Omelia del giorno di Pasqua 2016

PASQUA 2016. MESSA DEL GIORNO

 

Quel mattino lontano di tanti anni fa, quando il sepolcro dove era stato deposto il corpo di Gesù venne trovato vuoto – come abbiamo ascoltato ora nel vangelo – fu un giorno come tanti altri in Palestina e nel resto del mondo. I romani calpestavano ancora col peso delle loro legioni quella terra d’oriente. Erode era ancora sul trono, Anna e Caifa al loro posto nel tempio di Gerusalemme. Come ogni giorno, anche in quel giorno si uccise e si violentò, si rubò e furono perpetrati orrendi delitti. Continuò la disperazione di molti e ciechi e storpi e muti e sordi e lebbrosi continuarono a mendicare dolenti la possibilità di una vita migliore. Rispetto ai giorni precedenti, nulla sembrò cambiato quel mattino dopo il sabato di tanti secoli fa. Tutto era come prima, nessun problema era stato risolto.
All’apparenza però. Soltanto all’apparenza.

Oggi, dopo duemila anni, noi sappiamo che in realtà tutto cambiò in quel giorno; che fu l’alba di un nuovo mondo, perché in quel giorno l’amore vinse definitivamente la morte. Non era mai accaduto prima. Accadde quel mattino con quel crocifisso mite che perdonò chi lo stava uccidendo e risuscitò come aveva predetto. Se oggi siamo qui a cantare l’alleluia della festa, non è perché siamo fuori di senno, come sciocchi creduloni attaccati a fantasie di bambini. No. E’ perché quel mattino di Pasqua tutto cambiò per davvero; accadde qualcosa che mai era successo e che mai più si è verificato nel mondo: un uomo vinse la morte. Non come per una guarigione momentanea, passeggera. Di morti apparenti ce ne sono state e ne capitano a volte. No. Il Signore Gesù risuscitò dalla morte per non mai più morire. Risuscitò da morte ed entrò in una condizione di vita nuova e gloriosa. Portò i segni della passione su di sé, ma il suo corpo fu glorificato. Non fu semplicemente un redivivo ma un “risorto”, il “risorto” e dopo quel giorno molto lo hanno incontrato, vivo e anch’io, pur nella mia miseria, posso attestarlo.

La prova più evidente di ciò che accadde quel giorno è proprio che siamo qui e in una grande moltitudine di altri luoghi sulla terra, dopo duemila anni, nel nome di quel Gesù che fu ucciso perché non si parlasse più di lui ma che invece è più vivo che mai e lo sentiamo, lo vediamo presente, glorioso, vincitore del male e della morte.

Vorrei ora brevemente vedere con voi, carissimi amici e fratelli, i motivi per cui quel giorno cambiò per davvero la storia del mondo. Lo faccio perché si rafforzi la nostra fede e, conquistati dalla gioia pasquale, camminiamo sicuri attraverso le fatiche del tempo presente come messaggeri instancabili della misericordia di Dio.

Il primo motivo è che la vittoria di Cristo sulla morte confermò la verità dei suoi insegnamenti, del suo messaggio, del suo Vangelo. Se tutto fosse finito con la morte, quello che Gesù aveva fatto e detto in terra, si sarebbe necessariamente rivelato come una grande illusione. Se la morte lo avesse tenuto prigioniero per sempre, coloro che lo avevano accusato di essere un sognatore e un visionario, di prospettare una vita impossibile e irrealistica, che avevano giudicato la sua vita e il suo Vangelo una bestemmia e un inganno, una falsa consolazione per i perdenti del mondo, avrebbero avuto certo ragione. Avrebbero, essi, vinto e dimostrato la fallacia dell’opera di Cristo. Con la risurrezione invece, il Signore Gesù sbugiarda i suoi denigratori e dimostra la verità del suo messaggio, delle sue parole, dei suoi gesti e indica chiaramente che quella strada, quella che Lui ha indicato agli uomini, conduce alla vita, non è spezzata dalla morte, trionfa nella risurrezione.

Il secondo motivo è che in quel mattino si rivelò la forza invincibile dell’amore più grande della morte. Cosa fu infatti la morte di Cristo, come del resto tutta la sua esistenza terrena? La testimonianza suprema dell’amore che sempre perdona, sempre ama e mai cede al rancore, alla vendetta, all’odio. La grandezza della morte di Gesù sulla croce sta qui, nel fatto cioè che Egli ama fino in fondo, tutti, senza rancore verso chi lo accusava e lo crocifiggeva. Egli continua ad amare perdutamente, teneramente, fortemente, con tutto se stesso, Giuda che lo tradisce, Pietro che lo rinnega, i suoi che l’abbandonano. Ma egli continua ad amare perdutamente e totalmente i soldati romani che lo inchiodano sulla croce e lo trafiggono con il colpo di lancia; continua ad amare Pilato ed Erode, Anna e Caifa, tutti i farisei e i capi del popolo che hanno decretato la sua condanna. Egli continua ad amare il ladrone che lo offende come l’altro che ha pietà di lui. Egli continua ad amare tutti, senza ombra di cedimento alla rabbia e al risentimento, fino all’ultima goccia di sangue, fino al grido “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno…” Ed è questo effluvio d’amore senza misura per noi uomini alla fine che vince, che spezza le armi dell’odio e della violenza, che rompe il circolo vizioso delle ritorsioni e delle vendette. E’ questo amore che trionfa sulla morte. E questo effluvio abbondante di amore continua a riversarsi nel mondo senza sosta, perché Egli è vivo e non smette di amare di un amore infinito tutti noi. E dalla risurrezione che dimostra la forza potente dell’amore, i discepoli di Cristo vengono rincuorati. Noi tutti veniamo rincuorati perché sappiamo che possiamo continuare ad amare anche se il mondo ci odia, anche se dobbiamo salire sulla croce. Possiamo impegnarci ad amare senza scoraggiarci. Possiamo tendere fino allo spasimo estremo l’impegno dell’amore, perché sappiamo che in Cristo tutto rifiorisce e con la sua risurrezione è dato anche ai suoi discepoli di vincere la morte e far fiorire la vita.

Allora – carissimi fratelli e amici – pur immersi in un mondo che sembra rimasto ai tempi di Gesù e per tanti versi forse anche peggio, se siamo risorti con Cristo, cerchiamo di vivere una vita nuova, senza scoraggiarci. Cerchiamo le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgiamo il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Come l’apostolo Pietro anch’io vi dico stamani che Lui, Gesù risorto, mi ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome.

+ Fausto Tardelli




Veglia Pasquale 2016

Veglia Pasquale 2016

Canto di festa stanotte s’innalza in ogni parte del mondo. Alleluia. Il Signore è risorto. Si. E’ veramente risorto. Nel buio della notte del mondo, la luce di Cristo brilla splendente, avanza tremula ma diventa marea, bagliore di luce che illumina ogni cosa.

Esulti il coro degli angeli,
esulti l’assemblea celeste:
un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto.
Gioisca la terra inondata da così grande splendore:
la luce del Re eterno 
ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa,
splendente della gloria del suo Signore.

La creazione del mondo si rinnova stanotte. L’antico peccato è sconfitto. Stanotte siamo liberati dalla schiavitù dell’Egitto ed entriamo nella terra promessa, passando attraverso le acque rigeneratrici del Battesimo. Stanotte la Nuova ed eterna alleanza è sancita nel sangue dell’agnello innocente immolato per noi.

Quanti motivi avremmo, carissimi fratelli, per piangere e rattristarci anche stanotte. Quanti motivi per lasciarci cadere le braccia sconsolati e smarriti! Eppure no, non possiamo lasciarci andare. Cristo è risorto per noi, dopo avere portato su di sé i peccati di tutti gli uomini.

Cristo è risorto per le vittime innocenti che sono state uccise da barbari assassini. Ma Cristo è risorto anche per chi nel cuore sente solo odio e voglia di uccidere. Cristo è risorto per te che ti senti solo e smarrito. Per te che soffri perché hai perduto un amore. Per te che sei affogato nel vizio e nel male. Per te che pensi solo a te stesso e disprezzi i tuoi fratelli. Cristo è risorto per chi vive nella propria pelle il dramma di dover fuggire dalla sua terra, per chi è in cerca di lavoro e non lo trova. Cristo è risorto per tutti, per i giusti e per i malvagi, come per tutti egli è morto sulla croce e ha versato il suo sangue. Lo ha fatto perché i buoni lo siano ancora di più e i malvagi diventino buoni. Cristo è risorto per dare possibilità di vita nuova a tutti per permettere a tutti, se lo vogliono, di entrare nella pienezza della vita; per dare a tutti la possibilità di conoscere l’amore e vivere d’amore.

Ma se sei risorto Signore Gesù, se sei il vivente, dove ti possiamo incontrare, dove poterti toccare e vederti Signore? Le donne che andarono al sepolcro quel mattino di Pasqua, ti cercarono tra i morti ma non ti trovarono. Videro solo un sepolcro vuoto e degli angeli che le rimproverarono: Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui.

Si, carissimi fratelli ed amici, Cristo è risorto per tutti ma non possiamo certo trovarlo se lo andiamo a cercare tra le cose morte del mondo, tra le menzogne degli idoli vani, nei sepolcri che gli uomini sempre costruiscono, nei falsi paradisi. Non lo troveremo nelle morte ideologie, nelle morte ricchezze, nei calcoli dei potenti o nelle ragionerie dei poteri finanziari. Non troveremo il risorto la dove si celebrano i successi mondani e si illude la gente con ingannevoli proposte di felicità. Non lo troveremo nei miti del progresso tecnologico e della onnipotenza umana. Non lo troveremo certo nei fondamentalismi carichi di morte né nella presunzione dei farisei di oggi che si credono superiori agli altri e in grado di giudicare tutto e tutti. Non lo troveremo certo dove c’è sfruttamento e corruzione, dove si vende morte e si rendono schiavi gli uomini.

