Epifania (6 gennaio 2022)

Solennità dell’Epifania
Pistoia, Cattedrale di San Zeno, 6 gennaio 2022

 

Come si fa a non rimanere colpiti dalla bellezza della prima lettura di questa Messa? Un brano – quello tratto dal profeta Isaia – che ci riempie il cuore di gioia. Che parla di luce. Di luce più forte di ogni tenebra. Anche se tenebre e nebbia ricoprono la terra e avvolgono i popoli, la luce del Signore risplende e illumina ogni cosa. E la visione gioiosa di Isaia si completa con l’immagine dell’affluire di popoli e ricchezze di ogni tipo a Gerusalemme, alla città santa.

Quello che la lettura di Isaia ci vuol far capire è che, aldilà di ogni apparenza contraria, nella mente di Dio c’è un progetto di luce e di gioia per l’umanità. E che se il Verbo si è fatto carne, come noi affermiamo e crediamo, è esattamente per portare a compimento questo progetto di luce, di gioia e di pace.

Come ci fa bene allora riascoltare l’annuncio di questo progetto, a noi uomini così spesso divisi e in lotta l’uno contro l’altro! Ci fa bene ascoltare le parole del profeta Isaia, assaporarle, gustarle in tutta la loro bellezza. Esse ci confermano la volontà di Dio, il suo progetto, il suo disegno. E siamone certi: il Signore Dio è di parola e non torna indietro. Lo porterà avanti e lo condurrà in porto. A noi è chiesto di credere. E’ chiesto di non dubitare, di non lasciarci sopraffare dalle apparenze contrarie, di non lasciarci convincere dalle tenebre e dalla nebbia che avvolgono i popoli del mondo. A noi è chiesto di avere una fede grande, nutrita di speranza e di operosa carità. A noi è chiesto, nel nostro piccolo, di contribuire come possiamo alla realizzazione del disegno di Dio, diventando ogni giorno, secondo la espressione evangelica, “operatori di pace”, edificando cioè la pace come degli artigiani, secondo l’immagine usata spesso da Papa Francesco.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di San Paolo agli Efesini, il disegno di Dio, il suo progetto di amore, viene chiamato “mistero” ad indicare non tanto la sua incomprensibilità o misteriosità, quanto piuttosto la profondità e grandezza di un progetto che è nella mente di Dio e che solo da Lui viene rivelato. Questo progetto, San Paolo ci dice con chiarezza in cosa consiste: “le genti sono chiamate in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”. Eccolo, descritto, esplicitato, il progetto di Dio, il suo disegno di salvezza universale. E San Paolo, con la sua vita dopo la conversione, si è messo totalmente al servizio del compimento di questo disegno di salvezza. Con la sua opera di evangelizzatore, di predicatore, di fondatore di comunità, ha collaborato con Dio alla realizzazione del suo disegno universale di pace e di salvezza. E proprio nella testimonianza dell’apostolo Paolo credo ci sia da rilevare qualcosa che oggi rischia purtroppo di essere equivocato nella società ma a volte anche nella chiesa: come se cioè l’opera del cristiano e della chiesa nel mondo al servizio del Regno di Dio e della realizzazione del progetto di Dio, consistesse esclusivamente nel lavorare alla risoluzione dei problemi della società o delle persone, tra l’altro su un piano sostanzialmente materiale. Senza togliere niente al valore di questa attenzione agli altri a partire dalle necessità più immediate e concrete, la testimonianza di San Paolo ci ricorda però che per la chiesa, collaborare al disegno di Dio, significa innanzitutto annunciare Gesù Cristo, morto e risorto, così anche per il cristiano. Uno specifico compito che solo la chiesa e il cristiano possono portare al mondo. Come ci ricordava già San Paolo VI nella Evagelii Nuntiandi del 1975 (n. 14): “La chiesa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella S. Messa che è il memoriale della sua morte e della sua gloriosa risurrezione.” E lo stesso documento ancora attualissimo attualissimo aggiunge (n. 18 – 19): “Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa: ……. la Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama, cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri. Per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza.”

Tutto quanto sono andato dicendo fin qui, trova poi plastica espressione nella storia misteriosa dei magi d’oriente che giungono a Betlemme da terre lontane, seguendo una stella, per adorare il bambino, portando a lui doni regali. La chiamata dei popoli alla fede qui è resa esplicita dal cammino di questi personaggi misteriosi che non appartengono al popolo di Israele ma simboleggiano tutti i popoli della terra. Si manifesta così l’universalità del disegno di Dio che è per tutti gli uomini e per tutti i popoli e nello stesso tempo si comprende che solo nell’adorazione del bambino, nel riconoscimento cioè della regalità di questo bambino e quindi della misericordia del Dio vivente, l’umanità può trovare pace e comunione, quella fraternità tanto desiderata da ogni uomo ma così difficile da realizzare.

Carissimi amici e fratelli, ora è il momento di fare come hanno fatto i magi. Il vangelo sottolinea che, dopo aver adorato, se ne tornarono alle loro case, portando con sé qualcosa da raccontare, da testimoniare, da far conoscere. Ecco ciò che anche ognuno di noi, dovunque sia la sua casa, è chiamato a fare. Facendo attenzione, come fecero loro, a non ripassare da Erode, come a dire che anche noi, nel nell’impegno di portare l’annuncio del salvatore, speranza di ogni uomo, dove viviamo, non dobbiamo farci distrarre dalle cose del mondo o finire inghiottiti dalle tenebre e dalla nebbia che avvolgono il mondo.




Omelia per l’ultimo giorno dell’anno (31 dicembre 2021)

Omelia per l’ultimo giorno dell’anno
Cattedrale di San Zeno, Pistoia, 31 dicembre 2021

 

Siamo dunque giunti al termine di questo anno difficile; un anno che si va ad aggiungere a quello precedente, non meno difficile. Seppure non possiamo dire di essere al punto di partenza, le preoccupazioni sono ancora grandi. Proprio in questi giorni, siamo di nuovo in mezzo al guado, posti di fronte a qualcosa che sembra non finire; qualcosa che, mi pare un dato evidente, lampante, noi non riusciamo ancora a superare. Tutta l’umanità non riesce ad oggi a sconfiggere il male che ci ha afferrato. Mi sembra che soltanto un cieco non veda questo insuccesso ad oggi, di tutte le risorse di intelligenza, di scienza, di tecnologia di cui siamo capaci.

Certo, qualcosa si è fatto. Forse anche molto, da un certo punto di vista. La situazione infatti non è esattamente quella di quando eravamo in pieno dentro la pandemia. Si sono trovati vaccini che sicuramente hanno fatto e fanno. Si sono trovati e si stanno trovando anche farmaci. Siamo però ancora indietro. Mi pare evidente. Se si considera poi che c’è una grande parte del mondo che ad oggi rimane fuori dalle cure adeguate e dalla prevenzione, credo non si possa misconoscere il dato che sottolineavo: l’uomo, l’umanità fa enorme fatica ed è in affanno nella soluzione di questo problema.

Forse è anche questo dato, magari non colto chiaramente ma comunque percepito nel profondo dell’animo, che ci mette dentro un grande senso di incertezza e di precarietà al quale non eravamo abituati. Ci mette dentro anche un senso di sfiducia, ci abbatte, ci deprime. Col rischio concreto di cadere in uno stato di prostrazione generalizzato e permanente.

A questa situazione si aggiunge anche quella determinata dalla crisi ambientale. Abbiamo tutti ben presente il rischio che stiamo correndo e quanto sia necessario cambiare rotta al mondo. Il clima impazzito testimonia di mutamenti che, in parte almeno, dipendono dal modo in cui viviamo, produciamo, ci sviluppiamo. Consumando energia in modo esagerato, immettendo contemporaneamente nell’atmosfera agenti fortemente inquinanti. Il Santo Padre Francesco ha lanciato un forte grido di allarme nella sua enciclica laudato si, ma vediamo quante difficoltà ci sono da parte degli Stati ad adottare misure davvero efficaci per la risoluzione del problema. Il rischio che, tra un dibattito e l’altro, si stia andando verso un punto di non ritorno è reale.

