani. Ecco che cosa ha voluto dire per loro seguire il Pastore buono: mettersi a disposizione del Vangelo, mettersi ad annunciarlo, percorrere le terre di allora per portare a tutti la lieta novella del Regno. Questo impegno missionario, di testimonianza, di annuncio, d’incontro con gli altri perché tutti conoscano il salvatore, è il modo in cui si può e si deve concretizzare anche oggi la sequela di Cristo. Se da una parte questa comporta di rimanere in ascolto del maestro e quindi in un atteggiamento quasi passivo di fronte all’amore di Dio, dall’altra essa comporta necessariamente l’andare della missione, il movimento della missione, il percorso dell’annuncio del Vangelo e della testimonianza in opere della carità di Cristo.

Il libro dell’apocalisse, a sua volta, facendoci volgere gli occhi verso la Gerusalemme celeste dove i santi e i beati cantano la gloria di Dio, ci da gaudio interiore. Là il Signore asciugherà ogni lacrima dal volto dell’uomo e scomparirà ogni tristezza. Noi siamo in cammino verso questa pienezza. Il Pastore buono, se lo seguiamo, ci conduce direttamente là, nei pascoli eterni. Perché allora sgomentarci per la via? Perché lasciarci cadere le braccia nello scoraggiamento? Sicuramente il cammino della vita terrena è irto di difficoltà. Ogni giorno c’è da fare i conti con mille tentazioni, con la nostra fragilità, con il fascino del male. La vita si fa faticosa a volte, sottoposta a prove di varia natura che ci debilitano e tentano di rubarci la speranza. La visione nella fede della moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua che sta in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolta in vesti candide, ci conforta e consola. Camminiamo nella storia si, ma sappiamo però di essere già partecipi in qualche modo della vita del cielo. Per questo preghiamo questa sera, fratelli e sorelle, perchè nelle vicende del tempo, non ci separiamo mai dal nostro pastore il Signore Gesù, Agnello immolato, che ci guida alle sorgenti della vita.

+ Fausto Tardelli




Omelia del giorno di Pasqua 2016

PASQUA 2016. MESSA DEL GIORNO

 

Quel mattino lontano di tanti anni fa, quando il sepolcro dove era stato deposto il corpo di Gesù venne trovato vuoto – come abbiamo ascoltato ora nel vangelo – fu un giorno come tanti altri in Palestina e nel resto del mondo. I romani calpestavano ancora col peso delle loro legioni quella terra d’oriente. Erode era ancora sul trono, Anna e Caifa al loro posto nel tempio di Gerusalemme. Come ogni giorno, anche in quel giorno si uccise e si violentò, si rubò e furono perpetrati orrendi delitti. Continuò la disperazione di molti e ciechi e storpi e muti e sordi e lebbrosi continuarono a mendicare dolenti la possibilità di una vita migliore. Rispetto ai giorni precedenti, nulla sembrò cambiato quel mattino dopo il sabato di tanti secoli fa. Tutto era come prima, nessun problema era stato risolto.
All’apparenza però. Soltanto all’apparenza.

Oggi, dopo duemila anni, noi sappiamo che in realtà tutto cambiò in quel giorno; che fu l’alba di un nuovo mondo, perché in quel giorno l’amore vinse definitivamente la morte. Non era mai accaduto prima. Accadde quel mattino con quel crocifisso mite che perdonò chi lo stava uccidendo e risuscitò come aveva predetto. Se oggi siamo qui a cantare l’alleluia della festa, non è perché siamo fuori di senno, come sciocchi creduloni attaccati a fantasie di bambini. No. E’ perché quel mattino di Pasqua tutto cambiò per davvero; accadde qualcosa che mai era successo e che mai più si è verificato nel mondo: un uomo vinse la morte. Non come per una guarigione momentanea, passeggera. Di morti apparenti ce ne sono state e ne capitano a volte. No. Il Signore Gesù risuscitò dalla morte per non mai più morire. Risuscitò da morte ed entrò in una condizione di vita nuova e gloriosa. Portò i segni della passione su di sé, ma il suo corpo fu glorificato. Non fu semplicemente un redivivo ma un “risorto”, il “risorto” e dopo quel giorno molto lo hanno incontrato, vivo e anch’io, pur nella mia miseria, posso attestarlo.

La prova più evidente di ciò che accadde quel giorno è proprio che siamo qui e in una grande moltitudine di altri luoghi sulla terra, dopo duemila anni, nel nome di quel Gesù che fu ucciso perché non si parlasse più di lui ma che invece è più vivo che mai e lo sentiamo, lo vediamo presente, glorioso, vincitore del male e della morte.

Vorrei ora brevemente vedere con voi, carissimi amici e fratelli, i motivi per cui quel giorno cambiò per davvero la storia del mondo. Lo faccio perché si rafforzi la nostra fede e, conquistati dalla gioia pasquale, camminiamo sicuri attraverso le fatiche del tempo presente come messaggeri instancabili della misericordia di Dio.

Il primo motivo è che la vittoria di Cristo sulla morte confermò la verità dei suoi insegnamenti, del suo messaggio, del suo Vangelo. Se tutto fosse finito con la morte, quello che Gesù aveva fatto e detto in terra, si sarebbe necessariamente rivelato come una grande illusione. Se la morte lo avesse tenuto prigioniero per sempre, coloro che lo avevano accusato di essere un sognatore e un visionario, di prospettare una vita impossibile e irrealistica, che avevano giudicato la sua vita e il suo Vangelo una bestemmia e un inganno, una falsa consolazione per i perdenti del mondo, avrebbero avuto certo ragione. Avrebbero, essi, vinto e dimostrato la fallacia dell’opera di Cristo. Con la risurrezione invece, il Signore Gesù sbugiarda i suoi denigratori e dimostra la verità del suo messaggio, delle sue parole, dei suoi gesti e indica chiaramente che quella strada, quella che Lui ha indicato agli uomini, conduce alla vita, non è spezzata dalla morte, trionfa nella risurrezione.

