Natale del Signore (25 dicembre 2021)

Natale del Signore – Cattedrale di San Zeno, 25 dicembre 2021

In una grotta o in una capanna o in una semplice stalla, perché non c’era posto per loro nella casa: così è nato nel tempo il re dei re, il Verbo unigenito del Padre, il Salvatore del mondo. Deposto in una mangiatoia, tra paglia e animali. Un parto di emergenza direi; alla meglio. Con Giuseppe e Maria, lontani da casa. Avevano dovuto lasciare Nazareth al nord della Palestina e scendere a sud, a causa del censimento ordinato dall’imperatore di Roma – quello si, grande e potente, che governava da ricchi e lussuosi palazzi. Giuseppe e Maria non ebbero nemmeno un posto dove alloggiare a Betlemme, dopo aver affrontato un viaggio sicuramente disagevole.

Nasce così, il Signore Dio, nel silenzio nascosto di una notte. Non ci sono inservienti, camerieri; non c’è gente, men che meno folla a sottolineare la grandezza dell’evento. Nessuno: quello di Dio che si fa uomo è il fatto assolutamente più straordinario della storia, eppure accade nel silenzio più totale, nel nascondimento più grande. Non ci sono giornalisti né troupe televisive. Per eventi di minore importanza, si riempiono stadi e piazze. Qui no. L’evento più incredibile della storia accade e nessuno se ne accorge. E’ Dio stesso che ha scelto questo modo umile e nascosto per entrare nella nostra storia, per entrarvi potremmo dire, in punta di piedi.

Dice San Paolo che il Verbo di Dio annientò se stesso, assumendo la forma del servo. Mistero davvero insondabile quello dell’annichilamento di Dio per amore nostro.

Per la verità, all’evento, qualche spettatore in qualche modo ci fu: i pastori, quei miseri pastori che custodivano le greggi poco distanti dal luogo del parto. Gli angeli del cielo, proprio a loro annunciarono la nascita del Salvatore. Non andarono a suonare la tromba in mezzo alle strade di Gerusalemme o per le contrade d’Israele. No. Annunciarono a quei semplici pastori: “Oggi è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore”. E così i pastori, accorsi dal bambino, furono gli spettatori unici di quell’evento mirabile e straordinario.

Mi sono dilungato nel narrare le modalità della nascita del Salvatore, del Figlio unigenito del Padre, perché in questa modalità è racchiuso il messaggio stesso del Natale e anche una radicale contestazione dei modi sbagliati di sentire e viverlo. Non solo: la modalità scelta da Dio per venire tra noi, ci indica con chiarezza quella che è la strada da percorrere, la strada giusta, quella vera che porta alla pienezza della vita e della gioia.

Credo che non ci sia bisogno di molte parole. La modalità scelta da Dio per incarnarsi è per se stessa molto eloquente e ognuno di noi può facilmente trarne le dovute conclusioni. Accenno quindi ora soltanto ad un paio di cose che a mio parere meritano di essere raccolte perché da esse scaturiscono tante altre considerazioni e propositi di vita.

La prima cosa che sottolineo è la stupefacente e sorprendete rivelazione di un Dio che si fa piccolo, quasi insignificante, debole e fragile; un Dio che per agire, sceglie il silenzio e il nascondimento. Un Dio che possiamo ben dire si annienta per amore della sua creatura. Una creatura, quella umana, che si era perduta nel male e che Egli viene a cercare, facendosi compagno di strada e spesso di sventura. Un Dio così stupisce all’inverosimile, incanta, commuove ma pone anche un sacco di interrogativi alla nostra mente e al nostro modo di vivere. Ci provoca, ci scuote, non ci lascia in pace, anche perché si ripresenta a noi nel volto di tutti gli scartati e i poveri della terra….

Questo è il nostro Dio: questo è il Dio di Gesù Cristo; è il Dio in cui noi cristiani crediamo; l’unico Dio, comunque lo si voglia chiamare. Questo è il suo volto, il suo vero volto. Ogni altra immagine di Lui è falsa e fuorviante. E un Dio così o lo si rifiuta per rabbia, come è accaduto e purtroppo accade anche oggi, oppure lo si ama incondizionatamente, imparando da Lui ad amare e come si amano gli altri. Noi così spesso affannosamente dediti al nostro benessere psicofisico; alla ricerca di mille comodità; noi così speso chiusi nel castello fortificato del nostro io; così protesi alla ricerca del nostro esclusivo e individuale interesse; noi così pronti ad odiarci e ad usarci violenza, di fronte a questo Dio che si fa bambino, dobbiamo scegliere da che parte stare, se continuare a stare dalla parte di Erode che fa strage di innocenti oppure da quella di Giuseppe, di Maria e dei pastori che accolgono e amano. Non si può restare nel mezzo.

Ed ecco allora la seconda cosa che vorrei sottolineare. Il modo di fare di Dio nel Natale, ci mostra anche la strada che siamo invitati a scegliere; ci dice chiaramente come dobbiamo impiegare la nostra libertà: prendendoci cioè cura dei nostri fratelli, avendoli a cuore, senza paura di abbassare il nostro io egocentrico e presuntuoso. E’ semplice, ma quanto difficile capirlo e metterlo in pratica! Paradossalmente, pure la pandemia che sembra non volerci abbandonare, ci sta insegnando la stessa cosa: la situazione si migliora e se ne può uscire, soltanto prendendoci a cuore gli uni degli altri. Soltanto acquisendo, ognuno, un sempre più forte senso di responsabilità per il bene comune.

Il silenzio nascosto del Natale, ci dice anche che per percorre questa strada di giustizia e di pace, di verità e di amore, non occorrono sceneggiate e spettacolarità. Non occorre la grancassa. Non si tratta di apparire ma di essere. Ci vuole invece quell’impegno quotidiano e generoso che non viene meno se anche nessuno lo nota. Occorre la consapevolezza che le scelte di ciascuno di noi, quelle stesse che consideriamo private, tanto private poi non sono, perché sono tutte importanti per il bene comune, noi cristiani diciamo per l’edificazione del Regno di Dio. Pure questo lo stiamo apprendendo, seppur con fatica, nell’attuale frangente della storia: dalle scelte individuali dipende il bene della collettività e una libertà senza responsabilità è solo rovina di sé e della società.

Davanti al Natale del Signore dunque, davanti al presepe, abbiamo innanzitutto da ringraziare il buon Dio per questo suo modo davvero sorprendente di fare che ci mostra tutta la sua tenerezza e permette a noi di avvicinarci a Lui senza timore. Nello stesso tempo davanti al presepe impariamo anche quella che è la strada da percorrere, quella stessa percorsa da Dio, quella dell’autentica umanità: l’unica che ci apre già in terra le porte del Paradiso.




Solennità di Tutti i Santi (lunedì 1 novembre 2021)

Solennità di Tutti i Santi

Lunedì 1 novembre 2021

(messa in diretta Rai1)

 

Oggi splende il sole luminoso della festa di tutti i santi. Questa festa ci dà speranza, ci fa respirare a pieni polmoni aria fresca e pura.
La festa di tutti santi, da quelli più noti a quelli più sconosciuti, da quelli a noi più vicini, come San Giacomo Apostolo, di cui questa Cattedrale custodisce una preziosa reliquia fin dal 1145, donata dall’allora vescovo di Santiago di Compostela, fino a quelli più lontani da noi, ci fa contemplare la bellezza luminosa del Paradiso. Ci mette in contatto con quel mondo di gioia e di beatitudine che è la meta del nostro cammino terreno, oltre la morte.

È vero che abbiamo paura della morte, che il futuro ci mette ansia, che ciò che accadrà dopo la nostra morte ci inquieta nel suo mistero. E ciò che maggiormente inquieta è la prospettiva della solitudine, della perdita degli affetti, del rimaner soli. E’ vero.
Ma la risposta non è nell’esorcizzare la paura con la banalità e lo stordimento del divertimento, oppure col dare libero sfogo al nostro istinto vitale, oppure ancora sforzandosi di non pensarci considerando la morte un fatto naturale semplicemente da accettare. La risposta sta invece proprio nella festa di tutti santi, in quello che essa è e significa: la bellezza di una vita che vince la morte attraverso la potenza del Risorto e la luminosità di una comunione fraterna che supera lo spazio ed il tempo.

La visione dell’apocalisse ci fa comprendere infatti che il Paradiso è un fatto di comunione: di comunione piena con Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo e di comunione piena tra le persone, come ben si mostra nel canto corale che sale all’unisono dalla moltitudine immensa dei salvati. La beatitudine del Paradiso consiste proprio in questo, nella vita d’amore perfetto che relaziona gli uomini con Dio e tra di loro. Ed è beatitudine perchè l’amore è all’origine della creatura e ne è il fine. Raggiungere questo fine è gioia piena per l’uomo, superamento delle sue contraddizioni e paure, vittoria sulla morte. Nel Paradiso, la solitudine a cui il peccato conduce inesorabilmente è vinta perchè il peccato è stato lavato nel sangue di Cristo e l’uomo è finalmente se stesso nell’amore donato e ricevuto che lo lega per sempre a Dio e agli altri.