No il Signore risorto è altrove: in coloro che amano e sperano; dove si serve e ci si dona al fratello. Nella carne umiliata dei poveri. Laddove c’è una lacrima da asciugare, un dolore da consolare. Dovunque nel mondo si cerca la verità, si ama la giustizia, si lotta per un mondo di fratelli che si vogliano bene. Lo incontriamo particolarmente in quegli innumerevoli martiri della fede e dell’amore che hanno versato e versano il loro sangue per restargli fedeli. Là dove si lotta senza violenza perché le cose cambino nel segno della fraternità e della pace. Là dove si semina con fatica quotidiana il seme della speranza. Dove si spezza il pane che è il suo corpo dato per noi e si spezza la sua parola di vita e salvezza. Là dove si vive con gratitudine la vita riconoscendola dono di Dio; la dove si prega come figli di un Padre d’amore.

Ma il Signore risorto lo possiamo però incontrare nella fede anche stasera, qui, tra noi, in questa notte santissima, nel profondo del nostro cuore, se, con pentimento sincero ci apriamo al suo perdono e ci decidiamo di vivere una vita nuova. Egli è in mezzo a noi e ci parla. E’ qui e ci mostra le ferite dei chiodi e del costato trafitto dalla lancia. E’ qui e si dona a noi, si comunica a noi come pane vivo. E’ qui nell’amore fraterno che ci unisce. E’ qui nel segno così fragile e debole di noi sacerdoti. E’ qui, vivo nel volto di chi ci sta accanto.

Allora fratelli e sorelle carissimi, in questa notte santissima, si aprano i nostri occhi per vedere il Signore Risorto in mezzo a noi e vederlo presente nella contraddittoria storia del mondo. E’ il momento di riconoscerlo nella fede, di rinnovare le promesse del nostro Battesimo e l’impegno a costruire con Lui il suo Regno di luce e di amore.
In questa notte, gioiamo per la risurrezione di Cristo; lasciamoci da Lui incontrare e uniamoci a lui nella sua morte e nella sua risurrezione, per essere davvero vivi.

Ricordo a me e a voi le parole dell’apostolo Paolo che abbiamo ascoltato nell’epistola poco fa: Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 

Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Il Signore Gesù morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

+ Fausto Tardelli




Omelia per la Messa Crismale 2016

S. MESSA CRISMALE 2016

La Celebrazione di stasera è detta giustamente del Crisma o degli oli. Infatti in essa benediciamo l’olio per il sacramento degli infermi, l’olio per il Battesimo, il sacro Crisma per il sacramento della Confermazione e il Presbiterato.

L’olio è dunque il protagonista di questa nostra celebrazione, non però inteso in senso alimentare com’è consuetudine ormai per noi, bensì come unzione che fortifica, che dà bellezza, che fa splendere il corpo ed è balsamo, medicina per le ferite. Gli oli santi infatti sono destinati all’unzione del capo e della fronte, del petto e delle mani.

Sia la prima lettura che il racconto evangelico, parlano di unzione con l’olio come di una consacrazione che, attraverso la potenza dello Spirito Santo, trasforma e abilita alla missione, una missione di salvezza e di misericordia.

La seconda lettura dal libro dell’Apocalisse, per parte sua ci parla di Gesù il Cristo, il Messia, Unto del Signore, l’alfa e l’omega della storia, Colui che è, che era e che viene e che ci ha consacrati a nostra volta come popolo sacerdotale a gloria del Padre e salvezza dell’umanità.

L’olio dunque. Segno fondamentalmente di due cose: di consacrazione e della missione.
Di consacrazione innanzitutto. Segno cioè dell’assorbimento pieno della persona nell’amore del Signore per il servizio del Regno. L’olio impregna, macchia, come si dice, in un modo tutto particolare, perché per la sua struttura riesce a penetrare nei pori delle cose e della pelle. Non solo ricopre ma penetra, impregna e possiamo ben dire che trasforma l’oggetto, mescolandosi con esso. In questo senso significa la consacrazione della persona, la totale assegnazione della persona a Dio per il compimento della missione.

L’olio, in questo primo significato ci ricorda che la nostra vita appartiene a Dio, il quale col suo amore misericordioso ci è venuto incontro, ci ha perdonato e continua a perdonarci, facendoci entrare nella condizione di suoi figli amatissimi. Ciò è vero per ogni cristiano in forza del Battesimo e della Santa Cresima. Per noi sacerdoti e vescovi in modo particolare per il Sacramento dell’Ordine ricevuto.

Ricordarci questa nostra santa unzione, vuol dire allora ricordarsi dell’amore senza limiti di Dio nei confronti di ciascuno di noi e sentirsi fasciati dalla sua misericordia. Grati al Signore per questo, vogliamo però pregare perché ancora scenda su di noi ogni giorno l’olio della misericordia di Dio, per esserne completamente conquistati, perché non possiamo più fare a meno di Lui, da quando è ormai è entrato nella nostra pelle.

Segno di consacrazione, dicevo, ma anche segno della missione. E’ questo l’olio. Ci fa pensare a ciò che il Signore ci ha affidato: una missione di tenerezza e misericordia. L’olio ha questa proprietà: di togliere ruvidità alle cose, di rendere agevole l’articolazione dei meccanismi, permettendo il superamento dell’attrito. Possiamo dunque dire di essere stati inviati a “ungere” con l’olio della letizia che è Cristo Signore, affinchè ogni uomo conosca l’amore vero e sia in grado a sua volta di amare. L’unzione che siamo chiamati a compiere rappresenta la missione della chiesa e del cristiano nel mondo. Essa consiste nell’ “ungere” di Cristo il mondo, nell’ “ungere” con la santa unzione tutti i nostri fratelli, facendo scendere abbondante l’olio della misericordia e della consolazione dentro la società di oggi, in questo nostro contesto sociale, perché esso si rinnovi e diventi fraternità. Questo è il nostro compito, il nostro impegno, la nostra preoccupazione.

Carissimi amici e fratelli, viviamo in una società violenta e terribile. Gli animi sono accesi, imbarbariti, impauriti a tal punto da reagire di scatto e senza controllo al più piccolo segnale di pericolo, seppur solo immaginato. La crisi economica e l’incertezza del futuro mettono a dura prova la tenuta nervosa di molti. L’ingiustizia sociale, l’instabilità affettiva e la provvisorietà dei generi e degli amori, rende tutti più insicuri e rabbiosi. Il terrorismo, così atroce e imprevedibile, ci mette dentro un’ansia che spinge a guardare con sospetto ogni diverso da noi. Il martellante, continuo, asfissiante circuito mediatico, unitamente all’incessante presentazione di una felicità a buon mercato, ci riempiono di menzogne e di desideri fasulli e illusori. Aumentano perciò frustrazione e risentimento, mentre cresce – specie nelle nuove generazioni – la voglia di spaccare ogni cosa.

In questi nostri giorni aspri e amari, basta davvero poco perché deflagri la violenza e scoppi la guerra. Anzi, per certi versi essa è già in atto. Basta poco, davvero poco, per mandare tutto all’aria.

Dentro questa società, dentro questo mondo lacerato da dissidi e contese, da prepotenze e ingiustizie, noi siamo chiamati, amici miei carissimi, a versare l’olio della compassione e della misericordia, l’olio della tenerezza e della mansuetudine.

Sì carissimi. E’ la nostra missione in questo momento; ed è questa la vera profezia, di questi tempi: versare olio di letizia.
L’olio della operosità silenziosa.
L’olio della comprensione piena di simpatia per gli altri.
L’olio della umiltà e della mitezza.
L’olio del perdono.
L’olio della preghiera per l’altro.
L’olio del sorriso, del dialogo e della disponibilità semplice e quotidiana.
L’olio del senso di responsabilità per ogni parola che si dice e ogni gesto che si compie.
L’olio infine perché no, anche di un sano senso dell’umorismo e del non prendersi troppo sul serio.

E tutto questo, carissimi amici, ci è chiesto di farlo a partire da noi preti, tra di noi. Papa Francesco, tante volte purtroppo citato a sproposito dai mezzi di comunicazione, ha detto l’altro giorno durante l’ordinazione di alcuni vescovi – e lo ha sottolineato insistendovi – che per un vescovo il primo prossimo sono i sacerdoti. E io mi permetto di aggiungere – nella stessa linea – che il primo prossimo per un prete è proprio il suo confratello.

Carissimi, la benedizione dei tre oli santi ben ci ricorda questo nostro ministero di “unzione” che ci è stato affidato a vantaggio reciproco e di tutto il popolo. Con l’olio per gli infermi siamo chiamati a portare conforto a quanti sono malati nel corpo, nell’anima e nello spirito, perchè siano liberati da ogni malattia, angoscia e dolore. Con l’olio dei catecumeni dobbiamo essere vicini a ogni uomo che cerca la verità perché comprenda più profondamente il Vangelo di Cristo; conosca la bellezza della vita cristiana e la gioia di rinascere e vivere nella tua Chiesa. Con l’olio santo del Crisma siamo chiamati a far si che ogni discepolo di Cristo, spanda il profumo di una vita santa e si compia in lui il disegno del Padre e la sua vita integra e pura sia in tutto conforme alla grande dignità che lo riveste come re, sacerdote e profeta.