Il secondo motivo è che in quel mattino si rivelò la forza invincibile dell’amore più grande della morte. Cosa fu infatti la morte di Cristo, come del resto tutta la sua esistenza terrena? La testimonianza suprema dell’amore che sempre perdona, sempre ama e mai cede al rancore, alla vendetta, all’odio. La grandezza della morte di Gesù sulla croce sta qui, nel fatto cioè che Egli ama fino in fondo, tutti, senza rancore verso chi lo accusava e lo crocifiggeva. Egli continua ad amare perdutamente, teneramente, fortemente, con tutto se stesso, Giuda che lo tradisce, Pietro che lo rinnega, i suoi che l’abbandonano. Ma egli continua ad amare perdutamente e totalmente i soldati romani che lo inchiodano sulla croce e lo trafiggono con il colpo di lancia; continua ad amare Pilato ed Erode, Anna e Caifa, tutti i farisei e i capi del popolo che hanno decretato la sua condanna. Egli continua ad amare il ladrone che lo offende come l’altro che ha pietà di lui. Egli continua ad amare tutti, senza ombra di cedimento alla rabbia e al risentimento, fino all’ultima goccia di sangue, fino al grido “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno…” Ed è questo effluvio d’amore senza misura per noi uomini alla fine che vince, che spezza le armi dell’odio e della violenza, che rompe il circolo vizioso delle ritorsioni e delle vendette. E’ questo amore che trionfa sulla morte. E questo effluvio abbondante di amore continua a riversarsi nel mondo senza sosta, perché Egli è vivo e non smette di amare di un amore infinito tutti noi. E dalla risurrezione che dimostra la forza potente dell’amore, i discepoli di Cristo vengono rincuorati. Noi tutti veniamo rincuorati perché sappiamo che possiamo continuare ad amare anche se il mondo ci odia, anche se dobbiamo salire sulla croce. Possiamo impegnarci ad amare senza scoraggiarci. Possiamo tendere fino allo spasimo estremo l’impegno dell’amore, perché sappiamo che in Cristo tutto rifiorisce e con la sua risurrezione è dato anche ai suoi discepoli di vincere la morte e far fiorire la vita.

Allora – carissimi fratelli e amici – pur immersi in un mondo che sembra rimasto ai tempi di Gesù e per tanti versi forse anche peggio, se siamo risorti con Cristo, cerchiamo di vivere una vita nuova, senza scoraggiarci. Cerchiamo le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgiamo il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Come l’apostolo Pietro anch’io vi dico stamani che Lui, Gesù risorto, mi ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome.

+ Fausto Tardelli




Veglia Pasquale 2016

Veglia Pasquale 2016

Canto di festa stanotte s’innalza in ogni parte del mondo. Alleluia. Il Signore è risorto. Si. E’ veramente risorto. Nel buio della notte del mondo, la luce di Cristo brilla splendente, avanza tremula ma diventa marea, bagliore di luce che illumina ogni cosa.

Esulti il coro degli angeli,
esulti l’assemblea celeste:
un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto.
Gioisca la terra inondata da così grande splendore:
la luce del Re eterno 
ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa,
splendente della gloria del suo Signore.

La creazione del mondo si rinnova stanotte. L’antico peccato è sconfitto. Stanotte siamo liberati dalla schiavitù dell’Egitto ed entriamo nella terra promessa, passando attraverso le acque rigeneratrici del Battesimo. Stanotte la Nuova ed eterna alleanza è sancita nel sangue dell’agnello innocente immolato per noi.

Quanti motivi avremmo, carissimi fratelli, per piangere e rattristarci anche stanotte. Quanti motivi per lasciarci cadere le braccia sconsolati e smarriti! Eppure no, non possiamo lasciarci andare. Cristo è risorto per noi, dopo avere portato su di sé i peccati di tutti gli uomini.

Cristo è risorto per le vittime innocenti che sono state uccise da barbari assassini. Ma Cristo è risorto anche per chi nel cuore sente solo odio e voglia di uccidere. Cristo è risorto per te che ti senti solo e smarrito. Per te che soffri perché hai perduto un amore. Per te che sei affogato nel vizio e nel male. Per te che pensi solo a te stesso e disprezzi i tuoi fratelli. Cristo è risorto per chi vive nella propria pelle il dramma di dover fuggire dalla sua terra, per chi è in cerca di lavoro e non lo trova. Cristo è risorto per tutti, per i giusti e per i malvagi, come per tutti egli è morto sulla croce e ha versato il suo sangue. Lo ha fatto perché i buoni lo siano ancora di più e i malvagi diventino buoni. Cristo è risorto per dare possibilità di vita nuova a tutti per permettere a tutti, se lo vogliono, di entrare nella pienezza della vita; per dare a tutti la possibilità di conoscere l’amore e vivere d’amore.

Ma se sei risorto Signore Gesù, se sei il vivente, dove ti possiamo incontrare, dove poterti toccare e vederti Signore? Le donne che andarono al sepolcro quel mattino di Pasqua, ti cercarono tra i morti ma non ti trovarono. Videro solo un sepolcro vuoto e degli angeli che le rimproverarono: Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui.

Si, carissimi fratelli ed amici, Cristo è risorto per tutti ma non possiamo certo trovarlo se lo andiamo a cercare tra le cose morte del mondo, tra le menzogne degli idoli vani, nei sepolcri che gli uomini sempre costruiscono, nei falsi paradisi. Non lo troveremo nelle morte ideologie, nelle morte ricchezze, nei calcoli dei potenti o nelle ragionerie dei poteri finanziari. Non troveremo il risorto la dove si celebrano i successi mondani e si illude la gente con ingannevoli proposte di felicità. Non lo troveremo nei miti del progresso tecnologico e della onnipotenza umana. Non lo troveremo certo nei fondamentalismi carichi di morte né nella presunzione dei farisei di oggi che si credono superiori agli altri e in grado di giudicare tutto e tutti. Non lo troveremo certo dove c’è sfruttamento e corruzione, dove si vende morte e si rendono schiavi gli uomini.

No il Signore risorto è altrove: in coloro che amano e sperano; dove si serve e ci si dona al fratello. Nella carne umiliata dei poveri. Laddove c’è una lacrima da asciugare, un dolore da consolare. Dovunque nel mondo si cerca la verità, si ama la giustizia, si lotta per un mondo di fratelli che si vogliano bene. Lo incontriamo particolarmente in quegli innumerevoli martiri della fede e dell’amore che hanno versato e versano il loro sangue per restargli fedeli. Là dove si lotta senza violenza perché le cose cambino nel segno della fraternità e della pace. Là dove si semina con fatica quotidiana il seme della speranza. Dove si spezza il pane che è il suo corpo dato per noi e si spezza la sua parola di vita e salvezza. Là dove si vive con gratitudine la vita riconoscendola dono di Dio; la dove si prega come figli di un Padre d’amore.