Ma in un certo senso, non c’è da attendere il Paradiso, perché già ora, proprio come ci insegnano i santi e i beati, si può vivere d’amore vero e quindi passare dalla morte alla vita, pregustando, pur in mezzo a tribolazioni, la gioia del Paradiso.
Lasciamoci allora, carissimi fratelli e sorelle, invadere dalla gioia che promana dalla festa di oggi e godiamo della compagnia di tanti gloriosi amici che, per volere di Dio, non sono solo in comunione tra loro nella gioia del paradiso ma anche in reale e concretissima comunione con noi. È la comunione dei santi quella che oggi in modo speciale sperimentiamo e che ci fa gioire. Tra noi e loro c’è comunione, c’è vicinanza, c’è partecipazione. Essi ci aiutano intercedendo per noi e ci accompagnano nel cammino della vita.
Lungo il sentiero della vita terrena, il cammino di santità è innegabilmente faticoso e crocifiggente. La via tracciata nel vangelo dal Signore Gesù col discorso delle beatitudini è esigente. Non si raggiunge la gloria se non passando attraverso la croce. E i nostri fratelli del Paradiso ce lo ricordano con la franchezza che è tipica di chi è amico per davvero e non di facciata. Essi non ci nascondono le loro ferite sanguinanti, i segni delle percosse ed i lividi delle umiliazioni ricevute, i loro corpi spesso straziati dalla cattiveria degli uomini o dalla fatica di un amore paziente che sa accettare in ogni cosa la volontà di Dio, anche quando risulti difficile da capire. Essi non ci nascondono niente e ci indicano la via dolorosa delle beatitudini.

Ma proprio essi ci dicono pure di non perderci d’animo, di non smarrirci nella prova, di non scoraggiarci. Essi ci invitano a non aver paura del dolore o di andare contro corrente. Ci invitano a non vergognarci di Cristo ma ad offrire con coraggio e mitezza la buona testimonianza di una vita vissuta secondo la legge di Dio. Ci spronano ad andare avanti nella fedeltà al Signore, nell’amore assoluto verso di Lui e nel servizio generoso al nostro prossimo. E di questo incoraggiamento, carissimi fratelli e sorelle, noi ne abbiamo davvero bisogno. Sentiamo che ci fa bene. E quindi diciamo grazie con tutto il cuore a Dio per il dono della compagnia dei santi, ma diciamo grazie anche a loro, ai santi, nostri confidenti ed amici: per la testimonianza che hanno dato mentre erano su questa terra e per gli insegnamenti e l’aiuto che continuano a darci dal cielo.




Inizio anno pastorale 2021/2022 (Domenica 24 ottobre 2021)

Inizio anno pastorale 2021/2021
Cattedrale di San Zeno (24 ottobre 2021)

 

«Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima». Con queste parole del Deuteronomio ascoltate nella prima lettura, ci viene chiarito quello che in sostanza la Chiesa universale, le chiese che sono in Italia e la nostra stessa diocesi stanno cercando di fare parlando – come sta accadendo in questo tempo – di Sinodo. Il 9 di ottobre il Santo Padre ha aperto il percorso sinodale della chiesa universale. Domenica passata, in tutte le chiese del mondo gli si è fatto eco con preghiere speciali. Oggi, giornata missionaria mondiale, anche noi, chiesa di Pistoia, ci mettiamo solennemente in cammino, inaugurando l’anno pastorale e con il mandato ai catechisti e agli altri operatori pastorali.

Se però non fosse chiaro l’obiettivo ultimo del Sinodo, tutto si risolverebbe in parole e carta straccia. In vani discorsi che non porterebbero a niente. Si tratta cioè di convertirci al Signore, obbedendo alla sua parola, e di farlo oggi, nel nostro contesto sociale; per essere la chiesa che il Signore vuole: sale del mondo, luce della terra, lievito di speranza, fontana di misericordia, ospedale da campo, testimone della risurrezione di Cristo, seminatrice dei semi di un mondo nuovo.  Per far questo, dobbiamo camminare insieme, ascoltandoci con attenzione l’un l’altro, condividendo doni e carismi, sostenendoci a vicenda e pregando insieme lo Spirito Santo. Dobbiamo ascoltare la voce dello Spirito che parla nelle Scritture, nella storia e nella voce dei poveri, dei bisognosi, degli ultimi, di tutti coloro che attendono, anche inconsapevolmente, la buona notizia del Regno di Dio che è Gesù morto e risorto.

Il nostro programma di lavoro per quest’anno è dunque presto detto (e lo trovate scritto nella lettera che viene distribuita oggi e che vi prego di diffondere anche nelle vostre parrocchie): Camminiamo insieme, alla scuola dell’apostolo Jacopo, pregando, ripensando e continuando ad amare. Per rispondere alla chiamata del Signore che ci vuole chiesa unita nell’amore e in uscita, protesa alla missione. Camminando insieme, cioè in modo sinodale e, soprattutto, con occhi, cuore e mente illuminati dalla speranza.

Grandi inquietudini stanno attraversando il mondo. Il tempo della pandemia ci ha profondamente segnati e continua a condizionare la nostra vita. Insieme a tante manifestazioni di generosità, anche il seme dell’incomunicabilità e della violenza sembra farsi strada tra di noi e la solitudine diventare una diffusa condizione esistenziale. I tempi appaiono parecchio difficili e anche dall’interno della Chiesa si levano voci allarmate e pessimistiche. Tuttavia, io resto fiducioso. Sono convinto che il nostro tempo ci offra tante opportunità per rinnovare la nostra vita cristiana ed annunciare la buona notizia del Regno di Dio che è Gesù. La società ha bisogno di oasi di pace. Di ambienti dove si respiri il rispetto, l’attenzione, la gioia dell’incontro e la comunione fraterna. E questa testimonianza forte e luminosa, come cristiani la possiamo e dobbiamo dare.

  1. Camminare insieme è dunque il primo impegno di quest’anno. Ciò vuol dire che dovremo porre ogni sforzo per incrementare la comunione fraterna e la collaborazione tra di noi ad ogni livello. Dobbiamo imparare a camminare insieme, condividendo di più la nostra vita, i nostri carismi e le nostre difficoltà. Anche a questo serve la recente riforma dei Vicariati. Giungono qui a proposito le parole dell’apostolo Paolo ai Filippesi nella seconda lettura di oggi: “…rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”.
  2. Ma Camminare insieme vuol dire “Sinodo”. Ecco allora la seconda cosa che mi preme dirvi stasera. Riprendo alcune parole del Santo Padre: “L’itinerario (sinodale) è stato pensato come dinamismo di ascolto reciproco…., condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio…… Non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (2,7). Avere orecchi, ascoltare, è il primo impegno. Si tratta di sentire la voce di Dio, cogliere la sua presenza, intercettare il suo passaggio e soffio di vita.” Queste le parole del Santo Padre. Occorre allora innanzitutto, capite bene, invocare tutti insieme e con insistenza lo Spirito Santo. E’ ciò che invito a fare spesso in parrocchia e personalmente.

Nel tempo dopo Pasqua, si avvierà una consultazione di tutto il popolo di Dio e oltre, la più ampia possibile: chiunque sarà invitato a manifestare le proprie attese, anche chi ormai non frequenta più la chiesa o non ha conosciuto ancora il Signore; particolarmente i giovani e i poveri che solitamente non hanno voce. Si tratterà di ascoltarci; prima di tutto per riscoprire insieme le risorse, i doni, i carismi e che lo Spirito santo ha riversato su di noi e sulle nostre comunità; poi, per cogliere le “attese di vangelo” presenti nella nostra società, cioè quelle situazioni personali e sociali che attendono, anche inconsapevolmente, la buona notizia del Regno di Dio.

La pagina del Vangelo proclamata poco fa, ci aiuta a capire che in fondo, col Sinodo non si tratta di fare cose, quanto piuttosto di fermarci a raccontare, a condividere, a riposarci insieme con il Signore. Il Sinodo è un riposare insieme, conversando con Cristo. Vorrei davvero, carissimi amici, fratelli e sorelle, che vedessimo il cammino sinodale non come un insieme di cose da fare, bensì come uno stare a riposarci insieme a Gesù, condividendo la nostra vita e la vita delle nostre parrocchie e acquisendo lo sguardo pieno di amore di Gesù sul mondo. Si tratta cioè di imparare a vedere il mondo e le persone come le vede lui, cogliendo i bisogni che esse hanno per rispondervi, con cuore compassionevole: ”Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”.