Compiti sacerdotali, questi, a noi affidati in modo particolare e ai quali ci dobbiamo dedicare con generosità; ma a tutti, all’intero popolo di Dio, presbiteri, laici, religiosi e religiose, a tutti noi consacrati dall’unico Spirito, è affidato il compito di ungere i nostri fratelli con l’unzione dell’amore di Cristo. Cerchiamo allora per davvero, tutti quanti insieme, chiesa di Pistoia, di impegnarci a fondo a portare il lieto annuncio ai miseri, 
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,

consolare tutti gli afflitti,
 dare agli afflitti di Sion 
una corona invece della cenere,
 olio di letizia invece dell’abito da lutto,
veste di lode invece di uno spirito mesto.

+ Fausto Tardelli




Ordinazione presbiterale di Gildas e Ugo – 5 Gennaio 2016

Ordinazione presbiterale di Gildas e Ugo
5 gennaio 2016 – Cattedrale di S. Zeno – Pistoia

In questo momento, l’emozione per quelle che sono le mie prime ordinazioni sacerdotali a Pistoia – e spero che ce ne siano tante altre nei prossimi anni – è grande. E’ un’emozione unica, che solo il vescovo può provare. La grandezza del dono che si comunica attraverso la preghiera e l’imposizione delle sue mani è tale, che la coscienza della sua miseria e debolezza gli fanno sentire che si compie un miracolo, assolutamente un miracolo. E’ una paternità miracolosa, quella che si realizza; una paternità che dona fecondità a chi è ben consapevole della propria sterilità e non può che guardare con stupore a ciò che la potenza di Dio opera attraverso di lui, senza alcun merito.

Carissimi Gildas e Ugo, la festa solenne dell’Epifania del Signore, ci pone davanti agli occhi la storia dei magi d’oriente: gente che cerca il Signore, lo trova e l’adora, ritornando poi ad annunciare alle genti il nato Messia.
Questa affascinante e misteriosa storia raccontata nei vangeli dell’infanzia, nasconde un segreto messaggio di verità; rivela l’universale chiamata dei popoli, di tutti e di ognuno, all’incontro con la luce che sconfigge le tenebre, con la fonte dell’amore che vince l’odio, con la sorgente della speranza bambina che attraverso la croce fa risorgere la vita.

Proprio dall’avventura di questi misteriosi sapienti, vorrei trarre questa sera, per noi e per voi, carissimi Gildas e Ugo, insegnamenti e propositi per la vita dei presbiteri.
Ed ecco che dapprima ci possiamo soffermare sul fatto che questi sapienti camminano cercando il Signore. Camminano senza stancarsi, guidati da una stella speciale nel cielo d’oriente. Camminano e domandano. Sanno che il Re dei re è nato sulla terra, è dentro le pieghe della terra. E lo cercano senza posa, muovendo i propri passi da lontano, fino alla meta.

Così, carissimi, dev’essere la vita di un sacerdote di Dio: alla ricerca costante di Lui, in cammino sempre, perché mai arrivati. In cammino come un qualsiasi uomo che cerca la via della vita. Senza fermarsi, senza considerarsi mai sul trono dei sistemati, sapendo invece che quel Dio che è nato nel mondo, Re dei re e Signore dei Signori, si nasconde nei luoghi più impensati, nei posti dove non immagini possa essere il sovrano del mondo, in mezzo alla povera gente, in una grotta di pastori, cullato da una tenera e giovane madre e da un padre che fa del silenzio la sua parola. Il prete non si stancherà mai di cercare il suo Signore. E lo cercherà, questo Signore, in quel povero pezzo di pane che consacrerà ogni giorno; nelle pagine sgualcite di un usato breviario; nella capanna mal messa che spesso è la santa e povera chiesa, nel silenzio di un tabernacolo; come – e eccome – nel volto dei poveri, dei malati, dei soli, di chi non ha nulla, neppure la dignità. Siate dunque cercatori di Dio, dovunque esso si celi, sempre in cammino per riconoscerlo e adorarlo.

E proprio l’adorazione è la seconda cosa cui vorrei far riferimento per la nostra e vostra vita, stasera, carissimi Gildas e Ugo. “Siamo venuti per adorare il Signore”. Così dicono i magi. Davanti al bambino, narra il testo, essi “si prostrarono e lo adorarono” presentando i loro doni. Il presbitero deve essere un uomo abituato a prostrarsi e ad adorare Dio e Dio solo. Lo farete tra poco fino a baciare la terra, e dovrà essere questo il segno di uno stile di vita che adora Dio solo, nessun’altra creatura, né il denaro né il potere e nemmeno se stessi. Meno che meno, il principe di questo mondo che cerca subdolamente adoratori in ogni dove, anche nella santa casa del Signore. La schiena del presbitero non si può piegare. Deve restare diritta, senza paure e senza servilismi, senza preoccupazioni di carriera o altro; piegandosi invece ogni giorno solo davanti al Dio Altissimo per adorarlo nella sua infinità maestà, nella sua tenera dolcezza, nella sua forza onnipotente, nella sua misericordiosa e umile presenza, medicina di fronte all’arroganza dei superbi e allo strapotere degli idoli di turno.

Nell’adorazione i magi offrirono doni. E noi che cosa mai potremmo offrire alla maestà divina? I nostri doni, certo, cioè le nostre povere vite; la vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, i drammi e le ferite, le gioie e le speranze di ognuno, il grido dei poveri e dei diseredati. Si, tutto questo possiamo offrire al Signore, aprendogli lo scrigno del nostro piccolo cuore. Soprattutto però noi offriamo alla maestà divina, tra i doni che ci ha dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza, cioè Gesù Cristo nostro Signore, che nei doni dei sapienti d’oriente è significato, immolato e ricevuto.

Ecco, per noi sacerdoti di Dio, quella Messa celebrata ogni giorno a lode del Padre e vantaggio di tutto il popolo è il massimo della adorazione. In quell’offerta eucaristica di Gesù morto e risorto c’è la pienezza del nostro ministero, la salvezza del mondo, la resurrezione dei morti, la vita che non muore, il senso di tutto l’universo, la discesa sul mondo della pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo e la nostra personale guarigione.
Sappiate quindi sempre, Gildas e Ugo, immedesimarvi nell’Eucaristia che da stasera celebrerete “in persona Cristi” per il bene degli uomini. Vivete dell’Eucaristia e vogliate conformare la vostra vita al mistero che celebrate. “Imitamini quod tractatis”, vi dirò tra poco nei riti esplicativi dell’Ordinazione. Ricordatevelo sempre.

Infine, ecco che questi sapienti d’oriente fecero ritorno a loro paese. Come non leggere in questa semplice notazione, il viaggio che porta ad altri la buona notizia dell’incontro avvenuto? Credo davvero che si possa intendere così e dunque pensare che dall’incontro adorante col bambino Gesù, i magi se ne tornarono al loro paese con la gioia nel cuore, quella che avevano provato al vedere la stella. Consapevoli di due cose, ritengo: la prima, che Dio, dal momento dell’incarnazione, lo si può incontrare in ogni uomo, specie piccolo e indifeso, perché ogni uomo porta la sua impronta ed è Lui, Lui da accogliere, Lui da sfamare, Lui da visitare, sorreggere e curare; la seconda, che questa novità del mondo va portate a tutti, tutti ne devono essere al corrente: se Dio ha visitato la terra ogni uomo ha diritto di saperlo.

Così, carissimi, dev’essere il presbitero: uno che si cura del popolo e va a cercare chi si è perduto o è rimasto ai margini della strada, per raccontargli dell’amore del Signore. Non sta in pace, non può essere in pace il sacerdote sapendo che ci sono uomini e donne, giovani o vecchi che soffrono, attendono, sperano. Egli porta nel cuore una santa inquietudine, quella di chi sa di dover far conoscere la misericordia di Dio dovunque.
Non abbiate perciò mai, carissimi, la mentalità dell’impiegato che, fatte le sue ore di lavoro, può finalmente pensare a se stesso. Ne’ cadete mai nella tentazione di vedere il vostro ministero come incarico funzionale, provvisorio, a tempo, limitato alle mansioni che vi saranno affidate. Il vostro cuore batta invece all’unisono con quello di Cristo che ha sete della salvezza di ogni uomo e vi spinga fuori, a cercare e trovare, a visitare e incontrare, come veri debitori del Vangelo verso chiunque.

Che Dio vi accompagni, Gildas e Ugo per le strade della vita e la chiesa di Pistoia possa godere a lungo del vostro ministero. Che la santissima Vergine Maria, nostra tenerissima Madre, vi tenga per mano, perché non vi smarriate per via nella tempesta, non vi lasciate mai soffocare dalla tristezza né sgomentare di fronte all’inevitabile croce, dalla quale il nostro Sovrano non disdegnò di regnare sul mondo.

+ Fausto Tardelli




Omelia del Pontificale di Natale 2015

Prorompete insieme in canti di gioia, 
rovine di Gerusalemme, 
perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.”
L’invito di Isaia squarcia il cielo e scuote la terra, riempie questa cattedrale e la inonda di gioia. Da stanotte, tutta la liturgia del Natale ci invita a esultare. Il canto festoso della nostra assemblea si unisce al coro degli angeli che annunciano gloria in cielo a Dio e in terra pace agli uomini che egli ama, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.

Domandiamoci però, fratelli e amici, “come” il Signore ha consolato il suo popolo e ha riscattato Gerusalemme, simbolo in questo caso del mondo intero. Se non ce lo domandassimo e non lo chiarissimo, rischieremmo di non cogliere la verità profonda del Natale e l’invito a cantare di gioia, alla fine suonerebbe posticcio, artefatto, in fondo falso.