Ma il Signore risorto lo possiamo però incontrare nella fede anche stasera, qui, tra noi, in questa notte santissima, nel profondo del nostro cuore, se, con pentimento sincero ci apriamo al suo perdono e ci decidiamo di vivere una vita nuova. Egli è in mezzo a noi e ci parla. E’ qui e ci mostra le ferite dei chiodi e del costato trafitto dalla lancia. E’ qui e si dona a noi, si comunica a noi come pane vivo. E’ qui nell’amore fraterno che ci unisce. E’ qui nel segno così fragile e debole di noi sacerdoti. E’ qui, vivo nel volto di chi ci sta accanto.

Allora fratelli e sorelle carissimi, in questa notte santissima, si aprano i nostri occhi per vedere il Signore Risorto in mezzo a noi e vederlo presente nella contraddittoria storia del mondo. E’ il momento di riconoscerlo nella fede, di rinnovare le promesse del nostro Battesimo e l’impegno a costruire con Lui il suo Regno di luce e di amore.
In questa notte, gioiamo per la risurrezione di Cristo; lasciamoci da Lui incontrare e uniamoci a lui nella sua morte e nella sua risurrezione, per essere davvero vivi.

Ricordo a me e a voi le parole dell’apostolo Paolo che abbiamo ascoltato nell’epistola poco fa: Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 

Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Il Signore Gesù morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

+ Fausto Tardelli




Omelia per la Messa Crismale 2016

S. MESSA CRISMALE 2016

La Celebrazione di stasera è detta giustamente del Crisma o degli oli. Infatti in essa benediciamo l’olio per il sacramento degli infermi, l’olio per il Battesimo, il sacro Crisma per il sacramento della Confermazione e il Presbiterato.

L’olio è dunque il protagonista di questa nostra celebrazione, non però inteso in senso alimentare com’è consuetudine ormai per noi, bensì come unzione che fortifica, che dà bellezza, che fa splendere il corpo ed è balsamo, medicina per le ferite. Gli oli santi infatti sono destinati all’unzione del capo e della fronte, del petto e delle mani.

Sia la prima lettura che il racconto evangelico, parlano di unzione con l’olio come di una consacrazione che, attraverso la potenza dello Spirito Santo, trasforma e abilita alla missione, una missione di salvezza e di misericordia.

La seconda lettura dal libro dell’Apocalisse, per parte sua ci parla di Gesù il Cristo, il Messia, Unto del Signore, l’alfa e l’omega della storia, Colui che è, che era e che viene e che ci ha consacrati a nostra volta come popolo sacerdotale a gloria del Padre e salvezza dell’umanità.

L’olio dunque. Segno fondamentalmente di due cose: di consacrazione e della missione.
Di consacrazione innanzitutto. Segno cioè dell’assorbimento pieno della persona nell’amore del Signore per il servizio del Regno. L’olio impregna, macchia, come si dice, in un modo tutto particolare, perché per la sua struttura riesce a penetrare nei pori delle cose e della pelle. Non solo ricopre ma penetra, impregna e possiamo ben dire che trasforma l’oggetto, mescolandosi con esso. In questo senso significa la consacrazione della persona, la totale assegnazione della persona a Dio per il compimento della missione.

L’olio, in questo primo significato ci ricorda che la nostra vita appartiene a Dio, il quale col suo amore misericordioso ci è venuto incontro, ci ha perdonato e continua a perdonarci, facendoci entrare nella condizione di suoi figli amatissimi. Ciò è vero per ogni cristiano in forza del Battesimo e della Santa Cresima. Per noi sacerdoti e vescovi in modo particolare per il Sacramento dell’Ordine ricevuto.

Ricordarci questa nostra santa unzione, vuol dire allora ricordarsi dell’amore senza limiti di Dio nei confronti di ciascuno di noi e sentirsi fasciati dalla sua misericordia. Grati al Signore per questo, vogliamo però pregare perché ancora scenda su di noi ogni giorno l’olio della misericordia di Dio, per esserne completamente conquistati, perché non possiamo più fare a meno di Lui, da quando è ormai è entrato nella nostra pelle.

Segno di consacrazione, dicevo, ma anche segno della missione. E’ questo l’olio. Ci fa pensare a ciò che il Signore ci ha affidato: una missione di tenerezza e misericordia. L’olio ha questa proprietà: di togliere ruvidità alle cose, di rendere agevole l’articolazione dei meccanismi, permettendo il superamento dell’attrito. Possiamo dunque dire di essere stati inviati a “ungere” con l’olio della letizia che è Cristo Signore, affinchè ogni uomo conosca l’amore vero e sia in grado a sua volta di amare. L’unzione che siamo chiamati a compiere rappresenta la missione della chiesa e del cristiano nel mondo. Essa consiste nell’ “ungere” di Cristo il mondo, nell’ “ungere” con la santa unzione tutti i nostri fratelli, facendo scendere abbondante l’olio della misericordia e della consolazione dentro la società di oggi, in questo nostro contesto sociale, perché esso si rinnovi e diventi fraternità. Questo è il nostro compito, il nostro impegno, la nostra preoccupazione.

Carissimi amici e fratelli, viviamo in una società violenta e terribile. Gli animi sono accesi, imbarbariti, impauriti a tal punto da reagire di scatto e senza controllo al più piccolo segnale di pericolo, seppur solo immaginato. La crisi economica e l’incertezza del futuro mettono a dura prova la tenuta nervosa di molti. L’ingiustizia sociale, l’instabilità affettiva e la provvisorietà dei generi e degli amori, rende tutti più insicuri e rabbiosi. Il terrorismo, così atroce e imprevedibile, ci mette dentro un’ansia che spinge a guardare con sospetto ogni diverso da noi. Il martellante, continuo, asfissiante circuito mediatico, unitamente all’incessante presentazione di una felicità a buon mercato, ci riempiono di menzogne e di desideri fasulli e illusori. Aumentano perciò frustrazione e risentimento, mentre cresce – specie nelle nuove generazioni – la voglia di spaccare ogni cosa.

In questi nostri giorni aspri e amari, basta davvero poco perché deflagri la violenza e scoppi la guerra. Anzi, per certi versi essa è già in atto. Basta poco, davvero poco, per mandare tutto all’aria.

Dentro questa società, dentro questo mondo lacerato da dissidi e contese, da prepotenze e ingiustizie, noi siamo chiamati, amici miei carissimi, a versare l’olio della compassione e della misericordia, l’olio della tenerezza e della mansuetudine.