  1. Termino con un riferimento specifico all’apostolo San Giacomo: Continuiamo infatti l’anno giubilare fino al 25 luglio dell’anno prossimo. La testimonianza di San Jacopo, amico del Signore, apostolo missionario e martire della fede, nonché quanto il suo culto ha espresso nella nostra città e nel mondo, con particolare riferimento al cammino e al pellegrinaggio – soprattutto ora che vogliamo camminare insieme per il sinodo – devono essere ancora oggetto della nostra attenzione, preghiera, riflessione. Non ci si dimentichi inoltre di “continuare ad amare.  Sulla scia della tradizione jacobea, dobbiamo incrementare l’impegno di accoglienza e di vicinanza a tutte le situazioni di disagio economico, di solitudine, di malattia, di sete spirituale e comunque di umana povertà presenti nel territorio. Come “opera segno” dell’anno giubilare ricordo a tutti di aver indicato il progetto “Unica”: la realizzazione cioè di un servizio specifico di prossimità per le donne in difficoltà, anche come piccola, ma credo significativa risposta al terribile fenomeno del femminicidio.

Carissimi amici e fratelli, sentiamoci davvero popolo di Dio, perché lo siamo realmente non per nostro merito: un popolo che cammina insieme. Dall’Abetone alla valle dell’Arno, dalle zone pratesi fino a Serravalle, siamo una sola chiesa, un popolo di fratelli e sorelle chiamato a testimoniare al mondo la vita del mondo che verrà. Avanti, dunque, in letizia di cuore e intrepido coraggio.

 

 




Giubileo delle Diocesi toscane – Cattedrale di San Zeno (19 settembre 2021)

Giubileo delle Diocesi toscane

Cattedrale di San Zeno (19 settembre 2021)

 

La presenza dei vescovi toscani – e vi ringrazio davvero di cuore per essere qui come ringrazio anche chi non è potuto venire qui ma si è fatto presente con l’affetto e la preghiera – la presenza, dicevo, dei vescovi toscani in questa Cattedrale stasera, manifesta una mirabile continuità con quanto già secoli fa e precisamente nel 1145 si andava affermando come una novità di rilievo per l’intera chiesa toscana e per la cristianità. Papa Eugenio III, pisano, proprio in quell’anno, all’indomani dell’arrivo della reliquia di San Giacomo Apostolo a Pistoia, con due brevi pontifici si rivolgeva ai vescovi di Fiorenza, Lucca, Volterra, Siena e Luni con queste parole: “Crediamo sia giunto a vostra conoscenza quali e quanti insigni miracoli il Signore Onnipotente abbia voluto presentemente mostrare per i meriti del santo apostolo Jacopo presso il suo santo altare nella chiesa di Pistoia; ragion per cui i fedeli di diverse e remote parti della terra mossi dalla devozione hanno iniziato a recarsi al medesimo sacro luogo e  a chiedere rimedi per la propria salvezza.” Subito dopo chiedeva ai presuli toscani di non ostacolare ma anzi di invitare a tale devozione, tutelando i pellegrini che si sarebbero recati a Pistoia, concedendo inoltre il dono dell’indulgenza ai devoti visitatori della reliquia.

Noi oggi siamo qui, a rappresentare le chiese di toscana, sulle orme di chi ci ha preceduto nel segno della fede. Ad accogliervi, cari confratelli, non c’è il grande sant’Atto. Ci sono soltanto io, suo veramente indegno successore. Consapevole di questo, mi voglio mettere con voi umilmente alla scuola dell’apostolo Giacomo il maggiore. Credo che abbia da insegnarci ancora tanto. Le Scritture della liturgia ci guidano nella nostra riflessione.

Innanzitutto, possiamo pensare a Giacomo come ad un amico di Gesù. Gesù lo volle sempre con sé, insieme a Giovanni e a Pietro. Accanto a Gesù, lo troviamo in due momenti fondamentali della sua vita: quello della trasfigurazione sul monte e quello dell’agonia nel Getsemani. Significativamente, come ci ricorda il libro degli Atti, fu anche il primo degli apostoli a versare il sangue per Cristo. L’amicizia profonda di Jacopo con Cristo ci richiama allora a quello che è il rapporto fondamentale di ogni cristiano: quello cioè con Cristo, via, verità e vita. E’ questo rapporto, questa relazione, che ci costituisce come cristiani. Non una ideologia, non una morale, non una teoria. La relazione viva e profonda con Cristo è ciò che determina l’essenza dell’esperienza cristiana. Un incontro, una relazione che è amicizia, che è amore, che è uno stare con Gesù per imparare da Lui ed essere guidati da Lui.  L’identità cristiana sta in questa relazione che è salvezza. Se non lo si capisce e non la si vive, il cristianesimo diventa un’altra cosa ed è come il sale che perde il suo sapore. Ce lo ricordava anche il Santo Padre nel discorso al convegno di Firenze che resta un punto di riferimento essenziale per il cammino delle nostre chiese in Italia. Diceva Papa Francesco: “Nella cupola di questa bellissima Cattedrale di Firenze è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’ è Gesù, nostra luce. L’ iscrizione che si legge all’ apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato, nel Cristo assiso sul trono del giudice (…) Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’ uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita o segnata dal peccato. (…) Lasciamoci dunque guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo”.

Queste mirabili affermazioni, non possono essere dimenticate, perché sono parte integrante di tutto il discorso di Firenze.

Oltre a quanto detto finora, credo che possiamo guardare a Jacopo anche come testimone di un cammino. Di un cammino interiore, innanzitutto. Un cammino di conversione. Un cammino che ha condotto l’apostolo ad acquisire lentamente la mentalità di Cristo, superando limiti e grettezze di cuore e di mente. Da questo punto di vista, il racconto evangelico che abbiamo ascoltato è emblematico. La richiesta della madre di Giacomo e Giovanni al Signore – per l’evangelista Marco, la richiesta però è fatta direttamente dai due apostoli, come ad indicare che Maria Salome interpretava il desiderio stesso dei suoi figli – questa richiesta rivela quanta strada ancora debba fare Giacomo per essere davvero discepolo del Signore. La ricerca del potere e del prestigio, mostra Giacomo ancora come quell’uomo vecchio di cui, alla scuola di Cristo, lentamente si liberò, fino ad arrivare alla testimonianza suprema del martirio. Un cammino dietro a Cristo che apre il cuore, che schiude il cuore alle necessità dei fratelli e quindi alla missione apostolica. Non è quindi un caso se proprio attorno a San Jacopo sia sorta dall’VIII secolo, una forte spinta al cammino. Fisico si, ma anche sempre spirituale ed interiore. Il bastone che l’iconografia mette in mano a San Jacopo, come le altre insegne del pellegrino su di lui, indicano esattamente tutto questo. E il cammino jacobeo è stato da sempre caratterizzato dall’accoglienza, dal servizio, dalla carità. Come ebbe a dire Benedetto XVI in una udienza pubblica nel giugno del 2006: “Alla fine, di San Giacomo possiamo dire, che il cammino non solo esteriore ma soprattutto interiore, dal monte della Trasfigurazione al monte dell’agonia che egli ha compiuto, simbolizza tutto il pellegrinaggio della vita cristiana, fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio. Seguendo Gesù come san Giacomo, sappiamo, anche nelle difficoltà, che andiamo sulla strada giusta.”

L’ultimo insegnamento che ci viene da San Jacopo, e ce lo ha ricordato la seconda lettura tratta da San paolo, è rappresentato dal libro dei vangeli che l’iconografia mettere tra le mani di San Giacomo. Egli è un apostolo, inviato dal Signore ad annunciare la buona notizia del Regno; egli porta il tesoro del vangelo pur essendo un vaso di creta. Secondo la tradizione, anche se difficilmente verificabile, Jacopo si mosse fino ai territori della Spagna. Sicuramente predicò a Gerusalemme e in Samaria. Certamente, fu a causa di questa predicazione che ricevette la morte per mano di Erode. E’ presumibile si trattasse di una predicazione forte e decisa, molto incisiva, se Erode decise di mettere a morte Giacomo e non Pietro. Del resto, il nomignolo attribuito da Gesù a Giacomo e Giovanni, quello cioè di boanerghes, figli del tuono, farebbe pensare proprio ad una certa irruenza di carattere.

Credo che noi oggi, come chiesa e come pastori, si debba imparare da Giacomo questa parresia, nell’annuncio cristiano. Il tempo dei rapidi cambiamenti in cui siamo immersi, le incertezze che viviamo, gli orizzonti culturali così fluidi e inediti, ci possono forse spingere a tacere, intimiditi e quasi tentati di rinchiuderci in noi stessi, timorosi. Non è questo però lo stile dell’apostolo. Non può essere questo lo stile di una chiesa che ha tra le sue caratteristiche quella di essere “apostolica”. L’annuncio cristiano è atto d’amore che noi dobbiamo all’umanità. Anche se si tratta di un amore forte e non sempre facile da accogliere. Esso certamente non può non accompagnarsi dalla concretezza dei gesti di amore che vengono incontro ai bisogni degli uomini. Ma comunicare il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa che vale più di tutto, pur se esigente e critico nei confronti delle presunzioni del mondo, resta l’atto più grande della carità. Abbiamo bisogno urgente della parresia degli apostoli. Abbiamo urgente bisogno della parresia di San Giacomo. Anche per questo siamo qui, stasera, a venerare la reliquia del suo corpo martirizzato. Per essere chiesa non muta ma che testimonia e parla con coraggio e sempre per amore.