Ascoltiamo allora il Vangelo di stamani, il magnifico prologo del Vangelo di san Giovanni. Il Verbo, la Parola eterna di Dio, la seconda persona della SS. Trinità, il Figlio Unigenito, consustanziale col Padre, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Il prologo del vangelo di Giovanni aggiunge che in Lui era la vita e che la vita era la luce degli uomini. La vita fatta luce entra nel mondo come una novità assoluta. E’ questa la novità del Natale. Nel Verbo incarnato entra nel mondo la vita che è luce che illumina ogni uomo. E’ dunque proprio in questo venire a noi della vita fatta luce nella persona di Gesù che consiste la consolazione del popolo e il riscatto di Gerusalemme.
Ma se è così, è perchè, senza Cristo il mondo è senza vita, è morto, rimane prigioniero delle tenebre, assolutamente incapace di respirare, come immerso in una cappa di smog ben peggiore, ben più velenosa di quella che purtroppo in questi giorni affligge le grandi città. Del resto non ci vuol molto a rendersi conto di quella che è la situazione del mondo, quando – ci dicono i mezzi di comunicazione – almeno 5 bimbi muoiono ogni giorno soltanto per attraversare il mare Egeo, e moltissimi altri muoiono per fame, per la violenza, l’oppressione o nel seno di una madre che non li vuole. Le tenebre del mondo sono spesse, se pensiamo ancora a quello che è successo a Parigi e accade con il terrorismo, con la guerra in tanta parte del mondo. Senza parlare poi delle gravi ingiustizie sociali che impoveriscono sempre di più la gente e arricchiscono pochi. Non possiamo poi dimenticare i numerosi nostri fratelli cristiani, cacciati dalle loro case, depredati, perseguitati, uccisi, che quest’anno non possono celebrare il Natale.…. Potremmo continuare ancora a lungo, in una li sta interminabile di nefandezze che mostrano le tenebre in cui è avvolto il mondo, con la morte che sembra avvolgere ogni cosa.

In questa situazione del mondo, di oggi e di allora, il Natale del Signore si pone come luce che sconfigge le tenebre, come vita che trionfa sulla morte, come novità di un mondo nuovo. Ecco dunque la risposta alla domanda che ci siamo fatti all’inizio: come il Signore ha consolato il suo popolo e ha riscattato Gerusalemme? Ebbene, si, l’ha fatto nascendo in mezzo a noi, nascendo nella grotta di Betlemme, adagiato in una mangiatoia. L’ha fatto attorniato da poveri pa-stori che dormivano all’addiaccio per custodire le greggi. L’ha fatto nascendo da una semplice ragazza di Galilea, Maria di Nazareth.

Siamo sinceri, carissimi amici e fratelli, il modo scelto da Dio appare alquanto originale, sconcertante e diciamocelo pure, ad una logica puramente umana, anche un po’ inconcludente. Chi se ne accorse allora di quella luce che nasceva? Chi si accorse che la vita veniva nel mondo? Quasi nessuno. Secondo il nostro modo di ragionare, parrebbe che per sconfiggere le tenebre del mondo, ci sarebbe voluto ben altro che questa nascita così insignificante! E in effetti verrebbe da dire, ad uno sguardo superficiale, che cosa cambiò nel mondo dopo quella notte di Betlemme? E, a dirla tutta, che cosa è cambiato anche oggi, se siamo qui a constatare una situazione come quella che ho sommariamente descritta?

Carissimi amici e fratelli, per superare lo scandalo dovuto all’apparente inefficacia del Natale e capire che la gioia del Natale è vera gioia, incontenibile gioia, occorre fare ancora una riflessione. Occorre cioè comprendere con la fede che l’entrata della vita e della luce nel mondo con Gesù Cristo è amore, nient’altro che amore, purissimo amore che si riversa sul mondo, un fiume in piena di amore che inonda la terra e si spande in mille rivoli, penetra nel tessuto umano e feconda la terra, avviandosi così la lenta gestazione del mondo nuovo. Col Natale entra nel mondo l’antidoto decisivo contro il veleno del mondo. Ci vuol tempo perché faccia il suo effetto. Occorrono cure e attenzione. Ma l’antidoto è ormai presente nella storia del mondo e abita la nostra terra. Niente e nessuno lo può più eliminare.

E l’antidoto ha un nome: Gesù di Nazareth, Figlio di Dio fatto uomo per cercare l’uomo che si era perduto. Lui che passò nel mondo beneficando tutti, morì però crocifisso continuando ad amare persino i suoi carnefici e vincendo così la morte stessa. Lui è amore senza limiti che non si arrende e non viene meno, nonostante tutto. E’ amore che si china sulle nostre ferite e miserie, sulle ferite dell’uomo e le cura senza pretendere niente in cambio. Lui è amore che perdona i peccati, che toglie i peccati del mondo, che offre riscatto e vita nuova a tutti e dice a ogni uomo, anche col cuore cattivo e di pietra: Dio ha fiducia in te, ti ama, ti vuole felice, puoi cambiare, puoi imparare ad amare, puoi vincere l’odio e la morte; Dio ti è accanto in questo cammino, non ti abbandona, cammina con te, lotta con te, muore anche con te, per risorgere però immortale perché l’amore vince ogni cosa.

Ecco dunque, col Natale del Signore è entrato definitivamente nella storia questo Dio d’amore e di misericordia. La storia di Gesù possiamo riviverla anche noi. Ce ne è data la possibilità. E’ una strada in salita, quella che ci è proposta; certamente faticosa ma liberante e chi l’accoglie è passato dalle tenebre alla luce.
A noi, carissimi, è chiesto oggi da che parte stare, se tra coloro che accolgono Gesù e accettano di essere guariti dal suo amore; che camminano sulla strada dell’amore generoso e disinteressato e seguono le orme del Figlio di Dio fatto uomo per amore, morto e risorto per noi; tra coloro che cercano di vivere da figli di Dio e fratelli amorevoli degli altri, dandosi da fare ogni giorno per rinnovare il mondo; oppure tra coloro che, pieni di sé, non hanno bisogno di Dio, preferiscono le tenebre perché lì si fanno meglio li affari, chiudono occhi, orecchi e cuore alle necessità del fratelli, al grido della loro dignità offesa e pensano a salvare solo se stessi. Ci è chiesto di scegliere.

I miei auguri di Buon Natale per me e per voi e che sappiamo scegliere di stare dalla parte giusta. Dalla parte di Maria e Giuseppe, dei pastori e di tutti quegli uomini e quelle donne che lungo i secoli hanno seguito il Signore.

+ Fausto Tardelli




Omelia della Messa della Notte di Natale 2015

Avevo fame e mi deste da mangiare; avevo sete e mi deste da bere; ero nudo, infreddolito, indifeso, straniero, piccolino, e mi avete accolto, curato, sostenuto, amato…. Questo è ciò che vorremmo e dovremmo sentirci dire questa notte dal bambino Gesù. Questo è ciò che vorremmo e dovremmo sentirci dire da Lui…. ma ce le potrebbe rivolgere in verità, stanotte, Lui, queste parole? La domanda ci inquieta. E’ giusto che ci inquieti, perché il Natale, nella sua umile dolcezza è solo apparentemente innocuo: in realtà è profondamente provocatorio.

Dio, carissimi amici e fratelli, è venuto a visitarci come un bimbo bisognoso di tutto e ci chiede una sola cosa: di accoglierlo con amore. E’ venuto nella povertà. Come ci ha detto il Vangelo: Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.
Eccolo lì, il nostro Dio, Colui che né il cielo né la terra possono contenere. Eccolo lì, in quella mangiatoia per animali, nel posto dove stanno gli animali. Eccolo lì e ci chiede una sola cosa: di fargli spazio, di prenderlo in braccio e cullarlo, di accoglierlo con amore. Il Nostro Dio, che è misericordia infinita e usa misericordia nei nostri confronti, chiede Lui a noi misericordia. E’ davvero un paradosso: Dio ci usa misericordia chiedendoci misericordia, tendendo verso di noi le piccole braccia di bimbo, bisognoso di tutto. Abisso inaudito della logica di Dio che sconvolge i nostri modi di ragionare, che ci stupisce d’amore e ci fa cadere in ginocchio adoranti.

In questi giorni, un po’ dovunque, in casa come in strada, nelle chiese come nei palazzi si fanno i presepi. Ci affascinano sempre ed è una tradizione bellissima che il genio di San Francesco ha consegnato alla storia e che va fatto ogni sforzo per mantenere in vita.
Davanti ad essi cerchiamo però di fare attenzione. Non accontentiamoci di vederli e ammirarli: ascoltiamoli, invece. Accostiamo l’orecchio e proviamo ad ascoltare. Nel silenzio udremo allora una flebile voce di bimbo che dice: ho fame, ho sete, sono nudo e infreddolito, piccolino e indifeso… che cosa aspetti ad accogliermi, curarmi, amarmi?
Sarà Natale per davvero, carissimi fratelli e sorelle, se riusciremo a sentire questo bimbo che piange e ci chiede risposta. Se, ascoltandolo, tenderemo le nostre mani con gioia per incontrarlo nel cuore come grazia che salva, parola di vita che rigenera e volto misericordioso di un Dio che ci ama. Se, pentiti della nostra arroganza, correremo da Lui e lo riconosceremo come nostro Signore e Re dei re. Si, re dei re e signore dei signori. Come ci ha infatti detto il profeta Isaia: “Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.” “Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.”

Riconoscerlo così, il nostro Dio, nato bambino, è inequivocabilmente questione di fede. Riconoscere in quel bimbo infreddolito e bisognoso di tutto, Dio onnipotente, il re dei re, solo la fede può farlo. La ragione si arresta sulla soglia di questo mistero e sarebbe tentata addirittura di dichiararne l’assurdità. Soltanto la fede riesce a cogliere la verità profonda del Natale. Per questo, la prima cosa che dobbiamo chiedere stanotte è che la nostra povera fede si rafforzi, maturi, acquisti occhi per vedere e contemplare il mistero di Dio, illumini tutta la nostra vita, osi manifestarsi con coraggio e letizia.