Sì carissimi. E’ la nostra missione in questo momento; ed è questa la vera profezia, di questi tempi: versare olio di letizia.
L’olio della operosità silenziosa.
L’olio della comprensione piena di simpatia per gli altri.
L’olio della umiltà e della mitezza.
L’olio del perdono.
L’olio della preghiera per l’altro.
L’olio del sorriso, del dialogo e della disponibilità semplice e quotidiana.
L’olio del senso di responsabilità per ogni parola che si dice e ogni gesto che si compie.
L’olio infine perché no, anche di un sano senso dell’umorismo e del non prendersi troppo sul serio.

E tutto questo, carissimi amici, ci è chiesto di farlo a partire da noi preti, tra di noi. Papa Francesco, tante volte purtroppo citato a sproposito dai mezzi di comunicazione, ha detto l’altro giorno durante l’ordinazione di alcuni vescovi – e lo ha sottolineato insistendovi – che per un vescovo il primo prossimo sono i sacerdoti. E io mi permetto di aggiungere – nella stessa linea – che il primo prossimo per un prete è proprio il suo confratello.

Carissimi, la benedizione dei tre oli santi ben ci ricorda questo nostro ministero di “unzione” che ci è stato affidato a vantaggio reciproco e di tutto il popolo. Con l’olio per gli infermi siamo chiamati a portare conforto a quanti sono malati nel corpo, nell’anima e nello spirito, perchè siano liberati da ogni malattia, angoscia e dolore. Con l’olio dei catecumeni dobbiamo essere vicini a ogni uomo che cerca la verità perché comprenda più profondamente il Vangelo di Cristo; conosca la bellezza della vita cristiana e la gioia di rinascere e vivere nella tua Chiesa. Con l’olio santo del Crisma siamo chiamati a far si che ogni discepolo di Cristo, spanda il profumo di una vita santa e si compia in lui il disegno del Padre e la sua vita integra e pura sia in tutto conforme alla grande dignità che lo riveste come re, sacerdote e profeta.

Compiti sacerdotali, questi, a noi affidati in modo particolare e ai quali ci dobbiamo dedicare con generosità; ma a tutti, all’intero popolo di Dio, presbiteri, laici, religiosi e religiose, a tutti noi consacrati dall’unico Spirito, è affidato il compito di ungere i nostri fratelli con l’unzione dell’amore di Cristo. Cerchiamo allora per davvero, tutti quanti insieme, chiesa di Pistoia, di impegnarci a fondo a portare il lieto annuncio ai miseri, 
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,

consolare tutti gli afflitti,
 dare agli afflitti di Sion 
una corona invece della cenere,
 olio di letizia invece dell’abito da lutto,
veste di lode invece di uno spirito mesto.

+ Fausto Tardelli




Ordinazione presbiterale di Gildas e Ugo – 5 Gennaio 2016

Ordinazione presbiterale di Gildas e Ugo
5 gennaio 2016 – Cattedrale di S. Zeno – Pistoia

In questo momento, l’emozione per quelle che sono le mie prime ordinazioni sacerdotali a Pistoia – e spero che ce ne siano tante altre nei prossimi anni – è grande. E’ un’emozione unica, che solo il vescovo può provare. La grandezza del dono che si comunica attraverso la preghiera e l’imposizione delle sue mani è tale, che la coscienza della sua miseria e debolezza gli fanno sentire che si compie un miracolo, assolutamente un miracolo. E’ una paternità miracolosa, quella che si realizza; una paternità che dona fecondità a chi è ben consapevole della propria sterilità e non può che guardare con stupore a ciò che la potenza di Dio opera attraverso di lui, senza alcun merito.

Carissimi Gildas e Ugo, la festa solenne dell’Epifania del Signore, ci pone davanti agli occhi la storia dei magi d’oriente: gente che cerca il Signore, lo trova e l’adora, ritornando poi ad annunciare alle genti il nato Messia.
Questa affascinante e misteriosa storia raccontata nei vangeli dell’infanzia, nasconde un segreto messaggio di verità; rivela l’universale chiamata dei popoli, di tutti e di ognuno, all’incontro con la luce che sconfigge le tenebre, con la fonte dell’amore che vince l’odio, con la sorgente della speranza bambina che attraverso la croce fa risorgere la vita.

Proprio dall’avventura di questi misteriosi sapienti, vorrei trarre questa sera, per noi e per voi, carissimi Gildas e Ugo, insegnamenti e propositi per la vita dei presbiteri.
Ed ecco che dapprima ci possiamo soffermare sul fatto che questi sapienti camminano cercando il Signore. Camminano senza stancarsi, guidati da una stella speciale nel cielo d’oriente. Camminano e domandano. Sanno che il Re dei re è nato sulla terra, è dentro le pieghe della terra. E lo cercano senza posa, muovendo i propri passi da lontano, fino alla meta.

Così, carissimi, dev’essere la vita di un sacerdote di Dio: alla ricerca costante di Lui, in cammino sempre, perché mai arrivati. In cammino come un qualsiasi uomo che cerca la via della vita. Senza fermarsi, senza considerarsi mai sul trono dei sistemati, sapendo invece che quel Dio che è nato nel mondo, Re dei re e Signore dei Signori, si nasconde nei luoghi più impensati, nei posti dove non immagini possa essere il sovrano del mondo, in mezzo alla povera gente, in una grotta di pastori, cullato da una tenera e giovane madre e da un padre che fa del silenzio la sua parola. Il prete non si stancherà mai di cercare il suo Signore. E lo cercherà, questo Signore, in quel povero pezzo di pane che consacrerà ogni giorno; nelle pagine sgualcite di un usato breviario; nella capanna mal messa che spesso è la santa e povera chiesa, nel silenzio di un tabernacolo; come – e eccome – nel volto dei poveri, dei malati, dei soli, di chi non ha nulla, neppure la dignità. Siate dunque cercatori di Dio, dovunque esso si celi, sempre in cammino per riconoscerlo e adorarlo.