Alla pandemia e al rischio ambientale, si aggiunge infine la situazione di povertà, di ingiustizia e di mancanza di libertà che spinge intere popolazioni a migrare, a cercare rifugio in posti più sicuri, senza trovare per altro piena accoglienza. Un altro terribile inarrestabile dramma contemporaneo, al quale, ancora una volta, sembriamo incapaci di trovare una soluzione.

Sicuramente si tratta di problemi enormi e di non facile soluzione. Sta di fatto che noi, uomini e donne del 2021 e tra poco del 2022, al momento non siamo in grado di trovare una soluzione a questi tre colossali drammi che io vedo collegati strettamente l’uno all’altro.

Credo comunque che si debba reagire e, soprattutto noi cristiani, ritengo che siamo chiamati in questo tempo, proprio in questo frangente della storia, a rendere testimonianza di speranza e di fiducia. Non per nasconderci i problemi e le oggettive difficoltà del percorso ma per dare concreta visibilità alla certezza che la nostra fede alimenta. E’ difficile interpretare i segni dei tempi ed è sempre rischioso. Ma alla luce della parola di Dio, bisogna pur cercare di capire che cosa Dio stia dicendo all’’umanità, nella ferma convinzione alimentata dalla nostra fede, che Dio vuole il bene per ogni sua creatura come del mondo intero e che “tutto concorre al bene, per coloro che Dio ama”. Certi dunque che l’annuncio degli angeli ai pastori è perennemente attuale: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama”.

Non possiamo allora non metterci nei panni della Madonna. Nei panni di colei che annunciata essere la madre del Messia salvatore di Israele, si trova a partorire quel bambino nel nascondimento, in una stalla, ai margini potremmo dire, della storia. Gli occhi del cuore di Maria SS.ma vedevano nel bambino il compiersi delle promesse di Dio, vedevano le attese soddisfatte, vedevano il Regno di Dio sulla terra. Gli occhi però del suo corpo, vedevano povertà e silenzio, emarginazione e solitudine. Ce ne voleva di fede per vedere in quel piccolo bambino, il salvatore del mondo, l’atteso delle genti! Metterci nei panni di Maria, vuol dire allora assumere il suo sguardo di fede, quello stesso con cui guardò il bambino appena partorito e vide in esso il Salvatore del mondo. Questa fede che è ricolma di speranza è quella che ci è richiesta quest’oggi, carissimi fratelli ed amici.

Nello stesso tempo, mi pare che proprio questa nostra fede in un Dio di amore, ci fa capire che Dio stesso ci sta spingendo con forza a cambiare strada nel mondo. Attraverso l’esperienza drammatica della nostra impotenza e della enormità dei problemi che abbiamo davanti, credo che Egli ci spinga a trovare le strade di una maggiore solidarietà, di una più grande attenzione reciproca e di una più piena assunzione di responsabilità. Tanti anni fa, Papa Paolo VI, un grande profeta del nostro tempo, parlò della necessità di costruire una civiltà dell’amore, che significa una civiltà del prendersi cura l’uno dell’altro, dell’affrontare insieme i problemi condividendo risorse e intelligenze, fatta di responsabilità che da orientamento alla libertà individuale. Dopo tanti anni, è forse giunto il momento di costruirla per davvero, questa civiltà dell’amore, spinti anche dalle avverse circostanze che stiamo sperimentando. L’edificazione di una civiltà dell’amore è diventata ormai una necessità vitale.

Ed è di questa dura lezione, che quest’anno vogliamo ringraziare il buon Dio, pregandolo che continui sempre ad aver misericordia di noi e a benedirci.




Natale del Signore (25 dicembre 2021)

Natale del Signore – Cattedrale di San Zeno, 25 dicembre 2021

In una grotta o in una capanna o in una semplice stalla, perché non c’era posto per loro nella casa: così è nato nel tempo il re dei re, il Verbo unigenito del Padre, il Salvatore del mondo. Deposto in una mangiatoia, tra paglia e animali. Un parto di emergenza direi; alla meglio. Con Giuseppe e Maria, lontani da casa. Avevano dovuto lasciare Nazareth al nord della Palestina e scendere a sud, a causa del censimento ordinato dall’imperatore di Roma – quello si, grande e potente, che governava da ricchi e lussuosi palazzi. Giuseppe e Maria non ebbero nemmeno un posto dove alloggiare a Betlemme, dopo aver affrontato un viaggio sicuramente disagevole.

Nasce così, il Signore Dio, nel silenzio nascosto di una notte. Non ci sono inservienti, camerieri; non c’è gente, men che meno folla a sottolineare la grandezza dell’evento. Nessuno: quello di Dio che si fa uomo è il fatto assolutamente più straordinario della storia, eppure accade nel silenzio più totale, nel nascondimento più grande. Non ci sono giornalisti né troupe televisive. Per eventi di minore importanza, si riempiono stadi e piazze. Qui no. L’evento più incredibile della storia accade e nessuno se ne accorge. E’ Dio stesso che ha scelto questo modo umile e nascosto per entrare nella nostra storia, per entrarvi potremmo dire, in punta di piedi.

Dice San Paolo che il Verbo di Dio annientò se stesso, assumendo la forma del servo. Mistero davvero insondabile quello dell’annichilamento di Dio per amore nostro.

Per la verità, all’evento, qualche spettatore in qualche modo ci fu: i pastori, quei miseri pastori che custodivano le greggi poco distanti dal luogo del parto. Gli angeli del cielo, proprio a loro annunciarono la nascita del Salvatore. Non andarono a suonare la tromba in mezzo alle strade di Gerusalemme o per le contrade d’Israele. No. Annunciarono a quei semplici pastori: “Oggi è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore”. E così i pastori, accorsi dal bambino, furono gli spettatori unici di quell’evento mirabile e straordinario.

Mi sono dilungato nel narrare le modalità della nascita del Salvatore, del Figlio unigenito del Padre, perché in questa modalità è racchiuso il messaggio stesso del Natale e anche una radicale contestazione dei modi sbagliati di sentire e viverlo. Non solo: la modalità scelta da Dio per venire tra noi, ci indica con chiarezza quella che è la strada da percorrere, la strada giusta, quella vera che porta alla pienezza della vita e della gioia.

Credo che non ci sia bisogno di molte parole. La modalità scelta da Dio per incarnarsi è per se stessa molto eloquente e ognuno di noi può facilmente trarne le dovute conclusioni. Accenno quindi ora soltanto ad un paio di cose che a mio parere meritano di essere raccolte perché da esse scaturiscono tante altre considerazioni e propositi di vita.

La prima cosa che sottolineo è la stupefacente e sorprendete rivelazione di un Dio che si fa piccolo, quasi insignificante, debole e fragile; un Dio che per agire, sceglie il silenzio e il nascondimento. Un Dio che possiamo ben dire si annienta per amore della sua creatura. Una creatura, quella umana, che si era perduta nel male e che Egli viene a cercare, facendosi compagno di strada e spesso di sventura. Un Dio così stupisce all’inverosimile, incanta, commuove ma pone anche un sacco di interrogativi alla nostra mente e al nostro modo di vivere. Ci provoca, ci scuote, non ci lascia in pace, anche perché si ripresenta a noi nel volto di tutti gli scartati e i poveri della terra….

Questo è il nostro Dio: questo è il Dio di Gesù Cristo; è il Dio in cui noi cristiani crediamo; l’unico Dio, comunque lo si voglia chiamare. Questo è il suo volto, il suo vero volto. Ogni altra immagine di Lui è falsa e fuorviante. E un Dio così o lo si rifiuta per rabbia, come è accaduto e purtroppo accade anche oggi, oppure lo si ama incondizionatamente, imparando da Lui ad amare e come si amano gli altri. Noi così spesso affannosamente dediti al nostro benessere psicofisico; alla ricerca di mille comodità; noi così speso chiusi nel castello fortificato del nostro io; così protesi alla ricerca del nostro esclusivo e individuale interesse; noi così pronti ad odiarci e ad usarci violenza, di fronte a questo Dio che si fa bambino, dobbiamo scegliere da che parte stare, se continuare a stare dalla parte di Erode che fa strage di innocenti oppure da quella di Giuseppe, di Maria e dei pastori che accolgono e amano. Non si può restare nel mezzo.