Messa Crismale (13 maggio 2021)

S.Messa crismale
Cattedrale 13 maggio 2021

«Lo Spirito del Signore è sopra di noi, per questo il Signore ci ha consacrati». Lo abbiamo sentito. È stato detto solennemente. Questa è la verità che ci caratterizza. È la nostra realtà. Lo Spirito del Signore è sopra di noi e ci ha consacrati, resi cioè partecipi della vita divina.
Una verità che stasera dobbiamo richiamare alla memoria ed esserne grati: lo Spirito santo ha inondato e inonda con la sua luce e la sua forza le nostre vite, la chiesa intero, il mondo. Vorrei soffermarmi ora proprio su questa verità da riconoscere.

Innanzitutto lo Spirito del Signore è sopra le nostre povere vite, dentro di noi e dentro la nostra realtà diocesana. Nonostante molte volte ci possa sembrare il contrario, perché tante sono le nostre inadempienze e i limiti della nostra realtà diocesana. Non ci vuol molto, carissimi amici, a vedere tutte le nostre fragilità e debolezze. Quanto siamo lontani dall’essere un cuor solo e un’anima sola sia a livello di presbiterio che più in generale fra tutti noi e quanto manchevoli sono le nostre parrocchie e associazioni! Dobbiamo fare i conti con stanchezze, perdite di motivazioni, demoralizzazioni per le circostanze indubbiamente avverse che sperimentiamo.
Eppure, lo Spirito del Signore è su di noi e ci consacra, nonostante tutto. In effetti, come non vedere anche tanti frutti dello Spirito in mezzo a noi? Nel cuore generoso di tante persone e famiglie; nella dedizione amorosa di molti che hanno mantenuta accesa la fiaccola della comunità parrocchiale, del catechismo, della carità. Un servizio, quello della carità, davvero bello e molto diffuso nella nostra Diocesi. Non mancano entusiasmo, gioia, testimonianze semplici ma al tempo stesso luminose di fede, di speranza, di carità. Sì, lo Spirito santo è su di noi.

Ma Egli è anche sull’intera Chiesa cattolica. È indubbio che essa sia oggi battuta da pericolosi e agitati venti. Sperimentiamo un pluralismo di idee e prassi, a volte sconcertante. Ci sono gruppi e persone che si schierano apertamente contro il Santo Padre, delegittimandone addirittura il ruolo. Oppure constatiamo con tristezza l’allegra disobbedienza di alcuni che vorrebbero ugualmente continuare a dirsi cattolici. Inoltre, la chiesa universale porta ancora le ferite degli abusi commessi dal clero e degli scandali finanziari.
Eppure, anche qui, nonostante tutto, lo Spirito del Signore è sulla chiesa, la anima e la fortifica pur in mezzo alle tempeste. Opera senza stancarsi. Come non vedere infatti all’opera lo Spirito Santo di Dio nella innumerevole schiera dei martiri che hanno irrorato e irrorano anche oggi la terra con il sangue che è seme di speranza? Mai nella storia della Chiesa, neppure nei primi tre secoli, la chiesa ha subito persecuzione e martirio come ai nostri giorni. E come non vedere il sorgere sempre più consistente della chiesa nell’Asia con prospettive di sofferto ma straordinario sviluppo? E questa è testimonianza della potenza dello Spirito Santo.

Lo Spirito del Signore è infine anche sul mondo intero, sulla intera umanità. Pure in questo caso i drammi della nostra umana miseria morale e materiale sono piuttosto pesanti. Continuano guerre e violenze. Proprio in questi giorni assistiamo all’accendersi di una terribile guerra proprio nelle terre di Gesù. E poi c’è stata e c’è ancora la pandemia che ci ha buttato a terra, uccisi, abbattuti. Che ci ha fatto sentire, tutti, in ogni parte del mondo, fragilissimi e sottoposti a pericoli gravi. E anche se ora si intravvede una certa luce in fondo al tunnel, rimaniamo nell’incertezza e con la paura che possa sempre accadere qualcosa di simile, di fronte al quale trovarci ancora una volta impreparati.

Eppure, anche qui, lo Spirito del Signore è su di noi e spinge perché questa situazione di crisi globale sia occasione per cambiare il mondo, per rinnovare la società e renderla più umana. L’opera dello Spirito Santo ci fa comprendere sempre di più quanto sia necessario e indispensabile prendersi amorevolmente cura gli uni degli altri. Quanta generosità è emersa in questo tempo e quanta voglia di riprendersi! Siamo stati certamente costretti a rivedere tante cose, anche nella nostre parrocchie – è vero. Pure la celebrazione di stasera è il segno dello scombussolamento prodotto da questi tempi difficili. Ciononostante, lo Spirito Santo ha soffiato e soffia e da Lui siamo stati spinti a rivedere in positivo tante cose anche nelle nostre parrocchie, a ritrovare l’essenziale della vita cristiana e le motivazioni più profonde del nostro agire.
Dunque si, lo Spirito del Signore è sopra di noi e sopra la nostra realtà, sopra la Chiesa universale e sul mondo intero. Lo riconosciamo e lo ringraziamo per la sua instancabile opera.
Fermarci però qui sarebbe sbagliato. La parola di Dio ci rivela quella che deve essere la nostra missione e il nostro impegno: lo Spirito del Signore è sopra di noi e ci ha consacrati infatti per «portare il lieto annuncio ai poveri, proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista a rimettere in libertà gli oppressi».
È la missione di Gesù. Quello che Lui ha fatto. Ci viene chiesto di condividerla e farla nostra. Ecco dunque delineato il nostro compito, confidando nella forza dello Spirito. Una missione che riguarda tutti i battezzati, indistintamente. In particolare però noi sacerdoti, chiamati ad essere modello del gregge. Non scoraggiamoci allora carissimi amici! Lo Spirito Santo ci ha scelti. Impegniamoci piuttosto e a fondo! Diamoci da fare per raggiungere ogni persona, accompagnando con affetto ogni persona. Andiamola a cercare. Dobbiamo proclamare a tutti e a ciascuno, speranza, salvezza, liberazione. Sforziamoci di incontrare le persone, tutte, anche quelle che sembrano più lontane. Non per fare proselitismo. Non per attrarla a noi, legarla a noi o far numero! Guai se agissimo così anche solo inconsapevolmente! Invece, per avvicinarla a Cristo e alla chiesa e poi noi metterci subito all’ultimo posto.

E in questo impegno verso ogni uomo che la parola di Dio ci ricorda, la benedizione degli oli santi mi pare indicare anche verso chi dirigersi in particolare: con l’olio dei catecumeni, sono soprattutto le famiglie che dobbiamo avvicinare e coinvolgere; con l’olio degli infermi, si indicano particolarmente i malati e gli anziani. Infine, con il sacro Crisma, ci vien chiesto di rivolgere l’annuncio del vangelo e la cura pastorale, specialmente alle nuove generazioni, ai giovani, perchè scoprano la loro vocazione nel mondo e magari quella del servizio nel ministero sacro.

Sottolineo dunque queste tre attenzioni per la nostra chiesa: esse dovranno sicuramente trovare debito spazio nel cammino sinodale che abbiamo iniziato ma per forza un po’ interrotto ma che ora intendiamo riprendere in modo deciso: le famiglie, i malati e gli anziani, i ragazzi e i giovani. Lavoriamo molto su questi tre versanti. Facciamo in modo che la nostra fantasia pastorale inventi nuove modalità e forme per accompagnare nel cammino della vita le famiglie, i malati e i giovani. E mentre questa sera benediciamo gli oli santi, pensiamo e preghiamo proprio per tutti coloro a cui questi oli santi sono destinati.

E lasciamo infine, carissimi fratelli e sorelle, che il dolce profumo del Crisma ci invada come “olio di letizia” e preghiamo accoratamente con le parole dell’orazione dopo la comunione: Concedi, Dio onnipotente, che, rinnovati dai santi misteri, diffondiamo nel mondo il buon profumo di Cristo.




In morte di Luana

In morte di Luana

(Spedalino Asnelli, Chiesa di Cristo Risorto – 10 maggio 2021)

 

È una lunga, lunghissima litania quella dei morti sul lavoro. È una litania che si allunga ogni giorno senza arrestarsi. Due, tre vittime al giorno. Qualcosa di inaudito. Di inaccettabile.