E proprio l’adorazione è la seconda cosa cui vorrei far riferimento per la nostra e vostra vita, stasera, carissimi Gildas e Ugo. “Siamo venuti per adorare il Signore”. Così dicono i magi. Davanti al bambino, narra il testo, essi “si prostrarono e lo adorarono” presentando i loro doni. Il presbitero deve essere un uomo abituato a prostrarsi e ad adorare Dio e Dio solo. Lo farete tra poco fino a baciare la terra, e dovrà essere questo il segno di uno stile di vita che adora Dio solo, nessun’altra creatura, né il denaro né il potere e nemmeno se stessi. Meno che meno, il principe di questo mondo che cerca subdolamente adoratori in ogni dove, anche nella santa casa del Signore. La schiena del presbitero non si può piegare. Deve restare diritta, senza paure e senza servilismi, senza preoccupazioni di carriera o altro; piegandosi invece ogni giorno solo davanti al Dio Altissimo per adorarlo nella sua infinità maestà, nella sua tenera dolcezza, nella sua forza onnipotente, nella sua misericordiosa e umile presenza, medicina di fronte all’arroganza dei superbi e allo strapotere degli idoli di turno.

Nell’adorazione i magi offrirono doni. E noi che cosa mai potremmo offrire alla maestà divina? I nostri doni, certo, cioè le nostre povere vite; la vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, i drammi e le ferite, le gioie e le speranze di ognuno, il grido dei poveri e dei diseredati. Si, tutto questo possiamo offrire al Signore, aprendogli lo scrigno del nostro piccolo cuore. Soprattutto però noi offriamo alla maestà divina, tra i doni che ci ha dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza, cioè Gesù Cristo nostro Signore, che nei doni dei sapienti d’oriente è significato, immolato e ricevuto.

Ecco, per noi sacerdoti di Dio, quella Messa celebrata ogni giorno a lode del Padre e vantaggio di tutto il popolo è il massimo della adorazione. In quell’offerta eucaristica di Gesù morto e risorto c’è la pienezza del nostro ministero, la salvezza del mondo, la resurrezione dei morti, la vita che non muore, il senso di tutto l’universo, la discesa sul mondo della pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo e la nostra personale guarigione.
Sappiate quindi sempre, Gildas e Ugo, immedesimarvi nell’Eucaristia che da stasera celebrerete “in persona Cristi” per il bene degli uomini. Vivete dell’Eucaristia e vogliate conformare la vostra vita al mistero che celebrate. “Imitamini quod tractatis”, vi dirò tra poco nei riti esplicativi dell’Ordinazione. Ricordatevelo sempre.

Infine, ecco che questi sapienti d’oriente fecero ritorno a loro paese. Come non leggere in questa semplice notazione, il viaggio che porta ad altri la buona notizia dell’incontro avvenuto? Credo davvero che si possa intendere così e dunque pensare che dall’incontro adorante col bambino Gesù, i magi se ne tornarono al loro paese con la gioia nel cuore, quella che avevano provato al vedere la stella. Consapevoli di due cose, ritengo: la prima, che Dio, dal momento dell’incarnazione, lo si può incontrare in ogni uomo, specie piccolo e indifeso, perché ogni uomo porta la sua impronta ed è Lui, Lui da accogliere, Lui da sfamare, Lui da visitare, sorreggere e curare; la seconda, che questa novità del mondo va portate a tutti, tutti ne devono essere al corrente: se Dio ha visitato la terra ogni uomo ha diritto di saperlo.

Così, carissimi, dev’essere il presbitero: uno che si cura del popolo e va a cercare chi si è perduto o è rimasto ai margini della strada, per raccontargli dell’amore del Signore. Non sta in pace, non può essere in pace il sacerdote sapendo che ci sono uomini e donne, giovani o vecchi che soffrono, attendono, sperano. Egli porta nel cuore una santa inquietudine, quella di chi sa di dover far conoscere la misericordia di Dio dovunque.
Non abbiate perciò mai, carissimi, la mentalità dell’impiegato che, fatte le sue ore di lavoro, può finalmente pensare a se stesso. Ne’ cadete mai nella tentazione di vedere il vostro ministero come incarico funzionale, provvisorio, a tempo, limitato alle mansioni che vi saranno affidate. Il vostro cuore batta invece all’unisono con quello di Cristo che ha sete della salvezza di ogni uomo e vi spinga fuori, a cercare e trovare, a visitare e incontrare, come veri debitori del Vangelo verso chiunque.

Che Dio vi accompagni, Gildas e Ugo per le strade della vita e la chiesa di Pistoia possa godere a lungo del vostro ministero. Che la santissima Vergine Maria, nostra tenerissima Madre, vi tenga per mano, perché non vi smarriate per via nella tempesta, non vi lasciate mai soffocare dalla tristezza né sgomentare di fronte all’inevitabile croce, dalla quale il nostro Sovrano non disdegnò di regnare sul mondo.

+ Fausto Tardelli




Omelia del Pontificale di Natale 2015

Prorompete insieme in canti di gioia, 
rovine di Gerusalemme, 
perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.”
L’invito di Isaia squarcia il cielo e scuote la terra, riempie questa cattedrale e la inonda di gioia. Da stanotte, tutta la liturgia del Natale ci invita a esultare. Il canto festoso della nostra assemblea si unisce al coro degli angeli che annunciano gloria in cielo a Dio e in terra pace agli uomini che egli ama, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.

Domandiamoci però, fratelli e amici, “come” il Signore ha consolato il suo popolo e ha riscattato Gerusalemme, simbolo in questo caso del mondo intero. Se non ce lo domandassimo e non lo chiarissimo, rischieremmo di non cogliere la verità profonda del Natale e l’invito a cantare di gioia, alla fine suonerebbe posticcio, artefatto, in fondo falso.

Ascoltiamo allora il Vangelo di stamani, il magnifico prologo del Vangelo di san Giovanni. Il Verbo, la Parola eterna di Dio, la seconda persona della SS. Trinità, il Figlio Unigenito, consustanziale col Padre, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Il prologo del vangelo di Giovanni aggiunge che in Lui era la vita e che la vita era la luce degli uomini. La vita fatta luce entra nel mondo come una novità assoluta. E’ questa la novità del Natale. Nel Verbo incarnato entra nel mondo la vita che è luce che illumina ogni uomo. E’ dunque proprio in questo venire a noi della vita fatta luce nella persona di Gesù che consiste la consolazione del popolo e il riscatto di Gerusalemme.
Ma se è così, è perchè, senza Cristo il mondo è senza vita, è morto, rimane prigioniero delle tenebre, assolutamente incapace di respirare, come immerso in una cappa di smog ben peggiore, ben più velenosa di quella che purtroppo in questi giorni affligge le grandi città. Del resto non ci vuol molto a rendersi conto di quella che è la situazione del mondo, quando – ci dicono i mezzi di comunicazione – almeno 5 bimbi muoiono ogni giorno soltanto per attraversare il mare Egeo, e moltissimi altri muoiono per fame, per la violenza, l’oppressione o nel seno di una madre che non li vuole. Le tenebre del mondo sono spesse, se pensiamo ancora a quello che è successo a Parigi e accade con il terrorismo, con la guerra in tanta parte del mondo. Senza parlare poi delle gravi ingiustizie sociali che impoveriscono sempre di più la gente e arricchiscono pochi. Non possiamo poi dimenticare i numerosi nostri fratelli cristiani, cacciati dalle loro case, depredati, perseguitati, uccisi, che quest’anno non possono celebrare il Natale.…. Potremmo continuare ancora a lungo, in una li sta interminabile di nefandezze che mostrano le tenebre in cui è avvolto il mondo, con la morte che sembra avvolgere ogni cosa.

