Ordinazione presbiterale Alessio Bartolini e Eusebiu Farcas (XIII domenica T.O. – 30 giugno 2019)

Ordinazione presbiterale Alessio e Eusebio
(XIII Domenica del tempo Ordinario Anno C)
Cattedrale di San Zeno 30 giugno 2019

Quarantacinque anni fa, come oggi, “cantavo Messa”; così si usava dire una volta. Ero stato ordinato presbitero insieme al compianto Vescovo Mansueto, la sera prima, solennità dei santi Pietro e Paolo, di sabato, esattamente come quest’anno. Anche allora, il 30 di giugno era la XIII domenica del tempo ordinario dell’anno C e le letture della Messa furono esattamente quelle che abbiamo ascoltato poco fa. Non fui io a fare l’omelia e dunque a commentarle; lo fece il mio parroco; però quelle letture le ho scolpite nella memoria.
Oggi sono qui dopo tanti anni, a ringraziare il Signore insieme a voi per il dono ricevuto con il sacramento dell’Ordine. Sono qui stasera, per motivi misteriosi noti solo al Signore e per una sacra potestà che viene solo dallo Spirito, anche per consacrare a mia volta, quale successore degli apostoli, due nuovi presbiteri.
Doppiamente grato al Signore, mi accingo a conferirvi, carissimi Alessio ed Eusebio, il sacramento dell’Ordine nel grado del presbiterato. Lo faccio veramente con tanta gioia, non solo per l’affetto che in questi anni ci ha unito ma anche perché vedo nella vostra Ordinazione, una speciale benedizione del Signore che ci accarezza, nonostante tutte le nostre deficienze, i nostri mali, le sofferenze che a volte ci procuriamo con le nostre stesse mani. Un nuovo prete è come la nascita di un figlio: è segno di speranza; è segno che Dio non ci ha abbandonato ma ci continua ad amare; è slancio per il futuro; è apertura gioiosa alla vita; è conforto alla nostra debolezza e linfa vitale per le nostre povere vite.
Ed io stasera, illuminato dallo Spirito Santo, vedo con occhi di speranza la nostra chiesa; sento di poter aprire il cuore alla fiducia, lodando il Signore per quanto ci dona.

Ci sono momenti, è vero, soprattutto a causa delle nostre piccinerie e chiusure di cuore e di mente, in cui il fiato si fa corto e l’animo rancoroso; in cui le difficoltà ad intendersi e a camminare gioiosamente insieme sembrano insormontabili. A volte ci prende un po’ di stanchezza perché c’è sempre da ricominciare daccapo, da ripartire, da riprovare, da ricucire, con l’aggiunta che a volte sembra persino tempo perso.
Cionostante, io vedo stasera lo Spirito Santo di Dio che lavora instancabilmente in noi e chi ha occhi abituati alla fede, non può non vedere le opere di Dio nella nostra chiesa, nelle nostre parrocchie, nel nostro presbiterio. Con gli occhi illuminati dalla fede e resi penetranti dalla potenza dello Spirito Santo stasera scorgo non solo il germogliare del grano ma anche le messi abbondanti, le spighe pronte per il raccolto e operai che mietono, con generosità, contenti di essere stati chiamati all’opera. Sono un visionario? Non credo.
L’ordinazione di questi nostri due fratelli è un segno evidente di tutto questo; sono un segno anche gli anniversari delle ordinazioni presbiterali e diaconali che stasera ricordiamo; come pure questa bella cattedrale stracolma di gente.
Affidiamoci allora con fiducia e speranza alla parola di Dio e ripercorriamo l’itinerario che le letture di oggi ci propongono. Lasciamoci prendere per mano dal Signore, certi che la sua Parola è lampada ai nostri passi. Ai vostri, carissimi Alessio ed Eusebio; e ai nostri, presbiteri, diaconi, religiosi e laici.