Ed ecco allora la seconda cosa che vorrei sottolineare. Il modo di fare di Dio nel Natale, ci mostra anche la strada che siamo invitati a scegliere; ci dice chiaramente come dobbiamo impiegare la nostra libertà: prendendoci cioè cura dei nostri fratelli, avendoli a cuore, senza paura di abbassare il nostro io egocentrico e presuntuoso. E’ semplice, ma quanto difficile capirlo e metterlo in pratica! Paradossalmente, pure la pandemia che sembra non volerci abbandonare, ci sta insegnando la stessa cosa: la situazione si migliora e se ne può uscire, soltanto prendendoci a cuore gli uni degli altri. Soltanto acquisendo, ognuno, un sempre più forte senso di responsabilità per il bene comune.

Il silenzio nascosto del Natale, ci dice anche che per percorre questa strada di giustizia e di pace, di verità e di amore, non occorrono sceneggiate e spettacolarità. Non occorre la grancassa. Non si tratta di apparire ma di essere. Ci vuole invece quell’impegno quotidiano e generoso che non viene meno se anche nessuno lo nota. Occorre la consapevolezza che le scelte di ciascuno di noi, quelle stesse che consideriamo private, tanto private poi non sono, perché sono tutte importanti per il bene comune, noi cristiani diciamo per l’edificazione del Regno di Dio. Pure questo lo stiamo apprendendo, seppur con fatica, nell’attuale frangente della storia: dalle scelte individuali dipende il bene della collettività e una libertà senza responsabilità è solo rovina di sé e della società.

Davanti al Natale del Signore dunque, davanti al presepe, abbiamo innanzitutto da ringraziare il buon Dio per questo suo modo davvero sorprendente di fare che ci mostra tutta la sua tenerezza e permette a noi di avvicinarci a Lui senza timore. Nello stesso tempo davanti al presepe impariamo anche quella che è la strada da percorrere, quella stessa percorsa da Dio, quella dell’autentica umanità: l’unica che ci apre già in terra le porte del Paradiso.




Solennità di Tutti i Santi (lunedì 1 novembre 2021)

Solennità di Tutti i Santi

Lunedì 1 novembre 2021

(messa in diretta Rai1)

 

Oggi splende il sole luminoso della festa di tutti i santi. Questa festa ci dà speranza, ci fa respirare a pieni polmoni aria fresca e pura.
La festa di tutti santi, da quelli più noti a quelli più sconosciuti, da quelli a noi più vicini, come San Giacomo Apostolo, di cui questa Cattedrale custodisce una preziosa reliquia fin dal 1145, donata dall’allora vescovo di Santiago di Compostela, fino a quelli più lontani da noi, ci fa contemplare la bellezza luminosa del Paradiso. Ci mette in contatto con quel mondo di gioia e di beatitudine che è la meta del nostro cammino terreno, oltre la morte.

È vero che abbiamo paura della morte, che il futuro ci mette ansia, che ciò che accadrà dopo la nostra morte ci inquieta nel suo mistero. E ciò che maggiormente inquieta è la prospettiva della solitudine, della perdita degli affetti, del rimaner soli. E’ vero.
Ma la risposta non è nell’esorcizzare la paura con la banalità e lo stordimento del divertimento, oppure col dare libero sfogo al nostro istinto vitale, oppure ancora sforzandosi di non pensarci considerando la morte un fatto naturale semplicemente da accettare. La risposta sta invece proprio nella festa di tutti santi, in quello che essa è e significa: la bellezza di una vita che vince la morte attraverso la potenza del Risorto e la luminosità di una comunione fraterna che supera lo spazio ed il tempo.

La visione dell’apocalisse ci fa comprendere infatti che il Paradiso è un fatto di comunione: di comunione piena con Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo e di comunione piena tra le persone, come ben si mostra nel canto corale che sale all’unisono dalla moltitudine immensa dei salvati. La beatitudine del Paradiso consiste proprio in questo, nella vita d’amore perfetto che relaziona gli uomini con Dio e tra di loro. Ed è beatitudine perchè l’amore è all’origine della creatura e ne è il fine. Raggiungere questo fine è gioia piena per l’uomo, superamento delle sue contraddizioni e paure, vittoria sulla morte. Nel Paradiso, la solitudine a cui il peccato conduce inesorabilmente è vinta perchè il peccato è stato lavato nel sangue di Cristo e l’uomo è finalmente se stesso nell’amore donato e ricevuto che lo lega per sempre a Dio e agli altri.

Ma in un certo senso, non c’è da attendere il Paradiso, perché già ora, proprio come ci insegnano i santi e i beati, si può vivere d’amore vero e quindi passare dalla morte alla vita, pregustando, pur in mezzo a tribolazioni, la gioia del Paradiso.
Lasciamoci allora, carissimi fratelli e sorelle, invadere dalla gioia che promana dalla festa di oggi e godiamo della compagnia di tanti gloriosi amici che, per volere di Dio, non sono solo in comunione tra loro nella gioia del paradiso ma anche in reale e concretissima comunione con noi. È la comunione dei santi quella che oggi in modo speciale sperimentiamo e che ci fa gioire. Tra noi e loro c’è comunione, c’è vicinanza, c’è partecipazione. Essi ci aiutano intercedendo per noi e ci accompagnano nel cammino della vita.
Lungo il sentiero della vita terrena, il cammino di santità è innegabilmente faticoso e crocifiggente. La via tracciata nel vangelo dal Signore Gesù col discorso delle beatitudini è esigente. Non si raggiunge la gloria se non passando attraverso la croce. E i nostri fratelli del Paradiso ce lo ricordano con la franchezza che è tipica di chi è amico per davvero e non di facciata. Essi non ci nascondono le loro ferite sanguinanti, i segni delle percosse ed i lividi delle umiliazioni ricevute, i loro corpi spesso straziati dalla cattiveria degli uomini o dalla fatica di un amore paziente che sa accettare in ogni cosa la volontà di Dio, anche quando risulti difficile da capire. Essi non ci nascondono niente e ci indicano la via dolorosa delle beatitudini.

Ma proprio essi ci dicono pure di non perderci d’animo, di non smarrirci nella prova, di non scoraggiarci. Essi ci invitano a non aver paura del dolore o di andare contro corrente. Ci invitano a non vergognarci di Cristo ma ad offrire con coraggio e mitezza la buona testimonianza di una vita vissuta secondo la legge di Dio. Ci spronano ad andare avanti nella fedeltà al Signore, nell’amore assoluto verso di Lui e nel servizio generoso al nostro prossimo. E di questo incoraggiamento, carissimi fratelli e sorelle, noi ne abbiamo davvero bisogno. Sentiamo che ci fa bene. E quindi diciamo grazie con tutto il cuore a Dio per il dono della compagnia dei santi, ma diciamo grazie anche a loro, ai santi, nostri confidenti ed amici: per la testimonianza che hanno dato mentre erano su questa terra e per gli insegnamenti e l’aiuto che continuano a darci dal cielo.




Inizio anno pastorale 2021/2022 (Domenica 24 ottobre 2021)

Inizio anno pastorale 2021/2021
Cattedrale di San Zeno (24 ottobre 2021)

 

«Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima». Con queste parole del Deuteronomio ascoltate nella prima lettura, ci viene chiarito quello che in sostanza la Chiesa universale, le chiese che sono in Italia e la nostra stessa diocesi stanno cercando di fare parlando – come sta accadendo in questo tempo – di Sinodo. Il 9 di ottobre il Santo Padre ha aperto il percorso sinodale della chiesa universale. Domenica passata, in tutte le chiese del mondo gli si è fatto eco con preghiere speciali. Oggi, giornata missionaria mondiale, anche noi, chiesa di Pistoia, ci mettiamo solennemente in cammino, inaugurando l’anno pastorale e con il mandato ai catechisti e agli altri operatori pastorali.

Se però non fosse chiaro l’obiettivo ultimo del Sinodo, tutto si risolverebbe in parole e carta straccia. In vani discorsi che non porterebbero a niente. Si tratta cioè di convertirci al Signore, obbedendo alla sua parola, e di farlo oggi, nel nostro contesto sociale; per essere la chiesa che il Signore vuole: sale del mondo, luce della terra, lievito di speranza, fontana di misericordia, ospedale da campo, testimone della risurrezione di Cristo, seminatrice dei semi di un mondo nuovo.  Per far questo, dobbiamo camminare insieme, ascoltandoci con attenzione l’un l’altro, condividendo doni e carismi, sostenendoci a vicenda e pregando insieme lo Spirito Santo. Dobbiamo ascoltare la voce dello Spirito che parla nelle Scritture, nella storia e nella voce dei poveri, dei bisognosi, degli ultimi, di tutti coloro che attendono, anche inconsapevolmente, la buona notizia del Regno di Dio che è Gesù morto e risorto.