Ora siamo qui attorno al corpo straziato di Luana. La sua storia ha commosso l’intero paese. Ma il suo corpo straziato è qui a nome di tutti gli altri corpi straziati ogni giorno sui luoghi di lavoro. Viviamo purtroppo in un mondo in balia delle emozioni che si accendono e si spengono in un attimo; in un mondo che vive sull’onda dell’immediato, condizionato spesso dai mezzi di comunicazione. E tutti siamo subito distratti da mille altre cose che facilmente finiscono per giustificare la nostra inerzia.

Luana e tutti gli altri, oggi però stanno qui, in piedi davanti a noi: ci guardano, ci osservano e ci chiedono conto: ci dicono che non bastano le emozioni forti, non basta che ci commuoviamo per un momento: occorrono impegno e responsabilità, concretezza, determinazione e scelte coraggiose; occorre che le cose cambino.

Dio, per parte sua, sa compensare oltre ogni misura tutte le vittime innocenti della storia, quelle che la storia fatta dagli uomini produce in misura enorme. Dio sa come dare pienezza di vita a chi non è riuscito ad averla quaggiù sulla terra. Sa come soddisfare i sogni più belli che ogni vittima innocente porta nel cuore e che anche Luana portava dentro di sé. Lui sa asciugare le lacrime, curare le ferite, colmare con il suo infinito amore ogni vuoto. Lo abbiamo ascoltato poco fa dal libro dell’Apocalisse: abbiamo ascoltato la promessa di cieli nuovi e terra nuova in cui abita la giustizia; la promessa di una città santa tutta splendore di bellezza, dove “Egli asciugherà ogni lacrima e dove non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”.

Ma ciò che Dio promette e compie, non ci esime dal prendere oggi qui le nostre responsabilità, davanti ai nostri fratelli e alle nostre sorelle morte sul lavoro. Anzi: Dio stesso insieme ai nostri fratelli morti, ci chiede di rendere questa la terra migliore, ogni giorno di più. E finchè non ci saremo riusciti, non abbiamo il diritto di riposarci. La certezza dei cieli nuovi e delle terre nuove promessi da Dio, ci spinge con forza a fare nuovi i cieli e la terra che abitiamo nella storia.

Allora ci dobbiamo lasciare inquietare dallo sguardo di tutti i morti sul lavoro, da quegli occhi che oggi ci fissano. Vorremmo abbassare i nostri, per la vergogna. Non possiamo farlo. Dobbiamo lasciarci guardare. Non ci guardano con odio e risentimento ma, nonostante tutto con amore. Il loro sguardo è supplica, accorata supplica, insistenza, stimolo, pressione esigente perché non capiti più quello che è accaduto a loro; perchè cambiamo il nostro modo di vivere e di organizzare la società.

La nostra società, il nostro mondo infatti, così com’è oggi, non va. Se non c’è lavoro e lavoro per tutti, vuol dire che le cose non vanno bene. È inutile girarci intorno. Se il lavoro non è dignitoso, rispettoso della dignità della persona umana, se non è  libero, creativo, partecipativo e solidale e adeguatamente remunerato, la società non è buona. Soprattutto se ancora oggi, nel 2021, si muore sul lavoro con la frequenza che registriamo, proprio no: qualcosa non va, molto non va. Le cose devono cambiare. Aldilà di ogni schieramento politico. Dobbiamo cambiare questo inaccettabile stato di cose!

L’odierna celebrazione è certamente innanzitutto accompagnamento alle porte del cielo della nostra carissima Luana; sostegno e conforto nella fede per la sua famiglia e il piccolo suo bambino. Col pianto nel cuore ma con tanta fiducia nel Signore, ci stringiamo attorno alle spoglie mortali di Luana per accompagnarla alle porte di quella Gerusalemme celeste che è la nostra vera patria. Queste esequie sono la celebrazione della Pasqua del Signore, di colui che ha detto “io sono la risurrezione e la vita”.

Nello stesso tempo però queste esequie non possono non essere anche una corale richiesta di perdono a Luana, a tutti i morti sul lavoro e a Dio stesso. Non possiamo non chiedere perdono, sinceramente, dal profondo del cuore per questa come per tutte le altre morti. Perché queste cose non dovevano succedere. E se sono successe, la responsabilità, in qualche modo è di tutti. Forse in misura diversa e per questo giustamente la magistratura deve fare il suo corso. Ma tutti quanti portiamo il peso di queste morti ingiuste, indegne, delittuose.

Chiedere perdono non è mai un gesto facile e a buon mercato. Per essere sincero, deve produrre conversione, cambiamento di vita e di prassi, rinnovamento della vita sociale, perché queste morti non capitino più. È necessario acquisire da parte di tutti, una mentalità, uno stile di vita nuovo: cioè una cultura della solidarietà, della cura, del primato del bene comune su quello individuale. È necessario un cambiamento culturale che anche questa triste pandemia ci dovrebbe aiutare a fare, quando abbiamo sperimentato l’importanza di prendersi cura l’uno dell’altro, unica via per risolvere i nostri problemi. Prendersi cura l’uno dell’altro, considerare l’altro una persona con una dignità inalienabile e intaccabile, mai un mezzo, mai un oggetto, mai uno strumento; mettersi al servizio del bene comune e impiegare risorse per far questo, nella convinzione che a rendere la società migliore, più umana, non ci si rimette ma ci si guadagna tutti: ebbene, questa è la cultura di cui abbiamo bisogno sia nel privato come nel pubblico.

E qui ecco allora la straordinaria forza delle parole evangeliche ascoltate poco fa: avevo fame, avevo sete, ero nudo, malato, straniero, dice il Signore e mi siete venuti incontro. Avevo fame, sete, ero nudo, malato, straniero e vi siete invece voltati dall’altra parte. Sull’attenzione all’altro si compie il giudizio finale di Dio sull’intera storia umana. Questa pagina evangelica non è un manuale di buone maniere. Non è un invito generico a fare un po’ di bene. Non è nemmeno una parola per i soli credenti. No. È una parola per tutta l’umanità, per il mondo e per la coscienza di ogni uomo. È una parola per il rinnovamento profondo dell’umanità. È un manifesto di rivoluzione culturale e sociale. Sono parole che se messe in pratica in ogni ambito della vita, renderebbero impossibili le morti che ora piangiamo.

Lasciamoci così allora oggi. Con queste parole che risuonano forti dentro di noi e che ci spingono all’impegno. Non aggiungiamone altre. Sono le parole di Cristo per noi. Ma sono anche le parole per noi di Luana e di tutti coloro che sono morti sul lavoro.




Domenica delle Palme 2021

Domenica delle Palme

(28 marzo 2021 – Cattedrale di San Zeno)

 

Con la Domenica della Palme inizia la Settimana Santa. Un tempo, quello della Settimana Santa, nel quale facciamo memoria innanzitutto della Passione di Gesù Cristo. Siamo condotti prima di tutto a guardare a Lui e a ripercorrere gli avvenimenti che lo portarono alla morte in croce e alla sepoltura. In questi giorni riviviamo la passione di Gesù, l’incomprensione che lo avvolse, la cattiveria, il tradimento, la cattura, il falso processo e poi le percosse, gli insulti, infine la crocifissione. Riviviamo l’abbandono dei suoi amici, il rinnegamento e le battiture, terribili, della frusta prima e poi dei chiodi. È la passione di Cristo. Dolorosa Passione da contemplare e davanti alla qual commuovere il cuore.

In questa Settima però possiamo vedere anche, nella passione di Cristo, compendiata la passione dell’intera umanità, dall’inizio dei tempi fino ai nostri giorni. Anche l’umanità nella storia vive una passione drammatica. Il fratello uccide il fratello; dovunque sangue, violenza, oppressione e morte. Quante volte è stata calpestata la dignità dell’uomo. Quante volte l’uomo ha infangato l’immagine divina che porta scolpita in se stesso. La storia dell’umanità è davvero una passione, nella quale i giusti, gli onesti, i buoni pagano sempre un prezzo altissimo.

Infine, possiamo vedere in questa settimana santa, anche il tormento che oggi il mondo vive a causa della pandemia che ci ha colpito. È una passione anche questa, quella che viviamo di questi tempi. In questa Settimana non possiamo non riandare con la mente e col cuore ai tantissimi che sono morti a causa del virus o che sono nelle terapie intensive, negli ospedali o a casa isolati. Non possiamo non pensare al nostro paese ma anche agli altri paesi e alle popolazioni del mondo più indifese sulle quali la pandemia ha un effetto davvero devastante.

Una settimana di passione dunque. Sì. Per rivivere la passione di Cristo, renderci conto della passione dell’umanità e dell’uomo, partecipare alla passione di questo momento del mondo.