Nella prima lettura prende forma la chiamata di Dio: la chiamata al suo servizio. Eliseo, unto da Elia da cui riceve anche il mantello, si muove per questo. All’origine della sua missione c’è la volontà di Dio. Una chiamata che è anche gesto di attenzione e di amore da parte del Signore. Questa chiamata – carissimi amici – è all’origine non solo della nostra missione ma della nostra stessa vita. Noi siamo chiamati all’esistenza dall’infinito amore di Dio; siamo da Lui chiamati ad essere suoi figli; da lui ancora siamo chiamati a compiere una missione sulla terra; da Lui infine siamo chiamati a partecipare alla sorte dei santi nella luce nel Regno eterno di Dio.
Ricordiamocelo, dunque, fratelli e sorelle! Ricordatelo sempre anche voi, Alessio ed Eusebio. All’origine di noi stessi, di quello che siamo e che siamo chiamati a fare, c’è l’appello del Signore. In questa volontà d’amore sta il fondamento della nostra vita e della nostra missione, come del nostro stesso destino. In essa sappiate sempre rifondarvi ogni giorno.
Quando magari sarete tristi o abbattuti, ripensate con gratitudine che siete stati chiamati dal suo amore. Quando magari vi sentirete stanchi o sconfitti, ricordate che voi esistete e siete preti perché Lui vi ha chiamato. Così pure, quando proverete gioia e felicità, anche allora e forse lì ancora di più, sappiate che tutto è dono Suo e viene da Colui che ha pensato a voi e ha dato a voi le potenzialità per portare frutti di gioia per la bellezza della vostra e altrui vita.

Nella seconda lettura, sempre di chiamata si parla. San Paolo ci fa capire che la nostra è una chiamata alla libertà, ad essere pienamente liberi, ma ci dice altresì che tale libertà non consiste nel fare quello che ci pare e piace, bensì nell’amare. “Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Ecco si, l’amore; l’amore a misura di Cristo; l’amore che è dono di sè, che ci spinge a metterci al servizio, che ci fa guardare all’altro come ad una manifestazione preziosa di Dio: questo è ciò a cui si è chiamati tutti e a cui è chiamato in particolare il presbitero; per il quale, l’amore per il prossimo include in modo decisivo e prioritario – va sottolineato – il dono del Vangelo che è Gesù con la sua grazia di salvezza significata nei sacramenti.
Carissimi amici; carissimi Alessio ed Eusebio, non abbiate allora mai paura ad amare come il Signore ci ha insegnato: le persone e il popolo a cui sarete inviati; gli altri presbiteri confratelli, il vescovo, l’umanità tutta. Forse non sarà sempre facile. Anche l’apostolo Paolo, nella lettera ai Galati, mette in guardia su ciò che può capitare e cioè che ci si morda e ci si divori a vicenda. Parole grosse, che mettono di fronte a noi tutti un rischio che ben conosciamo. L’ironia beffarda con cui Paolo conclude, mostra l’insensatezza di tali comportamenti e invita a far prevalere almeno un minimo di buon senso: “badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”. Non ci scandalizzino queste parole di Paolo, anzi, teniamole bene a mente perché il pericolo è sempre in agguato. Perciò, carissimi Alessio e Eusebio, sappiate rinnovare ogni giorno il vostro sincero impegno per creare comunione, partecipazione, incontro, condivisione; tentando di riannodare continuamente quei legami di amore che il Signore è venuto a stabilire e che noi spesso spezziamo. Siate lampade luminose d’amore; chiunque vi incontra, trovi un cuore aperto che si fa casa accogliente; e sappiate anche andare a cercare chi la casa non ce l’ha mai avuta o non ce l’ha più e ha bisogno di quella del vostro cuore, abitato da Cristo.

Le parole di Gesù nel Vangelo di Luca ci invitano alla missione, all’annuncio del Regno. È la chiamata che tutti ci coinvolge ma che stasera in modo speciale per voi si rinnova, carissimi Alessio e Eusebio.
Vorrei però soffermarmi un attimo soltanto sulla conclusione del brano evangelico, laddove Gesù dice che nessuno che metta mano all’aratro e poi si volti indietro, è adatto per il regno di Dio. Qui si afferma una cosa: che nel rispondere all’amore del Signore non ci devono essere rimpianti per ciò che si è lasciato, per le rinunce che il servizio del Regno richiede, per le “cipolle d’Egitto”, come dicono gli israeliti nel deserto. Bisogna invece andare avanti, a testa bassa, con ostinazione, a denti stretti, tesi alla meta; i ripensamenti possono essere buoni solo se sono il riconoscimento dei propri peccati per aprirsi alla grazia di Cristo. Non ci si può voltare indietro, se non per fare memoria della misericordia di Dio e ricordare le meraviglie che Egli ha operato in noi. Altrimenti no, occorre guardare avanti, con tenacia, rinnovando ogni giorno il santo proposito. La vita passa presto e il tempo dei ripensamenti è tempo perso; tempo tolto a Dio e ai fratelli.