Il nostro programma di lavoro per quest’anno è dunque presto detto (e lo trovate scritto nella lettera che viene distribuita oggi e che vi prego di diffondere anche nelle vostre parrocchie): Camminiamo insieme, alla scuola dell’apostolo Jacopo, pregando, ripensando e continuando ad amare. Per rispondere alla chiamata del Signore che ci vuole chiesa unita nell’amore e in uscita, protesa alla missione. Camminando insieme, cioè in modo sinodale e, soprattutto, con occhi, cuore e mente illuminati dalla speranza.

Grandi inquietudini stanno attraversando il mondo. Il tempo della pandemia ci ha profondamente segnati e continua a condizionare la nostra vita. Insieme a tante manifestazioni di generosità, anche il seme dell’incomunicabilità e della violenza sembra farsi strada tra di noi e la solitudine diventare una diffusa condizione esistenziale. I tempi appaiono parecchio difficili e anche dall’interno della Chiesa si levano voci allarmate e pessimistiche. Tuttavia, io resto fiducioso. Sono convinto che il nostro tempo ci offra tante opportunità per rinnovare la nostra vita cristiana ed annunciare la buona notizia del Regno di Dio che è Gesù. La società ha bisogno di oasi di pace. Di ambienti dove si respiri il rispetto, l’attenzione, la gioia dell’incontro e la comunione fraterna. E questa testimonianza forte e luminosa, come cristiani la possiamo e dobbiamo dare.

  1. Camminare insieme è dunque il primo impegno di quest’anno. Ciò vuol dire che dovremo porre ogni sforzo per incrementare la comunione fraterna e la collaborazione tra di noi ad ogni livello. Dobbiamo imparare a camminare insieme, condividendo di più la nostra vita, i nostri carismi e le nostre difficoltà. Anche a questo serve la recente riforma dei Vicariati. Giungono qui a proposito le parole dell’apostolo Paolo ai Filippesi nella seconda lettura di oggi: “…rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”.
  2. Ma Camminare insieme vuol dire “Sinodo”. Ecco allora la seconda cosa che mi preme dirvi stasera. Riprendo alcune parole del Santo Padre: “L’itinerario (sinodale) è stato pensato come dinamismo di ascolto reciproco…., condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio…… Non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (2,7). Avere orecchi, ascoltare, è il primo impegno. Si tratta di sentire la voce di Dio, cogliere la sua presenza, intercettare il suo passaggio e soffio di vita.” Queste le parole del Santo Padre. Occorre allora innanzitutto, capite bene, invocare tutti insieme e con insistenza lo Spirito Santo. E’ ciò che invito a fare spesso in parrocchia e personalmente.

Nel tempo dopo Pasqua, si avvierà una consultazione di tutto il popolo di Dio e oltre, la più ampia possibile: chiunque sarà invitato a manifestare le proprie attese, anche chi ormai non frequenta più la chiesa o non ha conosciuto ancora il Signore; particolarmente i giovani e i poveri che solitamente non hanno voce. Si tratterà di ascoltarci; prima di tutto per riscoprire insieme le risorse, i doni, i carismi e che lo Spirito santo ha riversato su di noi e sulle nostre comunità; poi, per cogliere le “attese di vangelo” presenti nella nostra società, cioè quelle situazioni personali e sociali che attendono, anche inconsapevolmente, la buona notizia del Regno di Dio.

La pagina del Vangelo proclamata poco fa, ci aiuta a capire che in fondo, col Sinodo non si tratta di fare cose, quanto piuttosto di fermarci a raccontare, a condividere, a riposarci insieme con il Signore. Il Sinodo è un riposare insieme, conversando con Cristo. Vorrei davvero, carissimi amici, fratelli e sorelle, che vedessimo il cammino sinodale non come un insieme di cose da fare, bensì come uno stare a riposarci insieme a Gesù, condividendo la nostra vita e la vita delle nostre parrocchie e acquisendo lo sguardo pieno di amore di Gesù sul mondo. Si tratta cioè di imparare a vedere il mondo e le persone come le vede lui, cogliendo i bisogni che esse hanno per rispondervi, con cuore compassionevole: ”Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”.

  1. Termino con un riferimento specifico all’apostolo San Giacomo: Continuiamo infatti l’anno giubilare fino al 25 luglio dell’anno prossimo. La testimonianza di San Jacopo, amico del Signore, apostolo missionario e martire della fede, nonché quanto il suo culto ha espresso nella nostra città e nel mondo, con particolare riferimento al cammino e al pellegrinaggio – soprattutto ora che vogliamo camminare insieme per il sinodo – devono essere ancora oggetto della nostra attenzione, preghiera, riflessione. Non ci si dimentichi inoltre di “continuare ad amare.  Sulla scia della tradizione jacobea, dobbiamo incrementare l’impegno di accoglienza e di vicinanza a tutte le situazioni di disagio economico, di solitudine, di malattia, di sete spirituale e comunque di umana povertà presenti nel territorio. Come “opera segno” dell’anno giubilare ricordo a tutti di aver indicato il progetto “Unica”: la realizzazione cioè di un servizio specifico di prossimità per le donne in difficoltà, anche come piccola, ma credo significativa risposta al terribile fenomeno del femminicidio.

Carissimi amici e fratelli, sentiamoci davvero popolo di Dio, perché lo siamo realmente non per nostro merito: un popolo che cammina insieme. Dall’Abetone alla valle dell’Arno, dalle zone pratesi fino a Serravalle, siamo una sola chiesa, un popolo di fratelli e sorelle chiamato a testimoniare al mondo la vita del mondo che verrà. Avanti, dunque, in letizia di cuore e intrepido coraggio.

 

 




Giubileo delle Diocesi toscane – Cattedrale di San Zeno (19 settembre 2021)

Giubileo delle Diocesi toscane

Cattedrale di San Zeno (19 settembre 2021)

 

La presenza dei vescovi toscani – e vi ringrazio davvero di cuore per essere qui come ringrazio anche chi non è potuto venire qui ma si è fatto presente con l’affetto e la preghiera – la presenza, dicevo, dei vescovi toscani in questa Cattedrale stasera, manifesta una mirabile continuità con quanto già secoli fa e precisamente nel 1145 si andava affermando come una novità di rilievo per l’intera chiesa toscana e per la cristianità. Papa Eugenio III, pisano, proprio in quell’anno, all’indomani dell’arrivo della reliquia di San Giacomo Apostolo a Pistoia, con due brevi pontifici si rivolgeva ai vescovi di Fiorenza, Lucca, Volterra, Siena e Luni con queste parole: “Crediamo sia giunto a vostra conoscenza quali e quanti insigni miracoli il Signore Onnipotente abbia voluto presentemente mostrare per i meriti del santo apostolo Jacopo presso il suo santo altare nella chiesa di Pistoia; ragion per cui i fedeli di diverse e remote parti della terra mossi dalla devozione hanno iniziato a recarsi al medesimo sacro luogo e  a chiedere rimedi per la propria salvezza.” Subito dopo chiedeva ai presuli toscani di non ostacolare ma anzi di invitare a tale devozione, tutelando i pellegrini che si sarebbero recati a Pistoia, concedendo inoltre il dono dell’indulgenza ai devoti visitatori della reliquia.

Noi oggi siamo qui, a rappresentare le chiese di toscana, sulle orme di chi ci ha preceduto nel segno della fede. Ad accogliervi, cari confratelli, non c’è il grande sant’Atto. Ci sono soltanto io, suo veramente indegno successore. Consapevole di questo, mi voglio mettere con voi umilmente alla scuola dell’apostolo Giacomo il maggiore. Credo che abbia da insegnarci ancora tanto. Le Scritture della liturgia ci guidano nella nostra riflessione.