 

Però la Settimana Santa non finisce con il sabato. Essa sfocia nella domenica. Per questo, la Settima Santa è anche una settimana di speranza. E noi dobbiamo vivere questa settimana di passione, la passione di Cristo, dell’umanità e dell’uomo e di questo triste tempo, con la certezza nel cuore che la luce della domenica, della Risurrezione e dell’amore è più forte di ogni oscurità.

La passione di Cristo non termina con la chiusura del suo corpo esanime nel sepolcro. No. Essa si apre al sepolcro vuoto e alla pietra rotolata via del mattino di Pasqua. La passione e la morte di Cristo sfocia nella sua risurrezione che è speranza per ogni creatura.

Per questo anche la passione dell’umanità nella storia, la passione dell’uomo, si apre alla certezza che il Regno di Dio non viene meno. Esso avanza nel tempo e si compirà in pienezza perchè tutta la storia è nelle mani di Dio e ci saranno quindi cieli e terra nuovi in cui abita la giustizia.

Così, la passione che stiamo vivendo a causa di questo virus, cesserà anch’essa, non c’è alcun dubbio. Non dobbiamo farci vincere dallo scoraggiamento. Passerà  e, siamone certi, si apriranno prospettive nuove e opportunità belle che speriamo solo, possano essere afferrate per migliorare la nostra vita e il mondo.

Viviamo dunque questi giorni santi immersi dentro la passione. Sentiamone il dolore e persino l’angoscia. Però guardiamo anche oltre. Lasciamoci illuminare dalla luce della Pasqua. Facciamo in modo che la potenza delle Risurrezione rischiari la passione e ci dia speranza per riprendere con gioia e fiducia il cammino del tempo.




Omelia per la celebrazione di Apertura della Porta Santa e dell’Anno Santo Iacobeo (9 gennaio 2021)

Anno Santo Iacobeo 2021
Omelia per la celebrazione di Apertura della Porta Santa e dell’Anno Santo Iacobeo

(9 gennaio 2021)

Nel giorno in cui si ricorda il Battesimo del Signore nelle acque del Giordano, diamo inizio all’anno santo in memoria dell’apostolo San Giacomo il Maggiore, di cui, fin dal 1145 si conserva in questa Cattedrale una reliquia del suo corpo, proveniente direttamente da Santiago di Compostela in Spagna, dono prezioso del vescovo del tempo di quella città al Santo Vescovo Atto di Pistoia. Apertosi a Santiago, come da tradizione, il 31 dicembre, in comunione con quella Chiesa, per concessione del Santo Padre Francesco, abbiamo anche noi in questa città, questa sera, dato avvio a quest’anno di grazia, con il suggestivo e significativo rito dell’apertura della porta santa: segno della misericordia, la porta si apre ad accogliere chiunque cerchi ristoro per la sua vita, sollievo per la sua anima, energia per ricominciare a sperare, forza per continuare a lottare per la giustizia e la pace, riprendere il cammino della vita verso la patria eterna del cielo.

Davanti ai nostri occhi questa sera è la scena di Gesù che si presenta a Giovanni Battista per essere battezzato. E’ insieme a tutti coloro che, mossi dall’invito alla penitenza del Battista, sono in. Attesa di essere immersi nelle acque del fiume Giordano. Gesù è insieme agli altri, insieme ai peccatori. E’ venuto nel mondo per servire, non per essere servito. Egli è l’agnello innocente che porta su di sé il peccato degli uomini. Con divide la sorte dei peccatori. Non si distingue in niente da essi e come un peccatore, nonostante la riluttanza di Giovanni il Battista, si fa battezzare, compiendo un gesto che indica il caricarsi sulle spalle di tutti i peccati degli uomini. Dal cielo una voce n misteriosa conferma che quello è il Figlio unigenito del Padre inviato proprio per riscattare i prigionieri dalle catene del male, rinnovare la vita, a dare speranza all’umanità, infondere amore laddove regna spesso l’odio e il rancore.

Le acque del giordano ricevono il Cristo, Colui che è senza peccato e ricevono in quel momento la forza per santificare gli uomini e farli nuovi. Esse prefigurano le acque del battesimo che fanno rinascere gli uomini alla vita divina di figli di Dio.

Gesù da così inizio alla sua missione redentrice, condividendo la sorte dei peccatori e aprendo un cammino di speranza e di vita nuova per coloro che si affidano a lui.

Poco dopo, Giacomo insieme ad altri uomini, sarà chiamato a seguire il Signore, ad iniziare un cammino dietro di lui verso una vita nuova. Sarà chiamato ad essere pescatore di uomini insieme al fratello Giovanni, ad assumere cioè la stessa missione del Figlio di Dio, manifestatosi nelle acque del Giordano.

L’anno santo che abbiamo aperto stasera lo celebriamo nella memoria proprio di lui. L’apostolo San Giacomo il maggiore è un nostro fratello e amico. In lui abbiamo un grande testimone della fede, fino all’effusione del sangue. Egli fu infatti il primo degli apostoli a subire il martirio, ucciso di spada per le mani del re Erode, come ci dice il libro degli Atti. Fratello di Giovanni l’evangelista, fu pronto a lasciare le reti quando il Signore Gesù lo chiamò sulle rive del lago di Tiberiade per divenire pescatore di uomini. Spesso fu con Gesù nei momenti salienti della vita del salvatore e imparò da Lui, la via dell’umiltà e del servizio. Un’antica tradizione dice che sia andato fino in Spagna a portare il Vangelo, secondo il mandato apostolico ricevuto da Gesù di andare fino ai confini della terra.

Discepolo fedele di Cristo, membro del collegio apostolico, evangelizzatore, testimone di amore con il dono della propria vita: sono tanti i motivi per sentirci onorati di avere un così nobile e grande patrono. Non va dimenticato poi il forte richiamo alla carità che il culto iacobeo porta con sé: infatti, dopo il ritrovamento dei resti mortali dell’apostolo a Compostela, si sviluppò un vasto movimento di pellegrini che portò a quella singolare pratica dell’ospitalità e dell’accoglienza che fece fiorire ospizi, ospedali e luoghi di servizio e carità un po’ dovunque, lungo le antiche vie di comunicazione. La nostra città si onora di averlo da secoli come speciale patrono.

L’anno Santo iacobeo si celebra in un tempo davvero particolare e molto critico. La pandemia è stata la sorpresa di questo tempo. Ci ha costretto e ci costringe a ridimensionare i progetti, anzi direi quasi ad azzerarli. Dovremo per forza di cose ridurre le manifestazioni esterne. Ciononostante, proprio di questi tempi, credo che celebrare un anno santo sia qualcosa di provvidenziale. Con la pandemia siamo stati messi di fonte al dolore, alla morte, alla nostra umana impotenza e insieme grandezza; siamo spinti a guardare alle sorti del mondo e al futuro che vorremmo. Tutto questo ci costringe ad entrare più in profondità nelle cose, a guardare dentro noi stessi, a ripensare a tutta la nostra vita. E forse è proprio questo il senso di un anno santo.

Questo anno può essere allora davvero un tempo di ripensamento interiore; un tempo cioè di conversione; per riporsi le domande di fondo sulla vita; un tempo anche di potatura sicuramente, per buttar via il superfluo e tutte quelle incrostazioni che le nostre debolezze e i nostri peccati ci lasciano addosso; un tempo anche per riscoprire il valore del prossimo e per comprendere sempre di più che è solo nell’amore che si salva il mondo, imparando a prenderci concreta cura l’uno dell’altro e insieme, della casa comune; un tempo infine anche per imparare a condividere le tante sofferenze che questa pandemia ha portato e sta portando alla luce.

Per la chiesa di Pistoia, si tratta di una grande occasione per rimettersi in cammino. Non ci siamo fermati in questi anni, però ora è giunto il momento di fare il punto per ripartire con un nuovo impegno e la speranza nel cuore. Un anno santo dunque per rinnovare il nostro rapporto col Signore nell’ascolto più attento della sua Parola, con una preghiera più vera e autentica. Un anno per ripensare tante cose della vita delle nostre comunità, per radicarci sull’essenziale e diventare sempre più una chiesa che è lievito di speranza dentro la pasta del mondo.

Per la città di Pistoia, credo sia l’occasione per riscoprire le proprie radici, quelle che hanno segnato la sua storia, conoscere quindi più se stessa e scoprire la bellezza di una maggiore coesione per affrontare i problemi economici e sociali dell’oggi. Un anno anche per riprendersi e ritrovare fiducia.

Con San Giacomo dunque ci mettiamo in cammino. Egli il primo apostolo a dare la vita per Cristo, ci richiama alla fedeltà e al coraggio nel seguire Cristo, via, verità e vita e in Cristo la giustizia e la verità. Come apostolo, andato in missione, forse anche in Spagna, secondo un’antica tradizione, muovendosi dalla sua terra, può insegnare all’uomo di oggi a non aver paura dell’ignoto ma ad avere il coraggio di cercare, di andare e di non arrendersi mai anche di fronte alle situazioni più difficili della vita. Come culto concretizzatosi nei secoli, la figura di San Giacomo ci parla di cammino, del camminare, dell’essere pellegrini. E quanto è importante per l’uomo di oggi riconoscersi come un pellegrino e un viandante! E quanto è importante per ognuno di noi aprirsi all’accoglienza degli altri, viandanti e pellegrini come noi su questa terra!