Carissimi Alessio ed Eusebio, fate dunque attenzione a che non si insinui dentro di voi, come tentazione sottile, il rimpianto per ciò che avreste potuto essere o per ciò che avete lasciato. Reagite prontamente, perché il momento del volgersi indietro, come nostalgia o fantasia, qualche volta può capitare e può dar luogo a forme di compensazione che affogano la vita del prete e a volte la rendono persino ridicola. E può capitare anche sotto una curiosa forma: quella del rimpianto di ciò che è stato un tempo, di quel che era nel passato. Il passato è estremamente prezioso e là ci sono le nostre radici, senza le quali non ci sarebbe né presente né futuro. Le nostalgie sono però fuori luogo. Siate piuttosto amanti del tempo presente, pur con tutte le sue contraddizioni; capaci senz’altro di notarle e di rilevarle, richiamando gli uomini a riflettere e a convertirsi. Amate però il presente, il vostro tempo, quello di oggi e quello che vi sarà dato da vivere domani; con le sue sfide, le sue problematicità e anche le sue risorse. Sappiate guardare avanti con fiducia, nonostante tutto. Anche se dovesse crollare il mondo e capitassero le peggiori cose, siate sempre animati dalla speranza e dalla ferma convinzione che il Signore è fedele e che il suo amore è per sempre.

Si, il Signore è davvero fedele per sempre. E noi stasera, con gratitudine lo sperimentiamo. A Lui ogni onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen




Pentecoste

Pentecoste

Domenica 9 maggio 2019 – Cattedrale di San Zeno

 

Carissimi, siete qui stamani provenienti da luoghi diversi ma soprattutto da storie diverse. Ognuno di voi ha il suo carico di esperienze sulle spalle, belle o a volte anche brutte. Vi affacciate ora alla chiesa per chiedere di essere confermati col dono di Dio Spirito Santo, dopo aver percorso un tratto di strada della vostra vita che vi ha già introdotto nel mondo, con le sue contraddizioni, con le sue opportunità ma anche con tutte le sue insidie.

Non siete più dei ragazzini. Avete già conosciuto come vanno spesso le cose nel mondo. Forse già siete stati feriti e queste ferite forse ancora sanguinano. Avete già provato il morso della solitudine, delle speranze tradite, della fragilità delle amicizie e degli amori.

Però siete qui stamani. E il vostro essere qui è un segno di grande speranza. Perché con la vostra presenza qui a fare la Cresima, voi dite a voi stessi e al mondo che non vi arrendete, che ancora volete lottare, che ancora volete sperare un una vita migliore, più vera, più autentica; ancora credete all’amore e che l’amore possa sconfiggere le tenebre del male e persino della morte.

Voglio vederla così la vostra presenza qui in questa cattedrale. E sono convinto che sia davvero così, per ciascuno di voi. Altrimenti che senso avrebbe essere qui? Perché, dopo una vita vissuta su sentieri diversi a volte da quelli della chiesa, ormai grandi, dovreste ricevere la Cresima? Senz’altro per alcuni di voi c’è in vista il Matrimonio. Ma anche questo è un motivo di speranza e di gioia, perché dice la vostra voglia di costruire qualcosa di bello insieme ad un’altra persona, tentando l’avventura faticosa ma esaltante della famiglia e, con la Cresima, poggiandola sull’amore del Signore, che sia fondamento sicuro della vostra speranza. Per altri invece, oggi è riprendere un discorso interrotto, ritessere una tela che era rimasta incompiuta. È un riannodare fili, ritrovare cose perdute, rinnovare lo slancio della vita; come un rinascere di nuovo, daccapo. Per altri ancora a spingerlo qui forse è stato il bisogno di trovare un radicamento, una bussola, un orientamento alla propria esistenza, scoprendolo  in Dio che mai ha abbandonato ciascuno di voi, che mai ha smesso di cercarvi.