Innanzitutto, possiamo pensare a Giacomo come ad un amico di Gesù. Gesù lo volle sempre con sé, insieme a Giovanni e a Pietro. Accanto a Gesù, lo troviamo in due momenti fondamentali della sua vita: quello della trasfigurazione sul monte e quello dell’agonia nel Getsemani. Significativamente, come ci ricorda il libro degli Atti, fu anche il primo degli apostoli a versare il sangue per Cristo. L’amicizia profonda di Jacopo con Cristo ci richiama allora a quello che è il rapporto fondamentale di ogni cristiano: quello cioè con Cristo, via, verità e vita. E’ questo rapporto, questa relazione, che ci costituisce come cristiani. Non una ideologia, non una morale, non una teoria. La relazione viva e profonda con Cristo è ciò che determina l’essenza dell’esperienza cristiana. Un incontro, una relazione che è amicizia, che è amore, che è uno stare con Gesù per imparare da Lui ed essere guidati da Lui.  L’identità cristiana sta in questa relazione che è salvezza. Se non lo si capisce e non la si vive, il cristianesimo diventa un’altra cosa ed è come il sale che perde il suo sapore. Ce lo ricordava anche il Santo Padre nel discorso al convegno di Firenze che resta un punto di riferimento essenziale per il cammino delle nostre chiese in Italia. Diceva Papa Francesco: “Nella cupola di questa bellissima Cattedrale di Firenze è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’ è Gesù, nostra luce. L’ iscrizione che si legge all’ apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato, nel Cristo assiso sul trono del giudice (…) Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’ uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita o segnata dal peccato. (…) Lasciamoci dunque guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo”.

Queste mirabili affermazioni, non possono essere dimenticate, perché sono parte integrante di tutto il discorso di Firenze.

Oltre a quanto detto finora, credo che possiamo guardare a Jacopo anche come testimone di un cammino. Di un cammino interiore, innanzitutto. Un cammino di conversione. Un cammino che ha condotto l’apostolo ad acquisire lentamente la mentalità di Cristo, superando limiti e grettezze di cuore e di mente. Da questo punto di vista, il racconto evangelico che abbiamo ascoltato è emblematico. La richiesta della madre di Giacomo e Giovanni al Signore – per l’evangelista Marco, la richiesta però è fatta direttamente dai due apostoli, come ad indicare che Maria Salome interpretava il desiderio stesso dei suoi figli – questa richiesta rivela quanta strada ancora debba fare Giacomo per essere davvero discepolo del Signore. La ricerca del potere e del prestigio, mostra Giacomo ancora come quell’uomo vecchio di cui, alla scuola di Cristo, lentamente si liberò, fino ad arrivare alla testimonianza suprema del martirio. Un cammino dietro a Cristo che apre il cuore, che schiude il cuore alle necessità dei fratelli e quindi alla missione apostolica. Non è quindi un caso se proprio attorno a San Jacopo sia sorta dall’VIII secolo, una forte spinta al cammino. Fisico si, ma anche sempre spirituale ed interiore. Il bastone che l’iconografia mette in mano a San Jacopo, come le altre insegne del pellegrino su di lui, indicano esattamente tutto questo. E il cammino jacobeo è stato da sempre caratterizzato dall’accoglienza, dal servizio, dalla carità. Come ebbe a dire Benedetto XVI in una udienza pubblica nel giugno del 2006: “Alla fine, di San Giacomo possiamo dire, che il cammino non solo esteriore ma soprattutto interiore, dal monte della Trasfigurazione al monte dell’agonia che egli ha compiuto, simbolizza tutto il pellegrinaggio della vita cristiana, fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio. Seguendo Gesù come san Giacomo, sappiamo, anche nelle difficoltà, che andiamo sulla strada giusta.”

L’ultimo insegnamento che ci viene da San Jacopo, e ce lo ha ricordato la seconda lettura tratta da San paolo, è rappresentato dal libro dei vangeli che l’iconografia mettere tra le mani di San Giacomo. Egli è un apostolo, inviato dal Signore ad annunciare la buona notizia del Regno; egli porta il tesoro del vangelo pur essendo un vaso di creta. Secondo la tradizione, anche se difficilmente verificabile, Jacopo si mosse fino ai territori della Spagna. Sicuramente predicò a Gerusalemme e in Samaria. Certamente, fu a causa di questa predicazione che ricevette la morte per mano di Erode. E’ presumibile si trattasse di una predicazione forte e decisa, molto incisiva, se Erode decise di mettere a morte Giacomo e non Pietro. Del resto, il nomignolo attribuito da Gesù a Giacomo e Giovanni, quello cioè di boanerghes, figli del tuono, farebbe pensare proprio ad una certa irruenza di carattere.

Credo che noi oggi, come chiesa e come pastori, si debba imparare da Giacomo questa parresia, nell’annuncio cristiano. Il tempo dei rapidi cambiamenti in cui siamo immersi, le incertezze che viviamo, gli orizzonti culturali così fluidi e inediti, ci possono forse spingere a tacere, intimiditi e quasi tentati di rinchiuderci in noi stessi, timorosi. Non è questo però lo stile dell’apostolo. Non può essere questo lo stile di una chiesa che ha tra le sue caratteristiche quella di essere “apostolica”. L’annuncio cristiano è atto d’amore che noi dobbiamo all’umanità. Anche se si tratta di un amore forte e non sempre facile da accogliere. Esso certamente non può non accompagnarsi dalla concretezza dei gesti di amore che vengono incontro ai bisogni degli uomini. Ma comunicare il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa che vale più di tutto, pur se esigente e critico nei confronti delle presunzioni del mondo, resta l’atto più grande della carità. Abbiamo bisogno urgente della parresia degli apostoli. Abbiamo urgente bisogno della parresia di San Giacomo. Anche per questo siamo qui, stasera, a venerare la reliquia del suo corpo martirizzato. Per essere chiesa non muta ma che testimonia e parla con coraggio e sempre per amore.




Messa Crismale (13 maggio 2021)

S.Messa crismale
Cattedrale 13 maggio 2021

«Lo Spirito del Signore è sopra di noi, per questo il Signore ci ha consacrati». Lo abbiamo sentito. È stato detto solennemente. Questa è la verità che ci caratterizza. È la nostra realtà. Lo Spirito del Signore è sopra di noi e ci ha consacrati, resi cioè partecipi della vita divina.
Una verità che stasera dobbiamo richiamare alla memoria ed esserne grati: lo Spirito santo ha inondato e inonda con la sua luce e la sua forza le nostre vite, la chiesa intero, il mondo. Vorrei soffermarmi ora proprio su questa verità da riconoscere.

Innanzitutto lo Spirito del Signore è sopra le nostre povere vite, dentro di noi e dentro la nostra realtà diocesana. Nonostante molte volte ci possa sembrare il contrario, perché tante sono le nostre inadempienze e i limiti della nostra realtà diocesana. Non ci vuol molto, carissimi amici, a vedere tutte le nostre fragilità e debolezze. Quanto siamo lontani dall’essere un cuor solo e un’anima sola sia a livello di presbiterio che più in generale fra tutti noi e quanto manchevoli sono le nostre parrocchie e associazioni! Dobbiamo fare i conti con stanchezze, perdite di motivazioni, demoralizzazioni per le circostanze indubbiamente avverse che sperimentiamo.
Eppure, lo Spirito del Signore è su di noi e ci consacra, nonostante tutto. In effetti, come non vedere anche tanti frutti dello Spirito in mezzo a noi? Nel cuore generoso di tante persone e famiglie; nella dedizione amorosa di molti che hanno mantenuta accesa la fiaccola della comunità parrocchiale, del catechismo, della carità. Un servizio, quello della carità, davvero bello e molto diffuso nella nostra Diocesi. Non mancano entusiasmo, gioia, testimonianze semplici ma al tempo stesso luminose di fede, di speranza, di carità. Sì, lo Spirito santo è su di noi.