Quest’anno vogliamo dunque compiere davvero un cammino. Non solo esteriore ma soprattutto interiore che, alla scuola dell’apostolo Sant’Jacopo ci faccia “pregare, ripensare e continuare ad amare”. Che ci faccia innanzitutto pregare di più e più intensamente, ascoltando con maggiore attenzione la parola di Dio e invocando con convinzione il dono dello Spirito Santo; che ci faccia anche ripensare a tutta la nostra vita e al nostro modo essere e di rapportarci con Dio, con gli altri, col mondo e con noi stessi; infine che ci permetta di continuare ed approfondire il nostro amore per il prossimo, spingendoci alla intercessione per i fratelli e le sorelle del mondo e al servizio generoso e disinteressato del nostro prossimo.

Allora, carissimi fratelli ed amici: ultreya! “Più avanti”, “sempre oltre”. Con l’antico e caratteristico grido dei pellegrini di San Jacopo, camminiamo insieme e andiamo avanti nella via della giustizia, della verità e dell’amore.

 




Natale – Messa della Notte 2020

Natività di nostro Signore

Messa della notte, 24 dicembre 2020
Ore 20, Cattedrale di S. Zeno

Il Natale quest’anno cade in un tempo davvero molto particolare, costretti come siamo a fare attenzione a una pandemia che ha sconquassato il mondo e ancora continua a metterlo sottosopra. In questo momento il nostro pensiero corre alle vittime: innanzitutto al personale sanitario che ha perso la vita nell’espletamento del loro servizio. Ma poi il pensiero va ai numerosi anziani, spesso ricoverati in case di riposo, che se ne sono andati, senza neanche poter salutare i propri cari. Pensiamo poi a tutti malati, quelli che ancora sono nelle terapie intensive o negli ospedali o che ancora devono riabilitarsi. E poi a tutti coloro che sono costretti anche in questo Natale a restare isolati dagli altri perchè in quarantena…. Non c’è famiglia che in un modo o nell’atro non sia stata toccata dal virus. Se poi ci fermiamo a considerare le ricadute sul piano economico della pandemia, a quante persone sono finite sotto la soglia di povertà e non sapranno come uscirne, ci verrebbe davvero da farci cadere le braccia! Questa sera ci sentiamo particolarmente vicini a tutti coloro che sono in difficoltà. Li portiamo con noi in questa Eucaristia, preghiamo per loro e condividiamo con loro la sofferenza e il disagio.

Per tanti versi ci verrebbe la voglia di non festeggiare quest’anno. Cosa c’è mai da festeggiare, quando così tante persone stanno male e il futuro è così talmente incerto da mettere paura.
Ma forse anche ai tempi di Gesù, quando nacque, non è che ci fossero tanti motivi per festeggiare in quella terra di Palestina martoriata dall’oppressione romana e attraversata da inquietudini politiche e sociali. Non dimentichiamo il disagio di Giuseppe e Maria, costretti a lasciare il nord del paese, la loro casa di Nazareth, per recarsi in Giudea, a Betlemme a motivo del censimento. Con Maria incinta ormai al nono mese, senza sapere dove alloggiare, dove sistemarsi, costretta a partorire non in casa ma in una stalla. La situazione vissuta da Giuseppe e Maria, come quella della Palestina del tempo non offriva sicuramente molto spazio alla gioia, all’allegria.

Eppure – come abbiamo ascoltato nel vangelo – nella notte di Betlemme, l’angelo ai pastori dice: “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia”. Una grande gioia. Nonostante tutto. Nonostante la situazione difficile di quella terra. Nonostante il disagio di Giuseppe e di Maria. Nonostante non ci fosse stato posto per loro nell’alloggio. E il motivo di tanta gioia è ancora l’angelo a spiegarlo: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”.

Come quell’angelo nella notte di Betlemme, anch’io stasera mi sento di dovervi annunciare una grande gioia, nonostante tutte le ristrettezze e i dolori che stiamo vivendo, le incertezze e le paure. Vi annuncio una grande gioia: Dio si è fatto uomo. E’ nato per noi il salvatore del mondo. La gioia del Natale è tutta qui. Non consiste nello sfavillio delle luci, nelle feste di piazza o nel semplice scambio dei regali. Quest’anno che siamo costretti a limitarci in tante cose, forse è l’occasione per ritornare al vero significato del Natale che è quello della nascita di un salvatore per noi.
Salvatore è una parola grossa, che potrebbe alla fine anche sfuggirci di mano, svuotata di significato. Ma l’angelo è stato chiaro: la gioia è annunciata perchè è nato il salvatore del mondo.

E allora cerchiamo un attimo di capire che cosa significa “il salvatore” e di che salvezza si tratti. È necessario capirlo, per gustare la gioia del Natale. Possiamo dire in poche parole che salvatore è colui che ci toglie da una situazione molto pericolosa per la nostra vita, che magari è anche in pericolo grave. Quando il pericolo di morte è imminente, colui che ci t strappa da quella condizione è sicuramente considerato un salvatore. In sostanza, l’opera di un salvatore la si comprende solo a partire dalla consapevolezza di essere dentro una situazione molto grave, mortale addirittura e da cui non si riesce ad uscire con le proprie forze.
Oggi che ci sentiamo minacciati dalla pandemia, siamo immediatamente portati a ricorre al Signore Gesù per chiedergli che ci liberi da questo flagello, che ci faccia tornare ad una vita normale e ci protegga dalle conseguenze nefaste per noi e per la società di questo virus. Ci viene spontaneo e va anche bene. Però Gesù Cristo è il Salvatore per questo? È qui che si manifesta veramente l’opera del Salvatore? È questa la salvezza che il Signore Gesù ci porta? Ed è solo per questo tipo di salvezza che noi confidiamo in Gesù?

Direi proprio di no. Sarebbe davvero troppo poco. E allora occorre andare un po’ più in profondità per scorgere quale sia il vero male del mondo, quale sia quel male che da origine alle sofferenze presenti e che in qualche modo è all’origine anche di questa pandemia e di tutte le altre occasioni di dolore che ci sono nel mondo. Se scaviamo un po’ in noi, oltre la superficie delle cose, ci accorgeremmo subito che il male vero dell’uomo consiste nel pensare solo a se stesso, con l’illusione di raggiungere così la felicità; il male sta dentro il cuore dell’uomo che spesso sceglie e agisce non in base a ciò che è bene, ricercando sempre ciò che è giusto e buono ma in base a ciò che utile a lui o gli torna più comodo; il male è nell’uso della libertà per prendere, afferrare, dominare, piegare gli altri ai propri interessi, spremere la terra. Questa malvagità che è nel cuore dell’uomo, lo rende schiavo. Non solo, lo conduce inesorabilmente alla morte. Se questa malvagità prendesse campo, l’uomo si autodistruggerebbe e distruggerebbe il mondo. Questa malvagità contraddice la sua dignità di essere umano, contraddice la sua vera natura di essere relazionale, fatto per vivere in comunione con Dio e con gli altri. Ed è questa malvagità la causa ultima dei mali che sono nel mondo, di tutto ciò che accade di sofferenza e di lutto. Bisogna essere salvati da questa malvagità ma l’uomo non è in grado da se stesso di togliersela da dentro se, per l’appunto non interviene un salvatore capace di farlo. Un salvatore che con la sua bontà si carichi di tutti i mali dell’umanità per insegnare con la sua vita, la via della giustizia, della verità e dell’amore.

Il forza dell’opera del Salvatore, nato a Betlemme duemila anni fa, vero uomo e vero Dio, Dio in mezzo a noi, dentro la nostra carne e la nostra storia, la malvagità viene sradicata dal cuore dell’uomo che si rende disponibile nell’intimo della sua coscienza. Ed ecco allora la moltitudine di storie d’amore, di generosità, di dedizione fino al dono della vita di cui è costellato il mondo e che anche in questo tempo di pandemia abbiamo avuto modo di vedere e gioirne.
Ma sappiamolo: ogni gesto di bontà, ogni atto di altruismo e di amore sincero, ogni azione volta al bene comune, a vantaggio degli altri e per la fraternità umana, viene dalla grotta di Betlemme. È il Salvatore del Mondo Gesù che l’ha resa e la rende possibile. Che l’interessato lo sappia o no, ha poca importanza. Noi lo sappiamo e lo riconosciamo con immensa gioia. Tutto il bene che c’è nel mondo, tutta la forza di rinascita che fiorisce dentro i nostri cuori nei momenti di crisi, come il coraggio di guardare avanti e di sperare in un futuro migliore, tutto questo è opera del Salvatore nato a Betlemme.
Ecco perché dobbiamo esser grati a Dio di averci mandato il suo figlio unigenito e prendere la nostra carne mortale. Ecco perchè a Natale possiamo annunciare in verità una grande gioia per la nascita del Salvatore. Ecco perchè, nonostante la tristezza di questi momenti, possiamo far festa e guardare avanti con fiducia. Perché il Salvatore c’è. Ormai è dentro la nostra storia, ed è al lavoro col suo Santo Spirito per salvare l’umanità.