Non va però dimenticato che la fede senza le opere è morta. San Paolo ce lo ha ricordato, quando ha detto nella seconda lettura che l’incarnazione del Verbo di Dio ci deve insegnare “a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà.”
Perciò sarà Natale per davvero – e saremo davvero Chiesa del Signore – anche e solo se nella richiesta d’aiuto e d’amore che viene dal bambino di Betlemme coglieremo il grido di tutti i bambini offesi del mondo, di tutti i poveri della terra. E se a questa richiesta d’aiuto risponderemo andando in fretta incontro al fratello, condividendo con lui il tempo, ciò che abbiamo e che siamo, abbattendo i muri dell’indifferenza a volte più spessi dell’odio.

Ci dice Papa Francesco nella bolla d’indizione dell’anno santo speciale della Misericordia, da lui ardentemente voluto, che dobbiamo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. E afferma: “Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi!” “Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi.” “Siamo chiamati perciò a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità.”

Carissimi amici e fratelli, il divino bambino di Betlemme ci tende le braccia e aspetta la nostra risposta. Non possiamo far finta di niente, né accontentarci di guardare la sua immagine dentro i presepi, né di una emozione passeggera. Gesù bambino attende risposta, attende scelte di vita. La attende a Natale ma anche dopo, nei giorni molti o pochi della nostra umana esistenza. Ognuno è chiamato in prima persona. Egli aspetta risposta da me, da te, da noi, dal mondo. E alla richiesta d’aiuto unisce una promessa che è benedizione per oggi e speranza per domani: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”.

+ Fausto Tardelli




L’omelia del Vescovo in occasione dell’apertura del Giubileo

Apertura della porta della misericordia

Cattedrale di Pistoia 12 dicembre 2015

Abbiamo aperto poco fa la porta della misericordia e siamo passati attraverso di essa. La porta è Cristo e il suo volto è la Misericordia. Lui è il volto misericordioso di Dio che ci è venuto e ci viene incontro per darci la sua vita, per farci partecipare alla sua vita divina.

A che cosa infatti ci da accesso la porta della misericordia che è Cristo? Ci da accesso alla pienezza della vita divina in noi. Dio guarda alla nostra esistenza, alla nostra sofferenza, al nostro peccato, con occhi di misericordia. Egli è innamorato all’eccesso della sua creatura e non si stanca di guardarla con amore e di intervenire a suo favore, Egli ci precede sempre con la sua grazia; fa sempre Lui il primo passo verso di noi e tutto fa a un solo scopo: renderci partecipi della festa della sua gloria, perché lì, per noi, è la felicità senza fine.

Abbiamo bisogno della misericordia di Dio, carissimi fratelli e amici Abbiamo bisogno di sentirci amati, perdonati, accolti come figli. Questo amore è ciò che ogni uomo cerca dal profondo del cuore, anche se spesso non lo sa o non lo vuole accettare. Questo amore è ciò a cui anela attraverso i meandri a volte tortuosi della sua vita: l’uomo anela a Dio, a vivere la vita di Dio, a vivere la comunione piena con Lui e attraverso di Lui con tutti gli altri esseri umani e con l’intero creato. Perché senza Dio, l’uomo è perso. Senza Dio non c’è che menzogna e violenza; senza il suo amore misericordioso non c’è che infelicità e tristezza e ogni uomo diviene lupo all’altro, il potente schiaccia il debole, il ricco umilia il povero, il più forte domina la scena del mondo e il più furbo inganna a morte il fratello. E’ così, senza il Dio della misericordia, senza quel Dio che si è manifestato nel volto piagato e crocifisso del Cristo, nel volto tenerissimo del Figlio dell’uomo, nel volto raggiante e glorioso del Risorto. Senza Dio, non c’è misericordia nel mondo. Non può esserci.

Il Papa giudica urgente che questo messaggio della Misericordia di Dio raggiunga oggi tutti gli uomini. Ritiene urgente e non dilazionabile che la chiesa esca e si muova per adempiere generosamente a quella che è la sua missione: andare a cercare chi si è perduto per annunciargli la Buona Notizia del Regno di Dio, per fargli sperimentare la misericordia di un Padre che vuole tutti salvi, che questo Padre lo sta cercando. E’ una vera urgenza, quella di cui parla il Papa. Ne dobbiamo prendere atto.
Se la Chiesa deve essere un “ospedale da campo”, come più volte Papa Francesco ha detto, è perché il mondo è un campo di battaglia con morti e feriti senza numero. Se la Chiesa deve essere un’“oasi di misericordia”, come ancora il Papa dice nella Bolla di indizione del giubileo, è perché il mondo di oggi è un deserto arido e bruciato dal sole e ha urgente bisogno di sapere che Dio lo ama, che Dio ha fiducia nell’uomo, che non è nemico dell’uomo, bensì un padre che perdona e salva.
Alla Chiesa deve stare a cuore, sommamente a cuore, che ogni uomo conosca la salvezza, la Misericordia del Padre, e comprenda che c’è la possibilità di rinascere nella speranza, qualsiasi sia la condizione in cui ci si trova, anche se si è scartati da questa società o se si è ultimi e poveri di beni e d’amore.

Carissimi fratelli e amici, noi siamo chiamati a invitare gli uomini ad approfittare di questo amore misericordioso, a rispondere all’amore, perché l’amore non resti non amato; siamo chiamati a invitare i nostri fratelli ad accorrere e ad entrare attraverso la porta della misericordia nella pienezza della vita. Dobbiamo patire e soffrire perché nessun uomo si perda, perché tutti si convertano all’amore di Dio, perchè ogni uomo si lasci amare e perdonare.
Non è purtroppo scontato che ciò accada. Suor Faustina Kowalska nel suo Diario, lei che Papa Francesco ha giustamente indicato come l’apostola della Divina Misericordia, riporta queste parole intese in una esperienza interiore come pronunciate dal Signore: “…Il Mio Cuore è stracolmo di tanta Misericordia per le anime (…) Oh! se riuscissero a capire che Io sono per loro il migliore dei Padri; che per loro è scaturito dal Mio Cuore Sangue ed Acqua, come da una sorgente straripante di Misericordia; che per loro dimoro nel tabernacolo e come Re di Misericordia desidero colmare le anime di grazie, ma non vogliono accettarle (…) Quanto è grande l’indifferenza delle anime per tanta bontà, per tante prove d’amore! (…) Hanno tempo per ogni cosa; per venire da Me a prendere le grazie non hanno tempo…” (Diario, 367). “Infelici coloro che non approfittano di questo miracolo della Divina Misericordia! (Diario, 1448).

Ecco carissimi: la porta della Misericordia, il cui segno è la porta della nostra cattedrale che si è aperta, indica la necessità di accorrere a Dio per essere perdonati dai nostri peccati. E’ una porta che rimane certamente sempre aperta. Che è sempre possibile attraversare; che non si chiude in faccia a nessuno. Però occorre varcarla, questa porta, passarci in mezzo, attraversarla. Ed entrare per la porta della Misericordia significa riconoscere – stupiti – che Dio ci precede sempre e non aspetta che siamo buoni per amarci. Significa ancora – perché amati oltre ogni misura – saper riconoscere il male che è in noi, vedere le nostre nefandezze, le nostre ipocrisie, tutte le nostre cattiverie, il cuore malato invidioso e rancoroso, la brama di potere che è in noi, l’ingiustizia che alimentiamo, la distruzione della casa comune cui contribuiamo. Significa infine, col cuore sinceramente contrito e con la ferma volontà di cambiare vita, affidarsi alla misericordia di Dio.
Troveremo allora pace e gioia per davvero. Perché non c’è vita disordinata e peccaminosa che non possa essere recuperata. Allora, le parole del profeta Sofonia risuoneranno dolcissime nel nostro cuore: “
Rallegrati, figlia di Sion,
grida di gioia, Israele,
esulta e acclama con tutto il cuore,
figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
”

Ancora un’ultima considerazione vorrei fare, prima di concludere, carissimi fratelli e amici. Il Motto scelto dal Papa per l’anno santo è: “Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro.” Ciò vuol dire che all’esperienza personale e comunitaria della misericordia, deve seguire una vita realmente misericordiosa verso il prossimo. Se non si traducesse in un cuore misericordioso che sa usare misericordia nei confronti degli altri, sarebbe vano passare attraverso la porta santa; sarebbe perfettamente inutile chiamarsi discepoli di Cristo e falso dirci cristiani.
Qui si manifesta dunque la necessità di un cambiamento concreto di vita. Le indicazioni date da Giovanni il Battista ai suoi concittadini – come le abbiamo ascoltate nel vangelo di oggi – sono esemplificazioni da tradursi nella nostra attualità. «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». «Non esigete nulla di più di quanto è giusto». «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno».
Indicazioni che però non sono sufficienti. Occorre incamminarsi sulla via delle opere di misericordia, le sette corporali e le sette spirituali, come tradizionalmente insegnato dalla Chiesa. Occorre soprattutto però avere un cuore misericordioso, cioè ben disposto nei confronti dell’altro, preveniente nel bene, aperto, disponibile all’incontro e al dialogo. Non si tratta di “fare opere di misericordia” ma di “essere misericordiosi”, imitando l’agire stesso di Dio così come si è manifestato in Gesù.