Si, perché, carissimi amici, questo è un fatto. Se siete qui stamani, anche con motivazioni immediate diverse, è indubitabilmente perché Dio vi è venuto a cercare. Lui ha messo in voi una nostalgia di Lui e del Vangelo. È lui che dal di dentro del vostro cuore, servendosi magari di circostanze all’apparenza banali, vi ha illuminato, vi ha chiamato, vi ha fatto sentire il suo sospiro d’amore, la sua tenerezza amorosa e vi ha interiormente convinto a cercare, a domandare, a chiedere di essere cresimati.

Ma Dio è così, carissimi amici! Dio ci vuole bene e ci cerca, ci sta accanto, non smette di avere fiducia in noi e di proporci una vita nuova vissuta nella gioia del suo amore e dell’amore verso il prossimo. Qualunque siano le nostre esperienze, qualsiasi siano state le nostre sbandate; qualsiasi sino stati i nostri sbagli e i nostri peccati; da qualunque situazione noi proveniamo o abbiamo alle nostre spalle – fosse anche la più brutta – Egli continua ad offrirci il suo amore, continua a volerci nella gioia e felici, continua a donarsi a noi e voler dare prospettiva e speranza ai nostri sogni più belli, ai nostri desideri più luminosi, al bello che è dentro di noi e che noi siamo.

Esattamente come fa stamani, perché con la Cresima voi ricevete Dio stesso Spirito Santo, accogliete nel vostro cuore, nella vostra mente, nella vostra vita, Dio Spirito Santo. Oggi voi diventate Tempio vivo dello Spirito Santo e Dio Spirito Santo abita in voi. E lo Spirito Santo, come ci dice la Sacra Scrittura è Consolatore, difensore nostro, nostra luce, vigore e forza contro ogni pericolo, amico fedele, sostegno e carezza, vento che soffia nelle vele della nostra vita. Egli viene a voi stamani con i santi sette doni: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, santo timor di Dio. Son tutti doni che servono a voi, per vivere una vita buona e attraversare le strade del mondo, senza essere feriti mortalmente e portare anzi la buona testimonianza di Cristo.

Ringraziate dunque stamani Dio, carissimi amici. Dio che vi ha condotto qui, che raccoglie tutta la vostra vita, tutto quello che avete vissuto nel bene e nel male e tutto copre col suo amore. Ringraziate e lodate Dio Spirito Santo che viene in voi per aprire i vostri occhi e davi consolazione e fiducia. Usciti di qui stamani voi non sarete gli stessi di prima. Qualcosa sarà successo in voi. Sarete nuovi, abitati da Dio, pronti per ricominciare con slancio e con grande speranza l’avventura della vita. Ringraziate dunque e lodate Dio, stamani, ma anche nei giorni che verranno, perché Egli sarà sempre dentro di voi e non cesserà di amarvi e voi non sarete mai più soli con Lui in voi.

Ringraziate Dio con tutto il cuore ma anche cercate di ricambiare l’amore che vi ha coinvolto, amando a vostra volta e Lui e il prossimo. Giunti alla Cresima da grandi, le promesse che ora farete, vanno prese sul serio, con la libertà e la consapevolezza di uomini e donne di parola. Queste promesse dicono a Dio e a tutti che voi intendete ricambiare il suo amore, che vi impegnerete con tutte le vostre forze a vivere secondo gli insegnamenti di Cristo e, anche se non sarà facile, ce la volete mettere tutta. Come ci ha detto Gesù nel vangelo che abbiamo ascoltato poco fa: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; Se uno mi ama, osserverà la mia parola; Chi non mi ama, non osserva le mie parole” E l’apostolo San Paolo, scrivendo ai Romani, ci ha detto: “Se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.” Laddove per opere della carne si indica un modo di vivere lontano da Dio, nell’inimicizia, nell’odio, nella superbia e nella prepotenza, mentre essere guidati dallo Spirito significa amare come Gesù ci ha insegnato