Ma Egli è anche sull’intera Chiesa cattolica. È indubbio che essa sia oggi battuta da pericolosi e agitati venti. Sperimentiamo un pluralismo di idee e prassi, a volte sconcertante. Ci sono gruppi e persone che si schierano apertamente contro il Santo Padre, delegittimandone addirittura il ruolo. Oppure constatiamo con tristezza l’allegra disobbedienza di alcuni che vorrebbero ugualmente continuare a dirsi cattolici. Inoltre, la chiesa universale porta ancora le ferite degli abusi commessi dal clero e degli scandali finanziari.
Eppure, anche qui, nonostante tutto, lo Spirito del Signore è sulla chiesa, la anima e la fortifica pur in mezzo alle tempeste. Opera senza stancarsi. Come non vedere infatti all’opera lo Spirito Santo di Dio nella innumerevole schiera dei martiri che hanno irrorato e irrorano anche oggi la terra con il sangue che è seme di speranza? Mai nella storia della Chiesa, neppure nei primi tre secoli, la chiesa ha subito persecuzione e martirio come ai nostri giorni. E come non vedere il sorgere sempre più consistente della chiesa nell’Asia con prospettive di sofferto ma straordinario sviluppo? E questa è testimonianza della potenza dello Spirito Santo.

Lo Spirito del Signore è infine anche sul mondo intero, sulla intera umanità. Pure in questo caso i drammi della nostra umana miseria morale e materiale sono piuttosto pesanti. Continuano guerre e violenze. Proprio in questi giorni assistiamo all’accendersi di una terribile guerra proprio nelle terre di Gesù. E poi c’è stata e c’è ancora la pandemia che ci ha buttato a terra, uccisi, abbattuti. Che ci ha fatto sentire, tutti, in ogni parte del mondo, fragilissimi e sottoposti a pericoli gravi. E anche se ora si intravvede una certa luce in fondo al tunnel, rimaniamo nell’incertezza e con la paura che possa sempre accadere qualcosa di simile, di fronte al quale trovarci ancora una volta impreparati.

Eppure, anche qui, lo Spirito del Signore è su di noi e spinge perché questa situazione di crisi globale sia occasione per cambiare il mondo, per rinnovare la società e renderla più umana. L’opera dello Spirito Santo ci fa comprendere sempre di più quanto sia necessario e indispensabile prendersi amorevolmente cura gli uni degli altri. Quanta generosità è emersa in questo tempo e quanta voglia di riprendersi! Siamo stati certamente costretti a rivedere tante cose, anche nella nostre parrocchie – è vero. Pure la celebrazione di stasera è il segno dello scombussolamento prodotto da questi tempi difficili. Ciononostante, lo Spirito Santo ha soffiato e soffia e da Lui siamo stati spinti a rivedere in positivo tante cose anche nelle nostre parrocchie, a ritrovare l’essenziale della vita cristiana e le motivazioni più profonde del nostro agire.
Dunque si, lo Spirito del Signore è sopra di noi e sopra la nostra realtà, sopra la Chiesa universale e sul mondo intero. Lo riconosciamo e lo ringraziamo per la sua instancabile opera.
Fermarci però qui sarebbe sbagliato. La parola di Dio ci rivela quella che deve essere la nostra missione e il nostro impegno: lo Spirito del Signore è sopra di noi e ci ha consacrati infatti per «portare il lieto annuncio ai poveri, proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista a rimettere in libertà gli oppressi».
È la missione di Gesù. Quello che Lui ha fatto. Ci viene chiesto di condividerla e farla nostra. Ecco dunque delineato il nostro compito, confidando nella forza dello Spirito. Una missione che riguarda tutti i battezzati, indistintamente. In particolare però noi sacerdoti, chiamati ad essere modello del gregge. Non scoraggiamoci allora carissimi amici! Lo Spirito Santo ci ha scelti. Impegniamoci piuttosto e a fondo! Diamoci da fare per raggiungere ogni persona, accompagnando con affetto ogni persona. Andiamola a cercare. Dobbiamo proclamare a tutti e a ciascuno, speranza, salvezza, liberazione. Sforziamoci di incontrare le persone, tutte, anche quelle che sembrano più lontane. Non per fare proselitismo. Non per attrarla a noi, legarla a noi o far numero! Guai se agissimo così anche solo inconsapevolmente! Invece, per avvicinarla a Cristo e alla chiesa e poi noi metterci subito all’ultimo posto.

E in questo impegno verso ogni uomo che la parola di Dio ci ricorda, la benedizione degli oli santi mi pare indicare anche verso chi dirigersi in particolare: con l’olio dei catecumeni, sono soprattutto le famiglie che dobbiamo avvicinare e coinvolgere; con l’olio degli infermi, si indicano particolarmente i malati e gli anziani. Infine, con il sacro Crisma, ci vien chiesto di rivolgere l’annuncio del vangelo e la cura pastorale, specialmente alle nuove generazioni, ai giovani, perchè scoprano la loro vocazione nel mondo e magari quella del servizio nel ministero sacro.

Sottolineo dunque queste tre attenzioni per la nostra chiesa: esse dovranno sicuramente trovare debito spazio nel cammino sinodale che abbiamo iniziato ma per forza un po’ interrotto ma che ora intendiamo riprendere in modo deciso: le famiglie, i malati e gli anziani, i ragazzi e i giovani. Lavoriamo molto su questi tre versanti. Facciamo in modo che la nostra fantasia pastorale inventi nuove modalità e forme per accompagnare nel cammino della vita le famiglie, i malati e i giovani. E mentre questa sera benediciamo gli oli santi, pensiamo e preghiamo proprio per tutti coloro a cui questi oli santi sono destinati.

E lasciamo infine, carissimi fratelli e sorelle, che il dolce profumo del Crisma ci invada come “olio di letizia” e preghiamo accoratamente con le parole dell’orazione dopo la comunione: Concedi, Dio onnipotente, che, rinnovati dai santi misteri, diffondiamo nel mondo il buon profumo di Cristo.




In morte di Luana

In morte di Luana

(Spedalino Asnelli, Chiesa di Cristo Risorto – 10 maggio 2021)

 

È una lunga, lunghissima litania quella dei morti sul lavoro. È una litania che si allunga ogni giorno senza arrestarsi. Due, tre vittime al giorno. Qualcosa di inaudito. Di inaccettabile.

Ora siamo qui attorno al corpo straziato di Luana. La sua storia ha commosso l’intero paese. Ma il suo corpo straziato è qui a nome di tutti gli altri corpi straziati ogni giorno sui luoghi di lavoro. Viviamo purtroppo in un mondo in balia delle emozioni che si accendono e si spengono in un attimo; in un mondo che vive sull’onda dell’immediato, condizionato spesso dai mezzi di comunicazione. E tutti siamo subito distratti da mille altre cose che facilmente finiscono per giustificare la nostra inerzia.

Luana e tutti gli altri, oggi però stanno qui, in piedi davanti a noi: ci guardano, ci osservano e ci chiedono conto: ci dicono che non bastano le emozioni forti, non basta che ci commuoviamo per un momento: occorrono impegno e responsabilità, concretezza, determinazione e scelte coraggiose; occorre che le cose cambino.

Dio, per parte sua, sa compensare oltre ogni misura tutte le vittime innocenti della storia, quelle che la storia fatta dagli uomini produce in misura enorme. Dio sa come dare pienezza di vita a chi non è riuscito ad averla quaggiù sulla terra. Sa come soddisfare i sogni più belli che ogni vittima innocente porta nel cuore e che anche Luana portava dentro di sé. Lui sa asciugare le lacrime, curare le ferite, colmare con il suo infinito amore ogni vuoto. Lo abbiamo ascoltato poco fa dal libro dell’Apocalisse: abbiamo ascoltato la promessa di cieli nuovi e terra nuova in cui abita la giustizia; la promessa di una città santa tutta splendore di bellezza, dove “Egli asciugherà ogni lacrima e dove non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”.

Ma ciò che Dio promette e compie, non ci esime dal prendere oggi qui le nostre responsabilità, davanti ai nostri fratelli e alle nostre sorelle morte sul lavoro. Anzi: Dio stesso insieme ai nostri fratelli morti, ci chiede di rendere questa la terra migliore, ogni giorno di più. E finchè non ci saremo riusciti, non abbiamo il diritto di riposarci. La certezza dei cieli nuovi e delle terre nuove promessi da Dio, ci spinge con forza a fare nuovi i cieli e la terra che abitiamo nella storia.

Allora ci dobbiamo lasciare inquietare dallo sguardo di tutti i morti sul lavoro, da quegli occhi che oggi ci fissano. Vorremmo abbassare i nostri, per la vergogna. Non possiamo farlo. Dobbiamo lasciarci guardare. Non ci guardano con odio e risentimento ma, nonostante tutto con amore. Il loro sguardo è supplica, accorata supplica, insistenza, stimolo, pressione esigente perché non capiti più quello che è accaduto a loro; perchè cambiamo il nostro modo di vivere e di organizzare la società.