Carissimi, questo impegno a essere misericordiosi è richiesto alla chiesa nei confronti del mondo, degli uomini e delle donne del nostro tempo, come ho già detto. L’impegno è però richiesto prima di tutto alla chiesa al suo interno, per rinnovare le relazioni fraterne nelle nostre parrocchie e delle nostre Chiese particolari. Non possiamo infatti essere misericordiosi con gli altri, se non deponiamo le armi della gelosia, dell’invidia, dell’inimicizia e della maldicenza, e se non impariamo a usarci misericordia tra di noi, ad accoglierci nella stima reciproca, nell’affetto, nella tenerezza,

Passando allora dalla porta santa quest’anno – e concludo -, carissimi fratelli ed amici, ricordiamoci le cose che ci siamo detti stasera. Mi auguro che questo sia un anno davvero speciale per tutti noi. Un anno di grazia e perdono, di rinnovamento della nostra chiesa diocesana e di rilancio della sua missione apostolica; un anno anche di riscoperta della forza prorompente della gioia sopra ogni tristezza e malumore. Con San Paolo mi sento questa sera perciò di dirvi: Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! 
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. 
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

+ Fausto Tardelli 




Omelia nella Veglia per le vittime dell’esodo migratorio

(Cattedrale di San Zeno, 10 Settembre 2015)

La prima parola di stasera è il silenzio. Silenzio raccolto e drammatico. Silenzio carico di dolore, di preghiera ma anche di speranza. Silenzio di compassione e indignazione insieme. Facciamo silenzio per le migliaia e miglia di morti in mare e altrove in questa migrazione epocale che stiamo vivendo.
Questi nostri fratelli, vecchi giovani, donne, uomini, bambini cercavano un mondo migliore, nuove opportunità di vita, un futuro, la libertà, e sono morti.
Li accompagniamo con la nostra preghiera al trono dell’Altissimo perché Lui, l’unico giusto, possa dare loro non solo ciò che non hanno trovato su questa terra, ma molto di più: la felicità piena e duratura, il compimento traboccante delle loro aspettative di felicità, amore senza fine. Dio che è ricco nella misericordia e nella fantasia, siamo certi saprà non far rimpiangere loro quanto hanno lasciato sulla terra, asciugherà le loro lacrime, una ad una e consolerà i loro cuori.

La prima parola di stasera è dunque il silenzio con cui affidiamo a Dio tutti questi nostri fratelli e nostre sorelle che non sono più tra noi sulla terra, di cui non conosciamo il nome, anonime vittime della guerra, dell’ingiustizia, del terrorismo, dell’indifferenza e dell’odio, ma che Dio, l’onnipotente invece conosce per nome. Lui di ognuno di loro conosce il nome e il colore degli occhi, il numero dei capelli e le pieghe dell’anima; Lui ama ognuno di loro come unico.

La seconda parola però, oltre il silenzio, è un grido. Un grido che vuole risvegliare la coscienza di ognuno di noi, un grido che ci chiama a responsabilità, che ci domanda conto del sangue del fratello. E non possiamo rispondere come Caino: “son forse io il custode di mio fratello?” Noi siamo i custodi dei nostri fratelli e questa consapevolezza deve essere forte in noi.
La seconda parola stasera è un grido che mi sento di lanciare di fronte al mondo. La mia voce è una povera voce e conta niente. Chi mai l’ascolterà? Chi potrà raggiungere? Ciononostante voglio parlare. Qualcuno mi potrebbe dire: ma chi ti credi di essere? Ma io parlo lo stesso. Qualche altro forse mi potrà dire che sono un ingenuo che non conosce la complessità dei problemi e dice banalità. Ciononostante sento il dovere da questa cattedrale, di dire alcune cose, anche a rischio di essere incompleto o parziale.

Ai fratelli dell’Islam dico: fate pace tra di voi e fate voi per primi gesti di accoglienza! E’ urgente, necessario, doveroso che tra sciiti e sunniti e tutte le altre fazioni in lotta ci sia pace; isolate e fermate i terroristi che bestemmiano il nome di Allah il grande! Molti paesi islamici poi hanno ricchezze a non finire: le usino non per fomentare le guerre ma per accogliere i propri fratelli di fede.

Ai terroristi, ai quali va una buona parte di responsabilità per la situazione attuale, gridiamo: basta, in nome di Dio. Basta, perché il vostro disprezzo della vita umana e della cultura sta causando solo morte e distruzione. Pagherete domani, davanti alla storia e a Dio, per i vostri misfatti.

Ai potenti del mondo che governano le nazioni gridiamo di adoperarsi in ogni modo perché ci sia un po’ di pace nel mondo. Una pace che non può che essere fondata sulla giustizia sociale. E’ possibile fare qualcosa. Occorre farlo e in fretta.

Ai potentati economici e finanziari che sfruttano il mondo, in particolare l’Africa, diciamo con Papa Francesco che una certa economia uccide e che ogni ingiustizia nei confronti dei poveri grida vendetta al cospetto di Dio. L’economia deve aiutare la vita e l’ambiente, non distruggerli. Chi poi fa profitti speculando sui poveri, siano scafisti o gentleman in giacca e cravatta, ha un peso enorme sulla propria coscienza.

Ai paesi europei che chiudono le frontiere, dico che non è questa l’Europa che vogliamo, non è questa l’Europa che sogniamo.

Ai nostri amministratori comunali, quelli delle nostre terre che ancora non hanno aperto le porte all’accoglienza, domando di farlo al più presto, mentre alle comunità cristiane presenti in questi comuni chiedo di essere di sprone e pungolo.

Ai governati in particolare dell’Africa gridiamo: cessi la corruzione; cessino le guerre fratricide e la ricerca sfrenata del proprio interesse; dedizione invece chiediamo, dedizione piena al bene dei propri paesi, perché ci siano in essi condizioni di vita migliore.

Ai giovani africani che vengono da noi, manifestiamo certo la nostra accoglienza fraterna e piena ma anche diciamo che il loro futuro non è prevalentemente qui. Non può che essere in Africa, un ricco continente che ha bisogno di crescere nella prosperità, nella giustizia e nella pace che per questo ha bisogno di loro. Che abbiano quindi il coraggio, passata l’emergenza, di ritornare nei loro paesi e contribuire così al loro sviluppo.

A tutti i cattolici o che si ritengono tali, ripeto le parole di Gesù: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete alloggiato…” Queste parole ci impegnano a servire ogni uomo, specialmente quando è più debole e fragile: quando è nel seno materno appena concepito, quando è bambino indifeso, quando è vittima dell’ingiustizia e depredato dei suoi diritti, quando è migrante e forestiero, quando è senza lavoro, quando è malato o anziano o vicino alla morte. Prima di ogni altra considerazione e di ogni distinzione, prima di ogni legittima mediazione politica o valutazione su quote, possibilità e modalità, il cuore di ogni cattolico non può che essere abitato da queste parole di Gesù.

E proprio guardando alla nostra chiesa, provenendo in questo momento i migranti per la stragrande maggioranza dall’Africa, chiedo a tutto il personale religioso, sacerdoti e consacrati, di origine africana, di mettersi a completa disposizione di questa emergenza migratoria, non chiudendosi in se stessi, quasi che la loro condizione fosse un privilegio, ma sentendosi partecipi in pieno delle angosce e delle speranze dei propri fratelli africani. Il Signore ci ha fatto dono da anni di questa presenza tra noi. Lui che vede più in là di noi, forse ci stava preparando al momento attuale. Ora è giunto il tempo che questa ricchezza africana della nostra Chiesa, sia messa a frutto.




Settimana Teologica: le conclusioni del Vescovo

(4 settembre 2015)

Tirare le conclusioni. E’ una parola! Come si fa a tirare le conclusione di una settimana teologica? Mi limito quindi a qualche nota conclusiva in vista di future riprese.

Sono state serate intense, molto interessanti, quelle che abbiamo vissuto. Anche assai animate, stimolanti, sia per i relatori che per gli interventi. Come ho già detto, per me è stata un’esperienza nuova che ho vissuto con interiore partecipazione e gusto. Mi sento di confermare in pieno questa iniziativa che ha già 28 anni, ma che può avere davanti a sé molti anni ancora. Forse ci sarà da rivedere qualche cosa nella sua formula, forse nelle date, nel periodo, non so. Lo vedremo. Anche la numerosa partecipazione è un bel segno e mi fa dire e lo ribadisco, che la Settimana teologia è un vera perla preziosa della Chiesa pistoiese e, come vescovo di questa diocesi, me sono orgoglioso.

Voglio qui pubblicamente e sinceramente ringraziare Mons. Frosini per averla pensata 28 anni fa e per averla animata in tutti questi anni, con la sua passione e la sua intelligenza. Credo davvero che la Diocesi, anche solo per questo, gli debba gratitudine e sono certo che la Settimana teologica rimarrà nella storia di questa Chiesa particolare come qualcosa d’importante. Lo ringrazio anche per la consapevolezza sempre a me manifestata, di aver voluto in questo modo servire con il meglio di sé la Chiesa di Pistoia. Lo ringrazio infine per la sua relazione che ci ha fatto ancora una volta capire, giustamente, che senza l’impegno nel mondo, senza una presenza di giustizia e di amore dentro la storia, senza un impegno personale e sociale nella società, dalla parte dei poveri e coi poveri, non si da fede autentica, vera speranza e genuina carità. Don Frosini è un teologo di rilievo nel panorama italiano e anche oltre. Si può non esser d’accordo con lui su qualche cosa, si può avere una sensibilità teologica diversa, si può discutere con lui. E’ però un pensatore di valore, soprattutto per l’attaccamento e l’amore forte al Concilio Vaticano II e l’attenzione a tutto ciò che attiene alle problematiche della presenza della Chiesa nel mondo.