Un’ultima cosa ancora, vorrei dirmi cari amici. Voi oggi ricevete la Santa Cresima in questa bellissima Cattedrale e questo è anche un momento in cui vi rendete conto di far parte di una grande famiglia che è la chiesa di cui le mura di pietra sono soltanto un segno. Voi, la chiesa l’avete conosciuta in parrocchia e non se ne avete tutti un buon ricordo; oppure ne avete sentito parlare nei al cinema, nei giornali, alla televisione; avete senz’altro trovato ragioni magari per criticarla, vedendone le magagne, le incoerenze: il vaticano, i papi, i vescovi, i preti…. Ma aldilà di tutte le sue macchie, la chiesa è quella che oggi vi accoglie a braccia aperte, in questa cattedrale; è quella che apre le porte alla vostra vita e che vi dona ciò che ha di più prezioso e che non viene da lei, Dio Spirito Santo. Voi oggi di questa grande famiglia siete parte eletta, membra vive, partecipi con tutto voi stessi. Sentitevi dunque sempre parte viva della chiesa, nonostante tutto; non guardatela da lontano, ma inseritevi in essa con passione, con generosità con amore. Abbiamo bisogno di voi; la chiesa ha bisogno della vostra giovinezza e della vostra esperienza; partecipate come vi è possibile nelle vostre parrocchie o in associazioni o in gruppi; date il vostro contributo in idee, tempo, capacità perché la chiesa sia luce del mondo e sostegno dei poveri. La stretta di mano che io vi darò come segno di pace dopo avervi cresimato vuol essere proprio questo: il segno che voi siete parte di me e della chiesa; che la chiesa è un dono per voi e voi un dono per lei.




Pasqua di Resurrezione

«Noi speravamo»

Domenica di Pasqua – 21 aprile 2019

«Noi speravamo». Così dicono i due discepoli che sconsolati se ne andavano da Gerusalemme ad Emmaus, la sera di quel primo giorno della settimana dopo il sabato. Se ne andavano via, forse per dimenticare l’avventura che avevano vissuto con Gesù; forse per voltare pagina, dopo che con la morte di Cristo era svanita ogni loro speranza. «Noi speravamo», dicono al viandante misterioso che si accompagna al loro cammino, «Noi speravamo che Gesù fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute». Si, è vero, continuano i due pellegrini, alcune donne e alcuni discepoli hanno trovato il sepolcro vuoto ma, concludono con delusione e amarezza, «Lui non l’hanno visto».

«Noi speravamo». Questa frase ci rimbomba nell’anima, ci risuona dentro: quante volte l’abbiamo detta anche noi? Quante volte l’abbiamo sentita vera per noi e abbiamo sentito il morso amaro della delusione nella nostra vita, con la rabbia che saliva oppure facendo spallucce, dicendoci che così vanno le cose nel mondo e non c’è niente da fare.

Carissimi amici, lo dobbiamo riconoscere credo con estrema sincerità: spesso siamo spenti dentro, siamo come morti; resi cinici dalle esperienze della vita. Dov’è la nostra fede, il fervore della nostra devozione, la fiamma viva della speranza, l’ardore indomito della carità? Dove sono finiti i nostri entusiasmi giovanili, quando conoscemmo il Signore e diventammo consapevolmente credenti? Che razza di cristiani siamo, aridi, fiacchi, legati soltanto a qualche tradizione, forse a un po’ di buone maniere, ma accomodati sempre al pensiero del mondo, alle prediche dell’imbonitore di turno, alle idee più aberranti di questa società, alle ideologie del pensiero unico, alla dittatura del relativismo, a visioni del mondo dove non c’è posto per Dio e tutto è manipolabile a piacimento e desiderio di ognuno?

Oggi, nello Sri Lanka, fratelli di fede hanno pagato un caro prezzo per Gesù Cristo. Tre attentati in simultanea hanno devastato il santuario di Sant’Antonio a Colombo, nella capitale, la chiesa di San Sebastiano a Negombo, a circa 30 chilometri dalla capitale e la chiesa a Batticaloa, a 250 chilometri a est della capitale. È stata una strage tra i fedeli che partecipavano alla Messa di Pasqua, più di 150 morti. Questi nostri fratelli ci sono d’esempio. Essi hanno fatto veramente Pasqua, mescolando il loro sangue con quello di Cristo e partecipando da subito alla sua risurrezione, entrando con Lui in paradiso. Persone, quello dello Sri Lanka, venute alla fede in tempi molto più recenti di noi, eppure con una fede mille volte superiore alla nostra, di noi, paesi di antica cristianità, italiani ed europei che sembriamo ormai stanchi, se non insofferenti degli insegnamenti di Cristo e della chiesa. Dobbiamo dirlo: non siamo più, ma forse non lo si era neanche prima, visti i risultati, un paese cristiano e noi cristiani spesso siamo diventati sale sciapito, senza più sapore e luce nascosta sotto il letto.