La nostra società, il nostro mondo infatti, così com’è oggi, non va. Se non c’è lavoro e lavoro per tutti, vuol dire che le cose non vanno bene. È inutile girarci intorno. Se il lavoro non è dignitoso, rispettoso della dignità della persona umana, se non è  libero, creativo, partecipativo e solidale e adeguatamente remunerato, la società non è buona. Soprattutto se ancora oggi, nel 2021, si muore sul lavoro con la frequenza che registriamo, proprio no: qualcosa non va, molto non va. Le cose devono cambiare. Aldilà di ogni schieramento politico. Dobbiamo cambiare questo inaccettabile stato di cose!

L’odierna celebrazione è certamente innanzitutto accompagnamento alle porte del cielo della nostra carissima Luana; sostegno e conforto nella fede per la sua famiglia e il piccolo suo bambino. Col pianto nel cuore ma con tanta fiducia nel Signore, ci stringiamo attorno alle spoglie mortali di Luana per accompagnarla alle porte di quella Gerusalemme celeste che è la nostra vera patria. Queste esequie sono la celebrazione della Pasqua del Signore, di colui che ha detto “io sono la risurrezione e la vita”.

Nello stesso tempo però queste esequie non possono non essere anche una corale richiesta di perdono a Luana, a tutti i morti sul lavoro e a Dio stesso. Non possiamo non chiedere perdono, sinceramente, dal profondo del cuore per questa come per tutte le altre morti. Perché queste cose non dovevano succedere. E se sono successe, la responsabilità, in qualche modo è di tutti. Forse in misura diversa e per questo giustamente la magistratura deve fare il suo corso. Ma tutti quanti portiamo il peso di queste morti ingiuste, indegne, delittuose.

Chiedere perdono non è mai un gesto facile e a buon mercato. Per essere sincero, deve produrre conversione, cambiamento di vita e di prassi, rinnovamento della vita sociale, perché queste morti non capitino più. È necessario acquisire da parte di tutti, una mentalità, uno stile di vita nuovo: cioè una cultura della solidarietà, della cura, del primato del bene comune su quello individuale. È necessario un cambiamento culturale che anche questa triste pandemia ci dovrebbe aiutare a fare, quando abbiamo sperimentato l’importanza di prendersi cura l’uno dell’altro, unica via per risolvere i nostri problemi. Prendersi cura l’uno dell’altro, considerare l’altro una persona con una dignità inalienabile e intaccabile, mai un mezzo, mai un oggetto, mai uno strumento; mettersi al servizio del bene comune e impiegare risorse per far questo, nella convinzione che a rendere la società migliore, più umana, non ci si rimette ma ci si guadagna tutti: ebbene, questa è la cultura di cui abbiamo bisogno sia nel privato come nel pubblico.

E qui ecco allora la straordinaria forza delle parole evangeliche ascoltate poco fa: avevo fame, avevo sete, ero nudo, malato, straniero, dice il Signore e mi siete venuti incontro. Avevo fame, sete, ero nudo, malato, straniero e vi siete invece voltati dall’altra parte. Sull’attenzione all’altro si compie il giudizio finale di Dio sull’intera storia umana. Questa pagina evangelica non è un manuale di buone maniere. Non è un invito generico a fare un po’ di bene. Non è nemmeno una parola per i soli credenti. No. È una parola per tutta l’umanità, per il mondo e per la coscienza di ogni uomo. È una parola per il rinnovamento profondo dell’umanità. È un manifesto di rivoluzione culturale e sociale. Sono parole che se messe in pratica in ogni ambito della vita, renderebbero impossibili le morti che ora piangiamo.

Lasciamoci così allora oggi. Con queste parole che risuonano forti dentro di noi e che ci spingono all’impegno. Non aggiungiamone altre. Sono le parole di Cristo per noi. Ma sono anche le parole per noi di Luana e di tutti coloro che sono morti sul lavoro.




Domenica delle Palme 2021

Domenica delle Palme

(28 marzo 2021 – Cattedrale di San Zeno)

 

Con la Domenica della Palme inizia la Settimana Santa. Un tempo, quello della Settimana Santa, nel quale facciamo memoria innanzitutto della Passione di Gesù Cristo. Siamo condotti prima di tutto a guardare a Lui e a ripercorrere gli avvenimenti che lo portarono alla morte in croce e alla sepoltura. In questi giorni riviviamo la passione di Gesù, l’incomprensione che lo avvolse, la cattiveria, il tradimento, la cattura, il falso processo e poi le percosse, gli insulti, infine la crocifissione. Riviviamo l’abbandono dei suoi amici, il rinnegamento e le battiture, terribili, della frusta prima e poi dei chiodi. È la passione di Cristo. Dolorosa Passione da contemplare e davanti alla qual commuovere il cuore.

In questa Settima però possiamo vedere anche, nella passione di Cristo, compendiata la passione dell’intera umanità, dall’inizio dei tempi fino ai nostri giorni. Anche l’umanità nella storia vive una passione drammatica. Il fratello uccide il fratello; dovunque sangue, violenza, oppressione e morte. Quante volte è stata calpestata la dignità dell’uomo. Quante volte l’uomo ha infangato l’immagine divina che porta scolpita in se stesso. La storia dell’umanità è davvero una passione, nella quale i giusti, gli onesti, i buoni pagano sempre un prezzo altissimo.

Infine, possiamo vedere in questa settimana santa, anche il tormento che oggi il mondo vive a causa della pandemia che ci ha colpito. È una passione anche questa, quella che viviamo di questi tempi. In questa Settimana non possiamo non riandare con la mente e col cuore ai tantissimi che sono morti a causa del virus o che sono nelle terapie intensive, negli ospedali o a casa isolati. Non possiamo non pensare al nostro paese ma anche agli altri paesi e alle popolazioni del mondo più indifese sulle quali la pandemia ha un effetto davvero devastante.

Una settimana di passione dunque. Sì. Per rivivere la passione di Cristo, renderci conto della passione dell’umanità e dell’uomo, partecipare alla passione di questo momento del mondo.

 

Però la Settimana Santa non finisce con il sabato. Essa sfocia nella domenica. Per questo, la Settima Santa è anche una settimana di speranza. E noi dobbiamo vivere questa settimana di passione, la passione di Cristo, dell’umanità e dell’uomo e di questo triste tempo, con la certezza nel cuore che la luce della domenica, della Risurrezione e dell’amore è più forte di ogni oscurità.

La passione di Cristo non termina con la chiusura del suo corpo esanime nel sepolcro. No. Essa si apre al sepolcro vuoto e alla pietra rotolata via del mattino di Pasqua. La passione e la morte di Cristo sfocia nella sua risurrezione che è speranza per ogni creatura.

Per questo anche la passione dell’umanità nella storia, la passione dell’uomo, si apre alla certezza che il Regno di Dio non viene meno. Esso avanza nel tempo e si compirà in pienezza perchè tutta la storia è nelle mani di Dio e ci saranno quindi cieli e terra nuovi in cui abita la giustizia.

Così, la passione che stiamo vivendo a causa di questo virus, cesserà anch’essa, non c’è alcun dubbio. Non dobbiamo farci vincere dallo scoraggiamento. Passerà  e, siamone certi, si apriranno prospettive nuove e opportunità belle che speriamo solo, possano essere afferrate per migliorare la nostra vita e il mondo.

Viviamo dunque questi giorni santi immersi dentro la passione. Sentiamone il dolore e persino l’angoscia. Però guardiamo anche oltre. Lasciamoci illuminare dalla luce della Pasqua. Facciamo in modo che la potenza delle Risurrezione rischiari la passione e ci dia speranza per riprendere con gioia e fiducia il cammino del tempo.