Sono stato molto contento del tema che, insieme proprio a don Frosini, abbiamo scelto per questa Settimana. L’Evangelii Gaudium di Papa Francesco rappresenta sicuramente, insieme ai suoi gesti e alle sue azioni concrete, il dono specifico di questo pontificato. Novità, certamente, ma dentro un solco già tracciato. Si può dire ciò che si vuole, si possono fare tutte le critiche e notare tutte le differenze che vogliamo, dobbiamo però dire che da 150 anni a questa parte il Signore ci ha donato Papi straordinari; molto diversi l’uno dall’altro, ma ognuno a suo modo grande e qualcuno anche santo. Invece di lamentarci, dovremmo ringraziare davvero il Signore per questa grazia abbondante e semmai domandarci se noi, con le nostre sottigliezze bizantine, non abbiamo a volte sperperato questa grazia.

Le relazioni e le discussioni di questa settimana ci hanno permesso di approfondire l’Esortazione papale e di coglierne il messaggio fondamentale, racchiuso proprio nelle parole che danno nome all’esortazione “la gioia del Vangelo”. Che ci sia gioia per noi e per gli altri. Che ci sia gioia nella Chiesa e dentro le periferie del mondo. Gioia “rivoluzionaria”, mi piace chiamarla così, perché annuncia e cerca un nuovo assetto del mondo, a partire dal cuore di ognuno che deve essere quello stesso di Cristo. Non vorrei che sfuggisse che la Evangelii Gaudium si colloca consapevolmente dentro questo nostro mondo, in questo preciso momento storico. Non quello degli anni sessanta o ottanta o comunque del passato. Non ribadisce semplicemente quanto ci poteva dire allora. No, si colloca nell’oggi, in questo oggi dove si fa fatica a essere nella gioia, certamente di fronte al dramma che vediamo ogni giorno, ma anche per il vuoto interiore, la barbarie che avanza, la indifferenza che si globalizza, il deserto nei cuori e nelle città.

Quello che credo dobbiamo capire sono i nuovi scenari del mondo, il contesto nel quale siamo collocati, anche per comprendere bene la Evangelii Gaudium La crisi che viviamo non è solo economica, né solo sociale, ma anche morale e di umanità. Più profondamente ancora – a mio parere – è crisi di motivazioni autentiche nel cuore delle persone. Mi ritornano sempre in mente le parole di una canzone di Vasco Rossi di qualche anno fa, emblematiche: “Voglio trovare un senso a questa vita. Anche se questa vita un senso non ce l’ha. Voglio trovare un senso a questa storia. Anche se questa storia un senso non ce l’ha”. E’ questo il punto. Oggi, nel nostro mondo occidentale almeno, siamo in crisi di motivazioni. E’ il perché, il motivo per cui devo agire che è andato in crisi. I motivi profondi, quelli valoriali, quelli autentici…. E sono rimasti i motivi corti, in questa epoca della passioni tristi come è stata definita; sono rimasti i motivi utilitaristici e individualistici. E di qui il prevalere dell’interesse personale avanti a tutto, di qui la corruzione, di qui la globalizzazione dell’indifferenza, l’appannamento della ragione, la menzogna, l’economia che uccide, la distruzione dell’ambiente e così via.

In questo preciso contesto si colloca l’esortazione del Papa, che è si rivolta alla chiesa, ma perché si renda conto della sua missione nel mondo. Se è chiamata ad essere “ospedale da campo”, secondo l’espressione usata da Papa Francesco, è perché siamo in mezzo a un campo di battaglia e ci sono uomini e donne concreti morti e feriti per ogni dove, rovine e distruzioni dappertutto e nei cuori, primariamente. E’ questo che ci deve fortemente inquietare, come dice lo stupendo per me n. 49 della Evangelii Gaudium già citato in questi giorni: “se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza – dice il Papa – è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita.

Se però la crisi profonda sta nelle motivazioni, nel fatto che non si ha più un perché fondo, forte, di valore che spinge ad aprirmi agli altri con generosità, a donare la propria vita per il bene di tutti, potremmo vedere mille e mille foto di bambini morti sulla spiaggia, ma irrimediabilmente, a parte la commozione televisiva di un momento, non cambierà niente. Se la crisi è nelle motivazioni, la risposta non può essere nemmeno prima di tutto nella politica, nelle leggi, nel cambiamento delle strutture, semplicemente perché non ci saranno gli uomini per realizzarle, queste cose! La politica ha lei stessa bisogno di motivazioni ideali e forti, concrete e alte, nobili e generose altrimenti diventa – come purtroppo spesso vediamo – gioco di interessi contrapposti e comitato d’affari.

Ci vuole allora qualcosa che scaldi il cuore, che faccia rinascere la voglia, che faccia sorgere nell’animo quelle motivazioni profonde e forti che smuovono il coraggio, l’ardore e una intelligenza affascinata dal vero. Qualcosa che appunto riesca a rimotivare l’uomo. E questo è il Vangelo. Semplicemente il vangelo di Gesù Cristo; il Vangelo della misericordia, annunciato, vissuto e testimoniato nella gioia da una comunità di fratelli che si amano. Papa Francesco l’ha capito e ce lo dice con molta chiarezza. Per questo voglio concludere riportando una bellissima pagina della Evangelii Gaudium che indica molto bene ciò che, come singoli e come chiesa, dobbiamo innanzitutto fare e che è uno degli obiettivi primari che vorrei perseguire in questa chiesa pistoiese. Anche noi, infatti, vescovo, preti e laici, abbiamo soprattutto bisogno di ritrovare le motivazioni più forti e autentiche del nostro essere e del nostro operare. Anche se un po’ lungo permettetemi che riporti per intero il n. 264 della Evangelii Gaudium, perché mi ci ritrovo davvero molto.. “La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale. Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1 Gv 1,3). La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri.




Lettera alla Chiesa di Dio che è in Pistoia “Lasciamoci guidare dallo Spirito”

“Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.” (Rm 8,14). Con queste parole San Paolo ci ricorda una delle caratteristiche fondamentali della vita cristiana sia personale che comunitaria: lasciarsi guidare dallo Spirito Santo il quale ci conduce alla verità tutta intera (cfr Gv 16,13). Lo Spirito di Dio, che è Signore e dà la vita, alita su di noi la sua brezza leggera, a volte è soffio impetuoso, sempre ci spinge, ci muove, ci parla. “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». (Gv 3,8)

E’ necessario allora che spieghiamo le vele della nostra vita al vento dello Spirito, che ne ascoltiamo la voce dentro le pieghe della storia e delle nostre vicende, dentro le sfide del tempo, come nel profondo del cuore, negli insegnamenti e nell’esempio del successore di Pietro, nella Parola che si fa pane di vita nella divina Eucaristia.

Non abbiamo da decidere e fare ciò che ci pare e piace. No. Abbiamo piuttosto da discernere e compiere la santa volontà di Dio. Non abbiamo da conformarci all’andamento di questo mondo, ma da lasciarci trasformare rinnovando il nostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cfr Rm 12,2). Occorre cioè lasciarsi guidare dallo Spirito.

“Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”. Nei primi capitoli del libro dell’Apocalisse quest’appello risuona per ben sette volte. Insistente. Incalzante. Assolutamente provocante. Ai nomi delle chiese di cui parla la Scrittura, possiamo benissimo aggiungere quello di Pistoia. Così l’invito è diretto: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alla chiesa di Pistoia”.

Da poco tempo sono tra voi, carissimi amici e fratelli e quello che sto cercando di fare è esattamente questo: cogliere gli inviti dello Spirito, i doni che Egli ha profuso a questa Chiesa nella sua storia e nelle sue persone, cercando di comprendere le sue ispirazioni e lasciarmi guidare da Lui per essere il pastore che Dio vuole. Riflettendo, ho pensato che questo mio atteggiamento interiore potesse essere anche quello di tutti voi. Ho ritenuto che il mio primo anno di episcopato pistoiese, potesse e dovesse essere un periodo di discernimento nello Spirito Santo, non solo per me ma anche per tutta la chiesa di Pistoia. Un tempo nel quale insieme cerchiamo di capire la voce, il soffio dello Spirito e i segni dei tempi.

Dove possiamo però avvertire gli impulsi dello Spirito? Dove coglierne il soffio vitale? Dove e come comprendere la direzione verso la quale ci sta sospingendo?

Innanzitutto mi sento di dire che possiamo comprendere la direzione verso la quale lo Spirito ci sta muovendo, facendo viva memoria del passato, rileggendo cioè la storia di questa Chiesa, il suo cammino pastorale, quello che i vescovi, in particolare il mio immediato predecessore, Mons. Mansueto Bianchi, hanno tracciato nei solchi di questa comunità diocesana. Il Signore ha visitato questa santa Chiesa, si è fatto presente: lo Spirito Santo ha operato, ha permesso che si maturassero convinzioni e orientamenti; ha sparso semi di un futuro bello. Scrutando con occhi di fede il cammino compiuto negli anni passati, riusciremo ad apprezzare i grandi doni ricevuti dallo Spirito del Signore e insieme, i ritardi, le lentezze, i peccati, i tradimenti che hanno segnato la nostra storia e che hanno ostacolato e ostacolano l’opera dello Spirito.

Nel discernimento è necessario allargarsi anche ad una comprensione per quanto possibile dei tempi che stiamo vivendo, del grido dei poveri che si leva dalla nostra società e dalla situazione del nostro mondo globalizzato. Le vicende degli uomini infatti sono il concreto contesto in cui si dipana la storia della salvezza e in cui opera misteriosamente lo Spirito Santo. Guardare, osservare, capire la nostra società, il nostro mondo, la nostra città, è momento dunque ineludibile per una Chiesa che è posta dal Signore quale “lampada sul moggio”, quale “lievito” di speranza e “sale della terra”.