È proprio vero: come i discepoli di Emmaus anche noi possiamo dire che “speravamo”, che abbiamo sperato. C’è stato un momento nella nostra vita in cui sicuramente siamo stati carichi di entusiasmo, convinti della nostra vocazione, fervorosi nella fede, ma anche pieni di speranza di poter cambiare in meglio questo nostro mondo, di renderlo più fraterno, più abitabile, più giusto e armonioso, più felice. Lo abbiamo sperato, credo che non possiamo negarlo. Poi è successo qualcosa: siamo cresciuti e abbiamo cominciato a fare i conti con la giungla di questo mondo; abbiamo ceduto a compromessi per mangiare e avere una buona condizione di vita; abbiamo visto che a fare il bene ci si rimette sempre e che forse non conviene cercare di comportarsi secondo gli insegnamenti di Cristo. Abbiamo visto quello che fan tutti e ci siamo detti, perché non dovrei anch’io fare uguale? Forse anche è capitato di restare delusi dalla chiesa, dal Papa, dai vescovi, dalla nostra parrocchia, dal nostro gruppo, dal nostro prete o dai preti in genere; forse ha prevalso la paura di passare per bigotti, sprovveduti, retrogradi, fanatici, antiscientifici, poco moderni… Insomma, son successe un sacco di cose, per cui anche noi siamo arrivati al punto di dire: “si, speravamo….”

Di fronte a tutto questo non ho parole mie da dire o discorsi miei da fare. Posso solo guardare a Gesù, a quello che disse e fece con i discepoli di Emmaus e che ancora dice e fa oggi, qui, con noi: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a Lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece per andare oltre ma i due lo pregarono di restare. Entrò per rimanere con loro e quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro».

Ecco, il Signore Gesù risorto e vivente, qui in mezzo a noi stasera ci parla e spezza il pane per noi; ci fa capire che dobbiamo accettare la nostra fragilità; che il Regno di Dio avanza anche se in un’apparente condizione di minorità; che sempre dobbiamo fare i conti con la nostra debolezza e la malvagità degli uomini; che sempre il bene e la verità appaiono perdenti in questo mondo e che anche la chiesa non è fatta di perfetti. Ma ci dice anche che Egli ha vinto; ha sconfitto la morte e il male del mondo; che i peccati possono essere perdonati e si può rinascere a vita nuova sempre, anche quando si è vecchi.

E allora? Allora fratelli e sorelle amatissimi, si risvegli il nostro ardore, si rinvigorisca la nostra fede, cresca il nostro coraggio e come fece Pietro, di cui ci ha parlato la prima lettura dagli atti degli apostoli, testimoniamo Gesù, il giudice dei vivi e dei morti, davanti a tutti, senza vergogna o paura ma anche senza recriminazioni e senza parole o gesti che siano meno che amore. E poi viviamo da risorti con Cristo, come ci ha detto San Paolo nella seconda lettura: «Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra».




Veglia Pasquale 2019

Veglia pasquale

Sabato Santo 20 aprile 2019

 

Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto.

Come abbiamo sentito nel vangelo, con queste parole gli angeli annunciarono la risurrezione di Gesù alle donne impaurite che si erano recate al sepolcro, il giorno dopo il sabato, per terminare i riti della sepoltura.

Gli angeli, rappresentati dal diacono che ha proclamato il vangelo dal bordo dell’ambone, una specie di sepolcro vuoto, quelle stesse parole stasera le hanno dette a noi. Sono per noi, sono rivolte a noi: “Perché fratelli e sorelle, cerchiamo tra i morti Colui che è risorto?”. Domandiamocelo. Questa domanda ci scuota stanotte e ci rinnovi profondamente: “Perché cerchiamo tra i morti Colui che è vivo?”.