Cari amici e fratelli: lasciamoci allora salvare dal bambino di Betlemme. Lasciamo che il suo amore sradichi in noi ogni malvagità e apriamo il cuore e le mani ai nostri fratelli. Prendiamoci cura di loro, come riusciamo. Possiamo superare anche questo momento e rendere il mondo migliore, se ci lasciamo salvare dal salvatore e ci rendiamo disponibili a creare una vera civiltà dell’amore. Lo possiamo fare, il bambino Gesù con le sue piccole braccia rivolte a noi ce lo chiede, i nostri fratelli lo aspettano.




Centenario della morte della Beata Caiani (8 agosto 2020)

Omelia per il centenario del Dies Natalis della Beata Caiani

Poggio a Caiano – Casa Madre delle Suore Minime – 8 agosto 2020

 

Mons. Mazzanti, mio predecessore sulla Cattedra di San Zeno, fu davvero guidato dallo Spirito Santo quando, agli inizi del novecento, vide in questa giovane donna di cui oggi iniziamo la celebrazione del centenario della morte, un virgulto bello del giardino di Dio. Con il riconoscimento dato da lui, nel 1902 Margherita Maria – così si volle chiamare – prese l’abito religioso insieme ad alcune su compagne e iniziò un’avventura stupenda di dedizione e di amore che ha portato ad una meravigliosa fioritura di bene per la diocesi pistoiese, la chiesa universale, il mondo intero.

Voglio dirvi subito la mia grandissima gioia nel contemplare questo bel fiore della nostra chiesa locale. Quando una chiesa produce dei santi, ecco, quella chiesa ha compiuto davvero la sua missione, davvero giustifica la sua presenza nel mondo. Anzi, direi che sta proprio in questo la verifica della sua fecondità. Non in opere particolari, non in imprese straordinarie, non in una organizzazione perfetta o nel suo essere aggiornata coi tempi; non ancora quando diventa una ong o un agente sociale. Nel “produrre dei santi”, sta piuttosto la fecondità di una chiesa. Nel far nascere e crescere uomini e donne che sanno fare sintesi in se stessi della forza della grazia di Dio e della umanità, comprensiva di tutta la sua fragilità e debolezza. Uomini e donne che sanno essere lievito e fermento dentro la pasta del mondo; uomini e donne che dovunque si trovino, qualsiasi mansione svolgano, qualsiasi compito si trovino ad assolvere, dal più umile al più alto, vivono del Vangelo, riposano in Dio e hanno il cuore grande come quello di Dio per amare.

Per questi motivi, sono davvero pieno di gioia nel contemplare la figura di questa santa donna, fiore bellissimo della nostra Chiesa. Un fiore che comunque come chiesa diocesana dobbiamo imparare ad apprezzare ancora di più, valorizzandolo, prendendo spunto dalla testimonianza della Madre.

 

Le letture bibliche che abbiamo ascoltato, tratteggiamo magnificamente il carisma della Caiani e quindi direi anche delle sue figlie che oggi continuano la sua opera e che non possono non trarre ispirazione proprio dalla figura della fondatrice.

Partirei proprio dalla pagina evangelica, dall’episodio cioè della cena di Gesù a casa dei suoi amici a Betania, Lazzaro, Marta e Maria. Il brano evangelico sembra porre una contraddizione tra l’opera di Marta e quella di Maria. Contiene anche un dolce rimprovero di Gesù nei confronti di Marta. Ad una lettura superficiale, la contrapposizione sembra esserci tra l’attivismo di Marta per accogliere un ospite così importante come Gesù e la contemplazione di Maria che, come un vero discepolo, sta a i piedi del Maestro per nutrirsi di lui e della sua parola. In realtà non c’è contrapposizione, come afferma Sant’Agostino in un mirabile commento a questo brano evangelico. Il servizio di Marta è necessario ma ha come fine e come motivo, ciò che Maria testimonia. Contemplazione e azione sono dunque due facce inscindibili della stessa medaglia e ogni azione è destinata a compiersi in quella attiva contemplazione che sarà la gioia piena del Paradiso.

La Madre Caiani questa cosa l’ha capita perfettamente e se c’è una cosa che balza agli occhi immediatamente, conoscendo la sua vita e i suoi intendimenti, è proprio l’aver fondato tutta la sua esistenza tutta la sua azione, veramente infaticabile azione, nella contemplazione del Signore, in particolare dell’amore misericordioso di Dio, espresso mirabilmente nel Sacro cuore di Gesù. Al Sacro Cuore volle dedicare la sua vita e mai smise di contemplare nella preghiera e nell’adorazione, l’amore infinito di Dio manifestatosi nel cuore trafitto di Cristo sulla Croce. Al Sacro Cuore volle legare la sua Congregazione e questo radicamento della vita in Dio, a me pare il primo fondamentale messaggio che ci viene da lei.

Il secondo tratto del carisma della Caiani è certamente ben espresso dalla prima e dalla seconda lettura: l’umile vita di servizio al prossimo; la dedizione senza prosopopea agli ultimi; la prontezza alla missione; l’amorevole predisposizione verso le sorelle nella carità. Una carità a tutta prova che si esercita prima di tutto tra i fratelli e sorelle che condividono la vita religiosa e che si estende poi con amorevolezza infinita a tutti i bisognosi.

“Rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!”. Queste parole di San Paolo si adattano perfettamente alla Madre. Esprimono la sua vita. Sono state da lei incarnate nel vivere quotidianamente i rapporti con le sorelle e con gli altri in genere. La carità non era in lei primariamente un’opera, bensì un’attitudine profonda del cuore, di tutta la persona. Non faceva opere di carità. Era piuttosto una donna di carità, fatta carità e per questo attenta ai bisogni degli altri, pronta anche a orientare in diverso modo la sua attività come quella delle sorelle, secondo le necessità e i bisogni.

Così ben di attaglia alla sua figura quanto il profeta Isaia ha affermato come il pensiero stesso di Dio: “questo è il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?” Da un cuore pieno di carità attinta dalla Grazia di Dio a una carità fattiva, concreta, operosa.

Anche in questo dobbiamo prendere ispirazione della Madre: per essere anche noi oggi, particolarmente in questo momento cruciale del mondo, attenti, attentissimi a cogliere i bisogni degli altri; capaci anche di inventare cose nuove, sulla scia del carisma. Questa è anche una sfida per la comunità religiosa che da lei ha preso vita. Per voi carissime sorelle. Occorre imparare a cogliere le necessità del momento presente, anche le più umili e all’apparenza non “alla moda”, per provare a inventare risposte. Oltre la paura per la pochezza delle forze o le fragilità personali. Non cedendo mai al lamento ma operando con quell’entusiasmo e quella fantasia necessarie alla carità. Senza dimenticare però che l’importante non è tanto fare e compire imprese, quanto piuttosto essere uomini e donne di carità. Senza dimenticare che questa stessa carità va esercitata innanzitutto all’interno della nostre comunità, parrocchie, movimenti e Congregazioni religiose.

Un’ultima cosa vorrei infine sottolineare. Mi sembra particolarmente bella. Il fatto cioè che siamo qui ad ammirare, contemplare e ascoltare una donna. L’essere donna della Caiani è una testimonianza speciale del carisma femminile. Una donna che si è saputa far valere, i tempi certamente non facili per una donna. Le donne però portano in sé un dono speciale di Dio che fiorisce magnificamente in figure di Sante donne che hanno costellato il novecento. Un segno dei tempi anche questo, attraverso il quale il Signore ci fa capire quanto la donna possa davvero contribuire all’avvento del Regno di Dio. E a me piace mettere la Caiani insieme a quelle figure davvero luminose di sante e beate donne che hanno costellato i tempi moderni: Teresa di Lisieux, Gemma Galgani, Madre Teresa di Calcutta, suor Faustina Kowalska, Edith Stein, Madlein Delbrel, Gianna Beretta Molla….. Solo per citarne alcune.

Insieme a quella di queste sante donne, invochiamo dunque stasera la intercessione della Beata Caiani, prima di tutto per le sue amate figlie, chiamate a rinnovare il carisma della loro fondatrice, e poi per la Chiesa di Pistoia perché sia culla di santi e di sante. Infine per tutti noi e le nostre famiglie perché sappiamo mettere a frutto i doni che Dio ci ha dato.

+ Fausto Tardelli, vescovo