L’ascolto di ciò che lo Spirito Santo ci dice non può prescindere in particolare dall’attenzione alla nostra terra pistoiese, ai suoi bisogni e alle sue attese, a quelli della gente. Attese di lavoro e di dignità, di futuro e di speranza. Attese che emergono da una fascia sempre più larga di poveri e di “scartati”. Attese di giustizia e di onestà, proprio quando pare così facile e diffusa la disonestà e la corruzione. Attese di fraternità solidale ma anche, e guai se non cogliessimo questo grido profondo dell’anima, attese di Dio, del suo amore misericordioso, della conoscenza di Colui che è via, verità e vita, l’unico a dare senso pieno all’esistenza e sostanza al futuro. “Non di solo pane vivrà l’uomo, infatti ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). L’uomo non cerca solo pane ma dignità e amore fedele e stabile, proprio quello che gli viene solamente da Dio e che lo fa sentire prezioso e mai solo.

Il discernimento poi non può dimenticare le sfide dell’oggi, gli inviti pressanti dello Spirito che provengono da ciò che è all’ordine del giorno dell’agenda ecclesiale. Mi riferisco al Sinodo dei vescovi, al Convegno ecclesiale di Firenze e, prima ancora al magistero di Papa Francesco. Dietro a queste cose percepiamo distintamente il grido che viene dalle famiglie, attaccate duramente dall’esterno come dall’interno; dalle famiglie frantumate, spezzate, dalle famiglie che attendono un annuncio di salvezza che restituisca loro la bellezza della propria identità e della propria missione, l’energia e il coraggio dell’amore fedele, la voglia di edificare il Regno di Dio. Il prossimo Sinodo è lì a dirci quanta attenzione, quanto ascolto, quanta cura richiedono oggi le famiglie.

Oltre a questo, percepiamo distintamente anche il desiderio di una umanità nuova. Un desiderio che percorre la nostra società, il mondo intero, proprio quando si affaccia con insistenza purtroppo il rischio non più ipotetico della barbarie e dell’inciviltà. Oggi si fa più forte l’attesa di un’umanità rinnovata che sappia ricostruire se stessa e realizzare un mondo diverso, mettendo a buon frutto le enormi potenzialità espressive e tecnologiche che abbiamo. Il Convegno delle Chiese che sono in Italia che si terrà a Firenze nel novembre prossimo, vuole esprimere un’attenzione forte a questa attesa, a questa domanda, per un rinascimento dell’uomo, nella giustizia, nella verità e nella pace.

Attraverso infine l’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” di Papa Francesco, lo Spirito Santo ci sta invitando a una profonda, esigente riforma della Chiesa perché ritrovi la gioia dell’incontro con Cristo, la gioia dell’annuncio del Vangelo in un nuovo slancio missionario, la gioia di curare con “l’olio della consolazione e il vino della speranza”, l’uomo ferito e piagato in mille modi, lasciato solo ai margini della strada della nostra società.

Ecco dunque come e dove possiamo percepire l’azione dello Spirito e lasciarci guidare da Lui. In questo modo siamo in grado di capire quanto Lui ci stia dicendo e dove ci stia guidando, ciò che il Signore attende da noi in questa contingenza storica, ciò che il Signore si aspetta da ciascuno di noi e da noi come sua famiglia.

Vorrei allora che tutti quanti a partire da me, fino ai presbiteri e ai diaconi, ai laici tutti, aggregati in vario modo o semplicemente partecipi delle diverse comunità parrocchiali, consacrati e consacrate della chiesa pistoiese, avessimo a cuore profondamente, intensamente, amorosamente, la ricerca della volontà di Dio su di noi, rendendoci docili all’opera dello Spirito Santo. Vorrei che avessimo tutti l’atteggiamento di Maria, la sposa dello Spirito, per dire con lei: “avvenga di me secondo la tua parola”. Vorrei che in questo tempo la chiesa di Pistoia fosse in qualche modo lei, Maria, adombrata dallo Spirito Santo, Vergine dell’umiltà che null’altro cerca, null’altro desidera e ama, che ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica, in piena docilità allo Spirito che la rende feconda.

E perché sia così, occorre molto pregare, invocando giorno e notte lo Spirito Santo perché ci copra con la sua ombra, ci dia occhi per vedere, coraggio per rinascere, letizia per vivere, amore per testimoniare. Occorre acquisire la sapienza del cuore, perché solo con questa sapienza si vede il cammino da compiere e soprattutto si ha la forza per compierlo. Occorre molto adorare la Maestà umilissima di Colui che si è fatto uno di noi e si è consegnato a noi come pane della vita, pane della condivisione e pane della lode.

Nello stesso tempo, consapevoli che lo Spirito è dato a ciascuno e tutti siamo “profeti”, desidererei che questo tempo fosse dedicato oltre che alla preghiera anche al dialogo fraterno, all’ ascolto reciproco e all’ aiuto scambievole per comprendere gli inviti del Paraclito in questo frangente della storia del mondo e di Pistoia. Occorre che agiamo come una “mistica persona” unita nell’amore, perché tali siamo in quanto corpo di Cristo, variegato nella bellezza della diversità ma sempre unito da un vincolo più forte di quello del samgue. Dobbiamo imparare il “discernimento comunitario”, riuscendo a praticarlo come espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale. Ricordando che “perché sia autentico, questo discernimento deve comprendere: docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l’approvazione definitiva.” (CEI, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo, 21).

Ed ora qualche piccola indicazione pratica. In questi mesi compiremo un cammino comune che dovrebbe coinvolgere nel suo insieme la nostra Chiesa. Primi fra tutti i presbiteri e i diaconi. Per loro sono previste alcune assemblee generali, incontri vicariali e una “due giorni” di convivenza e verifica il mercoledì 9 e il giovedì 10 settembre prossimi. Una novità che propongo con fiducia, sperando possa essere accolta dai sacerdoti con piena disponibilità. Consiglio presbiterale e Commissione pastorale diocesana faranno la loro parte. I laici aggregati nella Consulta Diocesana e i Consacrati per loro verso avranno anch’essi momenti di incontro.

Ai parroci chiedo che compiano ogni sforzo per rendere consapevoli i fedeli del cammino che la Diocesi sta facendo in questo tempo. Se ne parli, si informi, ci si torni sopra più volte. “Chiesa di Pistoia: lasciamoci guidare dallo Spirito Santo!” Sia questo il ritornello che passi di bocca in bocca, il canto che insieme innalziamo al Signore, il desiderio ardente che tutti ci accomuni.

Mi sento di fare una forte, accorata raccomandazione: un cammino di discernimento comunitario nello Spirito Santo ha bisogno di molta preghiera. L’ho già detto ma lo voglio ripetere: in questo tempo dobbiamo saperci mettere in ginocchio a lungo e pregare tanto, invocando la luce e la forza dello Spirito, sull’esempio di Maria SS. e insieme a lei. Si facciano speciali intenzioni nelle Eucaristie domenicali, si organizzino momenti di preghiera o di adorazione che significhino concretamente la nostra volontà di compiere solo ed esclusivamente la volontà del Signore. Si celebrino liturgie penitenziali per la purificazione dei nostri cuori. Ci si accosti alle Sante Scritture nei gruppi biblici, seguendo il sussidio preparato allo scopo, con dedizione e ascolto amoroso. “Preghiamo il Signore e preghiamolo con amore e grande fiducia perché ci doni la grazia celeste dello Spirito.” “Lo stesso Spirito ci guidi e ci conduca a vivere secondo la divina volontà e ci ristori nella pace” (Dalle “omelie” di un Autore spirituale del secolo quarto).

Su questo comune terreno di preghiera, faremo discernimento attraverso incontri vicariali aperti a tutto il popolo di Dio, in particolare nel periodo dopo Pasqua e nei mesi di settembre e ottobre prossimi. Lì faremo memoria del cammino pastorale percorso dalla nostra Chiesa, raccoglieremo le sfide presentateci dal sinodo sulla famiglia, dal Convegno ecclesiale di Firenze e dall’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”. In questi incontri vicariali nel dialogo franco e sereno inizieremo a cercare di comprendere dove il soffio dello Spirito ci stia spingendo.

Tutto il lavoro troverà poi un momento importante di elaborazione e di sintesi in un’“Assemblea sinodale” diocesana che celebreremo giovedì 19 e venerdì 20 novembre. Anche questa forse è una specie di novità, perchè l’assemblea avrà a tutti gli effetti carattere sinodale. Non sarà un semplice convegno o un’occasione di aggiornamento pastorale o teologico. Piuttosto un momento alto di espressione del Popolo di Dio che vive in Pistoia, innanzitutto per dar lode a Dio e nella lode di Lui, fatti docili all’azione dello Spirito santo e sottoposti alla Parola, parlare e discutere. Clero, laici e consacrati, rappresentanti di tutte le parrocchie della diocesi e delle associazioni e movimenti ecclesiali, guidati dallo Spirito, cercheremo d’individuare il cammino da percorrere nel prossimo triennio 2015 – 2018. Sarà poi mio compito di pastore della Chiesa di Pistoia, raccogliere quanto emergerà e riproporlo secondo la responsabilità che il Signore mi ha affidato.

Concludo con una preghiera che in tutto questo tempo sarebbe bello fiorisse sulla bocca e nel cuore di tutti noi, singolarmente e comunitariamente: “Ispira nella tua paterna bontà o Dio i pensieri e i propositi di noi tuo popolo, perché vediamo ciò che dobbiamo fare e abbiamo la forza di compiere ciò che abbiamo veduto.”

Il Signore vi benedica e vi accompagni l’intercessione preziosa di Maria Santissima dell’umiltà, il beato apostolo Jacopo, San Zeno, S. Atto, il beato Franchi e tutti i santi e sante della chiesa pistoiese.

Pistoia, 2 febbraio 2015,
Festa della Presentazione al tempio del Signore

+ Fausto Tardelli