In effetti, a ben pensarci, riflettendo con attenzione, è vero: noi e il nostro mondo, cerchiamo spesso la vita nei sepolcri, laddove cioè c’è morte, non vita. Noi desideriamo la vita non c’è dubbio, e la vorremmo piena, gioiosa, ricca, soddisfacente; vorremmo star ben, da tutti i punti di vista. È un’aspirazione profonda che ci muove, ci spinge, determina le nostre scelte. Abbiamo sete di vita, bramiamo la vita.

Ma cosa accade però spesso? Pensiamoci un attimo. Accade che la vita la andiamo a cercare nei posti sbagliati: la si cerca nel malaffare, nella corruzione, negli imbrogli, nelle menzogne, nella disonestà, nella dipendenza dal gioco, da sostanze, dal sesso; oppure nel dominio e nello sfruttamento degli altri, nell’essere “qualcuno” sopra gli altri; nei piccoli o grandi poteri e, più di ogni altra cosa, nel denaro.

Ma tutte queste cose, nelle quali il mondo pensa di trovare la vita, in realtà, sono dei veri e propri sepolcri pieni di morte. Vi troviamo la peggiore morte, quella dell’anima, ma anche la morte della nostra coscienza e della nostra umanità. La disumana violenza che infesta il mondo e la distruzione del creato sono l’amaro prezzo che si paga inseguendo queste cose, lasciandosi prendere dall’illusione che attraverso di esse, la nostra vita possa essere davvero piena e felice. Quando si ripone la nostra speranza in esse, si finisce però sempre per restare delusi. Il risultato è una società senza più speranza, senza prospettive vere, dove, inevitabilmente, aumentano le paure. Ogni cosa finisce per farci ombra, per metterci in ansia; addirittura finisce per terrorizzarci, spingendoci alla difensiva, pronti a colpire, perché gli altri diventano tutti dei potenziali nemici. Le speranze deluse generano facilmente rabbia, risentimento, rancore, a volte un terribile gioco al massacro.

E allora? Allora, carissimi amici, diamo piuttosto retta agli angeli di cui ci ha parlato il Vangelo stanotte: non cerchiamo la vita tra i sepolcri; non cerchiamo la vita in ciò che è morto e dà la morte.

Dove trovarla allora? È possibile trovarla ed esserne riempiti? Si, è possibile. La vita vera non è un oggetto, non è una cosa, non un’idea, un concetto; non è verità astratta, né una sensazione, un’emozione; non è nemmeno una scarica di adrenalina o il piacere di un momento. No, la vita vera è una persona. È la persona del Risorto. Una persona concreta, che ha il volto di un uomo concreto, Gesù Cristo, il quale ha vissuto una vita d’uomo in una terra precisa, insieme a persone che lo hanno amato o odiato; un uomo che fu appeso ad un legno, ma che il terzo giorno è risorto perché era Dio con noi. Una persona che molti hanno incontrato vivente, al punto di decidere di giocare, di scommettere tutta la propria vita su di Lui.

Carissimi amici, a Pasqua non celebriamo la risurrezione come un evento del passato, relegato in un angolo della storia. Noi celebriamo “il Risorto”, vivo e vero, presente in mezzo a noi. Si, qui in mezzo a noi! Si, perché se mi dite, ma dove mai possiamo incontrare questo Cristo risorto, pienezza di vita, datore di vita, io vi rispondo con molta semplicità ma con la convinzione più profonda del cuore, che Egli è qui. Non occorre andarlo a cercare chissà dove: è in mezzo a noi, stasera; più vivo che mai. È qui con noi, ci parla e ci conforta, ci invita a non temere per la nostra vita, se l’affidiamo a lui e la doniamo con Lui; ci fa capire che dobbiamo smetterla di cercare tra i morti la vita per abbracciare invece Lui, via, verità e vita; ascoltare la sua parola che è viva ed efficace; mangiare il suo corpo che è pane della vita eterna; bere il suo sangue che è bevanda di vita eterna. Il Risorto non è lontano da noi. Lo possiamo incontrare, oggi, stanotte e lo possiamo accogliere nella nostra vita. Egli ci dice inoltre che è presente nel volto dei nostri fratelli più poveri e bisognosi e che se vogliamo trovare la vita vera, non dobbiamo cercarla nei sepolcri dei nostri egoismi, bensì aprendo le braccia dell’amicizia agli altri, senza distinzioni di lingua o nazione, di estrazione sociale o di religione.