In questa situazione del mondo, di oggi e di allora, il Natale del Signore si pone come luce che sconfigge le tenebre, come vita che trionfa sulla morte, come novità di un mondo nuovo. Ecco dunque la risposta alla domanda che ci siamo fatti all’inizio: come il Signore ha consolato il suo popolo e ha riscattato Gerusalemme? Ebbene, si, l’ha fatto nascendo in mezzo a noi, nascendo nella grotta di Betlemme, adagiato in una mangiatoia. L’ha fatto attorniato da poveri pa-stori che dormivano all’addiaccio per custodire le greggi. L’ha fatto nascendo da una semplice ragazza di Galilea, Maria di Nazareth.

Siamo sinceri, carissimi amici e fratelli, il modo scelto da Dio appare alquanto originale, sconcertante e diciamocelo pure, ad una logica puramente umana, anche un po’ inconcludente. Chi se ne accorse allora di quella luce che nasceva? Chi si accorse che la vita veniva nel mondo? Quasi nessuno. Secondo il nostro modo di ragionare, parrebbe che per sconfiggere le tenebre del mondo, ci sarebbe voluto ben altro che questa nascita così insignificante! E in effetti verrebbe da dire, ad uno sguardo superficiale, che cosa cambiò nel mondo dopo quella notte di Betlemme? E, a dirla tutta, che cosa è cambiato anche oggi, se siamo qui a constatare una situazione come quella che ho sommariamente descritta?

Carissimi amici e fratelli, per superare lo scandalo dovuto all’apparente inefficacia del Natale e capire che la gioia del Natale è vera gioia, incontenibile gioia, occorre fare ancora una riflessione. Occorre cioè comprendere con la fede che l’entrata della vita e della luce nel mondo con Gesù Cristo è amore, nient’altro che amore, purissimo amore che si riversa sul mondo, un fiume in piena di amore che inonda la terra e si spande in mille rivoli, penetra nel tessuto umano e feconda la terra, avviandosi così la lenta gestazione del mondo nuovo. Col Natale entra nel mondo l’antidoto decisivo contro il veleno del mondo. Ci vuol tempo perché faccia il suo effetto. Occorrono cure e attenzione. Ma l’antidoto è ormai presente nella storia del mondo e abita la nostra terra. Niente e nessuno lo può più eliminare.

E l’antidoto ha un nome: Gesù di Nazareth, Figlio di Dio fatto uomo per cercare l’uomo che si era perduto. Lui che passò nel mondo beneficando tutti, morì però crocifisso continuando ad amare persino i suoi carnefici e vincendo così la morte stessa. Lui è amore senza limiti che non si arrende e non viene meno, nonostante tutto. E’ amore che si china sulle nostre ferite e miserie, sulle ferite dell’uomo e le cura senza pretendere niente in cambio. Lui è amore che perdona i peccati, che toglie i peccati del mondo, che offre riscatto e vita nuova a tutti e dice a ogni uomo, anche col cuore cattivo e di pietra: Dio ha fiducia in te, ti ama, ti vuole felice, puoi cambiare, puoi imparare ad amare, puoi vincere l’odio e la morte; Dio ti è accanto in questo cammino, non ti abbandona, cammina con te, lotta con te, muore anche con te, per risorgere però immortale perché l’amore vince ogni cosa.

Ecco dunque, col Natale del Signore è entrato definitivamente nella storia questo Dio d’amore e di misericordia. La storia di Gesù possiamo riviverla anche noi. Ce ne è data la possibilità. E’ una strada in salita, quella che ci è proposta; certamente faticosa ma liberante e chi l’accoglie è passato dalle tenebre alla luce.
A noi, carissimi, è chiesto oggi da che parte stare, se tra coloro che accolgono Gesù e accettano di essere guariti dal suo amore; che camminano sulla strada dell’amore generoso e disinteressato e seguono le orme del Figlio di Dio fatto uomo per amore, morto e risorto per noi; tra coloro che cercano di vivere da figli di Dio e fratelli amorevoli degli altri, dandosi da fare ogni giorno per rinnovare il mondo; oppure tra coloro che, pieni di sé, non hanno bisogno di Dio, preferiscono le tenebre perché lì si fanno meglio li affari, chiudono occhi, orecchi e cuore alle necessità del fratelli, al grido della loro dignità offesa e pensano a salvare solo se stessi. Ci è chiesto di scegliere.

I miei auguri di Buon Natale per me e per voi e che sappiamo scegliere di stare dalla parte giusta. Dalla parte di Maria e Giuseppe, dei pastori e di tutti quegli uomini e quelle donne che lungo i secoli hanno seguito il Signore.

+ Fausto Tardelli




Omelia della Messa della Notte di Natale 2015

Avevo fame e mi deste da mangiare; avevo sete e mi deste da bere; ero nudo, infreddolito, indifeso, straniero, piccolino, e mi avete accolto, curato, sostenuto, amato…. Questo è ciò che vorremmo e dovremmo sentirci dire questa notte dal bambino Gesù. Questo è ciò che vorremmo e dovremmo sentirci dire da Lui…. ma ce le potrebbe rivolgere in verità, stanotte, Lui, queste parole? La domanda ci inquieta. E’ giusto che ci inquieti, perché il Natale, nella sua umile dolcezza è solo apparentemente innocuo: in realtà è profondamente provocatorio.