Omelia per la celebrazione di Apertura della Porta Santa e dell’Anno Santo Iacobeo (9 gennaio 2021)

Anno Santo Iacobeo 2021
Omelia per la celebrazione di Apertura della Porta Santa e dell’Anno Santo Iacobeo

(9 gennaio 2021)

Nel giorno in cui si ricorda il Battesimo del Signore nelle acque del Giordano, diamo inizio all’anno santo in memoria dell’apostolo San Giacomo il Maggiore, di cui, fin dal 1145 si conserva in questa Cattedrale una reliquia del suo corpo, proveniente direttamente da Santiago di Compostela in Spagna, dono prezioso del vescovo del tempo di quella città al Santo Vescovo Atto di Pistoia. Apertosi a Santiago, come da tradizione, il 31 dicembre, in comunione con quella Chiesa, per concessione del Santo Padre Francesco, abbiamo anche noi in questa città, questa sera, dato avvio a quest’anno di grazia, con il suggestivo e significativo rito dell’apertura della porta santa: segno della misericordia, la porta si apre ad accogliere chiunque cerchi ristoro per la sua vita, sollievo per la sua anima, energia per ricominciare a sperare, forza per continuare a lottare per la giustizia e la pace, riprendere il cammino della vita verso la patria eterna del cielo.

Davanti ai nostri occhi questa sera è la scena di Gesù che si presenta a Giovanni Battista per essere battezzato. E’ insieme a tutti coloro che, mossi dall’invito alla penitenza del Battista, sono in. Attesa di essere immersi nelle acque del fiume Giordano. Gesù è insieme agli altri, insieme ai peccatori. E’ venuto nel mondo per servire, non per essere servito. Egli è l’agnello innocente che porta su di sé il peccato degli uomini. Con divide la sorte dei peccatori. Non si distingue in niente da essi e come un peccatore, nonostante la riluttanza di Giovanni il Battista, si fa battezzare, compiendo un gesto che indica il caricarsi sulle spalle di tutti i peccati degli uomini. Dal cielo una voce n misteriosa conferma che quello è il Figlio unigenito del Padre inviato proprio per riscattare i prigionieri dalle catene del male, rinnovare la vita, a dare speranza all’umanità, infondere amore laddove regna spesso l’odio e il rancore.

Le acque del giordano ricevono il Cristo, Colui che è senza peccato e ricevono in quel momento la forza per santificare gli uomini e farli nuovi. Esse prefigurano le acque del battesimo che fanno rinascere gli uomini alla vita divina di figli di Dio.

Gesù da così inizio alla sua missione redentrice, condividendo la sorte dei peccatori e aprendo un cammino di speranza e di vita nuova per coloro che si affidano a lui.

Poco dopo, Giacomo insieme ad altri uomini, sarà chiamato a seguire il Signore, ad iniziare un cammino dietro di lui verso una vita nuova. Sarà chiamato ad essere pescatore di uomini insieme al fratello Giovanni, ad assumere cioè la stessa missione del Figlio di Dio, manifestatosi nelle acque del Giordano.

L’anno santo che abbiamo aperto stasera lo celebriamo nella memoria proprio di lui. L’apostolo San Giacomo il maggiore è un nostro fratello e amico. In lui abbiamo un grande testimone della fede, fino all’effusione del sangue. Egli fu infatti il primo degli apostoli a subire il martirio, ucciso di spada per le mani del re Erode, come ci dice il libro degli Atti. Fratello di Giovanni l’evangelista, fu pronto a lasciare le reti quando il Signore Gesù lo chiamò sulle rive del lago di Tiberiade per divenire pescatore di uomini. Spesso fu con Gesù nei momenti salienti della vita del salvatore e imparò da Lui, la via dell’umiltà e del servizio. Un’antica tradizione dice che sia andato fino in Spagna a portare il Vangelo, secondo il mandato apostolico ricevuto da Gesù di andare fino ai confini della terra.

Discepolo fedele di Cristo, membro del collegio apostolico, evangelizzatore, testimone di amore con il dono della propria vita: sono tanti i motivi per sentirci onorati di avere un così nobile e grande patrono. Non va dimenticato poi il forte richiamo alla carità che il culto iacobeo porta con sé: infatti, dopo il ritrovamento dei resti mortali dell’apostolo a Compostela, si sviluppò un vasto movimento di pellegrini che portò a quella singolare pratica dell’ospitalità e dell’accoglienza che fece fiorire ospizi, ospedali e luoghi di servizio e carità un po’ dovunque, lungo le antiche vie di comunicazione. La nostra città si onora di averlo da secoli come speciale patrono.

L’anno Santo iacobeo si celebra in un tempo davvero particolare e molto critico. La pandemia è stata la sorpresa di questo tempo. Ci ha costretto e ci costringe a ridimensionare i progetti, anzi direi quasi ad azzerarli. Dovremo per forza di cose ridurre le manifestazioni esterne. Ciononostante, proprio di questi tempi, credo che celebrare un anno santo sia qualcosa di provvidenziale. Con la pandemia siamo stati messi di fonte al dolore, alla morte, alla nostra umana impotenza e insieme grandezza; siamo spinti a guardare alle sorti del mondo e al futuro che vorremmo. Tutto questo ci costringe ad entrare più in profondità nelle cose, a guardare dentro noi stessi, a ripensare a tutta la nostra vita. E forse è proprio questo il senso di un anno santo.

Questo anno può essere allora davvero un tempo di ripensamento interiore; un tempo cioè di conversione; per riporsi le domande di fondo sulla vita; un tempo anche di potatura sicuramente, per buttar via il superfluo e tutte quelle incrostazioni che le nostre debolezze e i nostri peccati ci lasciano addosso; un tempo anche per riscoprire il valore del prossimo e per comprendere sempre di più che è solo nell’amore che si salva il mondo, imparando a prenderci concreta cura l’uno dell’altro e insieme, della casa comune; un tempo infine anche per imparare a condividere le tante sofferenze che questa pandemia ha portato e sta portando alla luce.

Per la chiesa di Pistoia, si tratta di una grande occasione per rimettersi in cammino. Non ci siamo fermati in questi anni, però ora è giunto il momento di fare il punto per ripartire con un nuovo impegno e la speranza nel cuore. Un anno santo dunque per rinnovare il nostro rapporto col Signore nell’ascolto più attento della sua Parola, con una preghiera più vera e autentica. Un anno per ripensare tante cose della vita delle nostre comunità, per radicarci sull’essenziale e diventare sempre più una chiesa che è lievito di speranza dentro la pasta del mondo.

Per la città di Pistoia, credo sia l’occasione per riscoprire le proprie radici, quelle che hanno segnato la sua storia, conoscere quindi più se stessa e scoprire la bellezza di una maggiore coesione per affrontare i problemi economici e sociali dell’oggi. Un anno anche per riprendersi e ritrovare fiducia.

Con San Giacomo dunque ci mettiamo in cammino. Egli il primo apostolo a dare la vita per Cristo, ci richiama alla fedeltà e al coraggio nel seguire Cristo, via, verità e vita e in Cristo la giustizia e la verità. Come apostolo, andato in missione, forse anche in Spagna, secondo un’antica tradizione, muovendosi dalla sua terra, può insegnare all’uomo di oggi a non aver paura dell’ignoto ma ad avere il coraggio di cercare, di andare e di non arrendersi mai anche di fronte alle situazioni più difficili della vita. Come culto concretizzatosi nei secoli, la figura di San Giacomo ci parla di cammino, del camminare, dell’essere pellegrini. E quanto è importante per l’uomo di oggi riconoscersi come un pellegrino e un viandante! E quanto è importante per ognuno di noi aprirsi all’accoglienza degli altri, viandanti e pellegrini come noi su questa terra!

Quest’anno vogliamo dunque compiere davvero un cammino. Non solo esteriore ma soprattutto interiore che, alla scuola dell’apostolo Sant’Jacopo ci faccia “pregare, ripensare e continuare ad amare”. Che ci faccia innanzitutto pregare di più e più intensamente, ascoltando con maggiore attenzione la parola di Dio e invocando con convinzione il dono dello Spirito Santo; che ci faccia anche ripensare a tutta la nostra vita e al nostro modo essere e di rapportarci con Dio, con gli altri, col mondo e con noi stessi; infine che ci permetta di continuare ed approfondire il nostro amore per il prossimo, spingendoci alla intercessione per i fratelli e le sorelle del mondo e al servizio generoso e disinteressato del nostro prossimo.

Allora, carissimi fratelli ed amici: ultreya! “Più avanti”, “sempre oltre”. Con l’antico e caratteristico grido dei pellegrini di San Jacopo, camminiamo insieme e andiamo avanti nella via della giustizia, della verità e dell’amore.