Dio, carissimi amici e fratelli, è venuto a visitarci come un bimbo bisognoso di tutto e ci chiede una sola cosa: di accoglierlo con amore. E’ venuto nella povertà. Come ci ha detto il Vangelo: Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.
Eccolo lì, il nostro Dio, Colui che né il cielo né la terra possono contenere. Eccolo lì, in quella mangiatoia per animali, nel posto dove stanno gli animali. Eccolo lì e ci chiede una sola cosa: di fargli spazio, di prenderlo in braccio e cullarlo, di accoglierlo con amore. Il Nostro Dio, che è misericordia infinita e usa misericordia nei nostri confronti, chiede Lui a noi misericordia. E’ davvero un paradosso: Dio ci usa misericordia chiedendoci misericordia, tendendo verso di noi le piccole braccia di bimbo, bisognoso di tutto. Abisso inaudito della logica di Dio che sconvolge i nostri modi di ragionare, che ci stupisce d’amore e ci fa cadere in ginocchio adoranti.

In questi giorni, un po’ dovunque, in casa come in strada, nelle chiese come nei palazzi si fanno i presepi. Ci affascinano sempre ed è una tradizione bellissima che il genio di San Francesco ha consegnato alla storia e che va fatto ogni sforzo per mantenere in vita.
Davanti ad essi cerchiamo però di fare attenzione. Non accontentiamoci di vederli e ammirarli: ascoltiamoli, invece. Accostiamo l’orecchio e proviamo ad ascoltare. Nel silenzio udremo allora una flebile voce di bimbo che dice: ho fame, ho sete, sono nudo e infreddolito, piccolino e indifeso… che cosa aspetti ad accogliermi, curarmi, amarmi?
Sarà Natale per davvero, carissimi fratelli e sorelle, se riusciremo a sentire questo bimbo che piange e ci chiede risposta. Se, ascoltandolo, tenderemo le nostre mani con gioia per incontrarlo nel cuore come grazia che salva, parola di vita che rigenera e volto misericordioso di un Dio che ci ama. Se, pentiti della nostra arroganza, correremo da Lui e lo riconosceremo come nostro Signore e Re dei re. Si, re dei re e signore dei signori. Come ci ha infatti detto il profeta Isaia: “Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.” “Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.”

Riconoscerlo così, il nostro Dio, nato bambino, è inequivocabilmente questione di fede. Riconoscere in quel bimbo infreddolito e bisognoso di tutto, Dio onnipotente, il re dei re, solo la fede può farlo. La ragione si arresta sulla soglia di questo mistero e sarebbe tentata addirittura di dichiararne l’assurdità. Soltanto la fede riesce a cogliere la verità profonda del Natale. Per questo, la prima cosa che dobbiamo chiedere stanotte è che la nostra povera fede si rafforzi, maturi, acquisti occhi per vedere e contemplare il mistero di Dio, illumini tutta la nostra vita, osi manifestarsi con coraggio e letizia.

Non va però dimenticato che la fede senza le opere è morta. San Paolo ce lo ha ricordato, quando ha detto nella seconda lettura che l’incarnazione del Verbo di Dio ci deve insegnare “a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà.”
Perciò sarà Natale per davvero – e saremo davvero Chiesa del Signore – anche e solo se nella richiesta d’aiuto e d’amore che viene dal bambino di Betlemme coglieremo il grido di tutti i bambini offesi del mondo, di tutti i poveri della terra. E se a questa richiesta d’aiuto risponderemo andando in fretta incontro al fratello, condividendo con lui il tempo, ciò che abbiamo e che siamo, abbattendo i muri dell’indifferenza a volte più spessi dell’odio.

Ci dice Papa Francesco nella bolla d’indizione dell’anno santo speciale della Misericordia, da lui ardentemente voluto, che dobbiamo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. E afferma: “Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi!” “Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi.” “Siamo chiamati perciò a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità.”

Carissimi amici e fratelli, il divino bambino di Betlemme ci tende le braccia e aspetta la nostra risposta. Non possiamo far finta di niente, né accontentarci di guardare la sua immagine dentro i presepi, né di una emozione passeggera. Gesù bambino attende risposta, attende scelte di vita. La attende a Natale ma anche dopo, nei giorni molti o pochi della nostra umana esistenza. Ognuno è chiamato in prima persona. Egli aspetta risposta da me, da te, da noi, dal mondo. E alla richiesta d’aiuto unisce una promessa che è benedizione per oggi e speranza per domani: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”.

+ Fausto Tardelli




L’omelia del Vescovo in occasione dell’apertura del Giubileo

Apertura della porta della misericordia

Cattedrale di Pistoia 12 dicembre 2015

Abbiamo aperto poco fa la porta della misericordia e siamo passati attraverso di essa. La porta è Cristo e il suo volto è la Misericordia. Lui è il volto misericordioso di Dio che ci è venuto e ci viene incontro per darci la sua vita, per farci partecipare alla sua vita divina.

A che cosa infatti ci da accesso la porta della misericordia che è Cristo? Ci da accesso alla pienezza della vita divina in noi. Dio guarda alla nostra esistenza, alla nostra sofferenza, al nostro peccato, con occhi di misericordia. Egli è innamorato all’eccesso della sua creatura e non si stanca di guardarla con amore e di intervenire a suo favore, Egli ci precede sempre con la sua grazia; fa sempre Lui il primo passo verso di noi e tutto fa a un solo scopo: renderci partecipi della festa della sua gloria, perché lì, per noi, è la felicità senza fine.

Abbiamo bisogno della misericordia di Dio, carissimi fratelli e amici Abbiamo bisogno di sentirci amati, perdonati, accolti come figli. Questo amore è ciò che ogni uomo cerca dal profondo del cuore, anche se spesso non lo sa o non lo vuole accettare. Questo amore è ciò a cui anela attraverso i meandri a volte tortuosi della sua vita: l’uomo anela a Dio, a vivere la vita di Dio, a vivere la comunione piena con Lui e attraverso di Lui con tutti gli altri esseri umani e con l’intero creato. Perché senza Dio, l’uomo è perso. Senza Dio non c’è che menzogna e violenza; senza il suo amore misericordioso non c’è che infelicità e tristezza e ogni uomo diviene lupo all’altro, il potente schiaccia il debole, il ricco umilia il povero, il più forte domina la scena del mondo e il più furbo inganna a morte il fratello. E’ così, senza il Dio della misericordia, senza quel Dio che si è manifestato nel volto piagato e crocifisso del Cristo, nel volto tenerissimo del Figlio dell’uomo, nel volto raggiante e glorioso del Risorto. Senza Dio, non c’è misericordia nel mondo. Non può esserci.

Il Papa giudica urgente che questo messaggio della Misericordia di Dio raggiunga oggi tutti gli uomini. Ritiene urgente e non dilazionabile che la chiesa esca e si muova per adempiere generosamente a quella che è la sua missione: andare a cercare chi si è perduto per annunciargli la Buona Notizia del Regno di Dio, per fargli sperimentare la misericordia di un Padre che vuole tutti salvi, che questo Padre lo sta cercando. E’ una vera urgenza, quella di cui parla il Papa. Ne dobbiamo prendere atto.
Se la Chiesa deve essere un “ospedale da campo”, come più volte Papa Francesco ha detto, è perché il mondo è un campo di battaglia con morti e feriti senza numero. Se la Chiesa deve essere un’“oasi di misericordia”, come ancora il Papa dice nella Bolla di indizione del giubileo, è perché il mondo di oggi è un deserto arido e bruciato dal sole e ha urgente bisogno di sapere che Dio lo ama, che Dio ha fiducia nell’uomo, che non è nemico dell’uomo, bensì un padre che perdona e salva.
Alla Chiesa deve stare a cuore, sommamente a cuore, che ogni uomo conosca la salvezza, la Misericordia del Padre, e comprenda che c’è la possibilità di rinascere nella speranza, qualsiasi sia la condizione in cui ci si trova, anche se si è scartati da questa società o se si è ultimi e poveri di beni e d’amore.

Carissimi fratelli e amici, noi siamo chiamati a invitare gli uomini ad approfittare di questo amore misericordioso, a rispondere all’amore, perché l’amore non resti non amato; siamo chiamati a invitare i nostri fratelli ad accorrere e ad entrare attraverso la porta della misericordia nella pienezza della vita. Dobbiamo patire e soffrire perché nessun uomo si perda, perché tutti si convertano all’amore di Dio, perchè ogni uomo si lasci amare e perdonare.
Non è purtroppo scontato che ciò accada. Suor Faustina Kowalska nel suo Diario, lei che Papa Francesco ha giustamente indicato come l’apostola della Divina Misericordia, riporta queste parole intese in una esperienza interiore come pronunciate dal Signore: “…Il Mio Cuore è stracolmo di tanta Misericordia per le anime (…) Oh! se riuscissero a capire che Io sono per loro il migliore dei Padri; che per loro è scaturito dal Mio Cuore Sangue ed Acqua, come da una sorgente straripante di Misericordia; che per loro dimoro nel tabernacolo e come Re di Misericordia desidero colmare le anime di grazie, ma non vogliono accettarle (…) Quanto è grande l’indifferenza delle anime per tanta bontà, per tante prove d’amore! (…) Hanno tempo per ogni cosa; per venire da Me a prendere le grazie non hanno tempo…” (Diario, 367). “Infelici coloro che non approfittano di questo miracolo della Divina Misericordia! (Diario, 1448).

Ecco carissimi: la porta della Misericordia, il cui segno è la porta della nostra cattedrale che si è aperta, indica la necessità di accorrere a Dio per essere perdonati dai nostri peccati. E’ una porta che rimane certamente sempre aperta. Che è sempre possibile attraversare; che non si chiude in faccia a nessuno. Però occorre varcarla, questa porta, passarci in mezzo, attraversarla. Ed entrare per la porta della Misericordia significa riconoscere – stupiti – che Dio ci precede sempre e non aspetta che siamo buoni per amarci. Significa ancora – perché amati oltre ogni misura – saper riconoscere il male che è in noi, vedere le nostre nefandezze, le nostre ipocrisie, tutte le nostre cattiverie, il cuore malato invidioso e rancoroso, la brama di potere che è in noi, l’ingiustizia che alimentiamo, la distruzione della casa comune cui contribuiamo. Significa infine, col cuore sinceramente contrito e con la ferma volontà di cambiare vita, affidarsi alla misericordia di Dio.
Troveremo allora pace e gioia per davvero. Perché non c’è vita disordinata e peccaminosa che non possa essere recuperata. Allora, le parole del profeta Sofonia risuoneranno dolcissime nel nostro cuore: “
Rallegrati, figlia di Sion,
grida di gioia, Israele,
esulta e acclama con tutto il cuore,
figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
”

Ancora un’ultima considerazione vorrei fare, prima di concludere, carissimi fratelli e amici. Il Motto scelto dal Papa per l’anno santo è: “Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro.” Ciò vuol dire che all’esperienza personale e comunitaria della misericordia, deve seguire una vita realmente misericordiosa verso il prossimo. Se non si traducesse in un cuore misericordioso che sa usare misericordia nei confronti degli altri, sarebbe vano passare attraverso la porta santa; sarebbe perfettamente inutile chiamarsi discepoli di Cristo e falso dirci cristiani.
Qui si manifesta dunque la necessità di un cambiamento concreto di vita. Le indicazioni date da Giovanni il Battista ai suoi concittadini – come le abbiamo ascoltate nel vangelo di oggi – sono esemplificazioni da tradursi nella nostra attualità. «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». «Non esigete nulla di più di quanto è giusto». «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno».
Indicazioni che però non sono sufficienti. Occorre incamminarsi sulla via delle opere di misericordia, le sette corporali e le sette spirituali, come tradizionalmente insegnato dalla Chiesa. Occorre soprattutto però avere un cuore misericordioso, cioè ben disposto nei confronti dell’altro, preveniente nel bene, aperto, disponibile all’incontro e al dialogo. Non si tratta di “fare opere di misericordia” ma di “essere misericordiosi”, imitando l’agire stesso di Dio così come si è manifestato in Gesù.

Carissimi, questo impegno a essere misericordiosi è richiesto alla chiesa nei confronti del mondo, degli uomini e delle donne del nostro tempo, come ho già detto. L’impegno è però richiesto prima di tutto alla chiesa al suo interno, per rinnovare le relazioni fraterne nelle nostre parrocchie e delle nostre Chiese particolari. Non possiamo infatti essere misericordiosi con gli altri, se non deponiamo le armi della gelosia, dell’invidia, dell’inimicizia e della maldicenza, e se non impariamo a usarci misericordia tra di noi, ad accoglierci nella stima reciproca, nell’affetto, nella tenerezza,

Passando allora dalla porta santa quest’anno – e concludo -, carissimi fratelli ed amici, ricordiamoci le cose che ci siamo detti stasera. Mi auguro che questo sia un anno davvero speciale per tutti noi. Un anno di grazia e perdono, di rinnovamento della nostra chiesa diocesana e di rilancio della sua missione apostolica; un anno anche di riscoperta della forza prorompente della gioia sopra ogni tristezza e malumore. Con San Paolo mi sento questa sera perciò di dirvi: Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! 
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. 
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

+ Fausto Tardelli