La vita va cercata, carissimi amici, nella sequela di Gesù, nel vivere con lui da risorti. Ponendo la nostra vita nella sua, noi diamo fondamento certo alla nostra speranza, perché colui che ha vinto la morte e insieme ha vinto la cattiveria degli uomini, è l’unico che può dare compimento alle nostre aspettative più profonde. Lui ci offre le garanzie più solide di poter vincere anche noi il male e la morte e giungere così alla felicità dell’amore donato e ricevuto.

E a voi, carissimi, che stanotte diventate cristiani; che sarete sepolti nella morte di Cristo per risorgere con Lui a vita nuova attraverso le acque del Battesimo, dico: abbracciate Cristo con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutto voi stessi; abbracciatelo come l’unica speranza che non delude; abbracciatelo con gioia, rinunciando al peccato e decidetevi di seguirlo per tutta la vostra vita, percorrendo quella via dell’amore per Dio e per il prossimo che Lui ci ha insegnato. Noi qui presenti, chiesa di Pistoia, mentre rinnoviamo le promesse del nostro battesimo, preghiamo per voi e invochiamo su di voi il dono dello Spirito perché non vi sentiate mai soli ma parte viva della Chiesa e siate fedeli ogni giorno al dono ricevuto.




Omelia della Santa Messa Crismale 2019

Omelia della Santa Messa Crismale 2019

Cattedrale di San Zeno

 

«Carissimi presbiteri, in questa Santa Messa crismale, vorrei rivolgermi quest’anno soprattutto a voi. Anche a me stesso naturalmente, dal momento che condividiamo lo stesso sacramento dell’Ordine.

Al popolo di Dio che è qui, alle famiglie, ai laici tutti, ai ragazzi che faranno la Cresima in quest’anno e che sono qui presenti, dico: lasciate che stasera parli in particolare ai vostri sacerdoti: essi sono chiamati ad essere in mezzo a voi segno di Cristo Buon Pastore e proprio per questo, parlando a loro, penso anche al bene di tutti voi.

Dunque, carissimi amici e fratelli nel sacerdozio ministeriale, una semplice e disarmante verità mi preme richiamare ora alla nostra mente e al nostro cuore: la meta della nostra vita è la santità e non qualcosa di meno. La santità è la realizzazione del disegno di Dio su di noi, è la realizzazione della nostra vita; è la nostra aspirazione più profonda e il dono grande che riceviamo da Dio e a cui dobbiamo corrispondere.

E allora ripartiamo da lì, carissimi amici, proprio dal dono di Dio che è la nostra chiamata. Ripartiamo dal giorno in cui fummo concepiti nel seno di nostra madre e ancor prima pensati da Dio come suoi ministri, per un suo imperscrutabile disegno. Cresciuti, udimmo la sua chiamata; confusa, incerta, mescolata ad altre voci, ma la udimmo. Non sapevamo bene che cosa ci chiedesse, che cosa volesse dire; fummo attratti in qualche modo dalla vita sacerdotale; forse, nel nostro desiderio si mescolavano debolezze e fragilità; ma noi quella voce la udimmo e ci affascinò. Non lo possiamo negare. Lasciammo ogni cosa per seguire quella voce; abbandonammo familiari e casa, amici e compagni per incamminarci con l’entusiasmo e insieme le contraddizioni dell’età giovanile, verso il sacerdozio. Ricordate amici carissimi, il tremore del giorno dell’Ordinazione? L’emozione della Prima Messa, mentre la gente ci si faceva intorno festante e ci significava in mille modi, con preghiere e doni, il suo affetto? Ma soprattutto, ricordiamo amici carissimi quel dialogo interiore che in quei giorni intrattenevamo con il Signore, al quale donavamo con sincera volontà tutta la nostra vita, rinunciando a farci una nostra famiglia, a un affetto particolare, ad avere dei figli nostri, a realizzare progetti di vita nostri? Volevamo soltanto seguire Gesù ad ogni costo e spendere la nostra vita per il bene delle anime. Allora non ci pesò fare il passo, perché ci sentivamo abbracciati dall’amore di Dio; sentivamo che Lui era con noi e non ci avrebbe mai abbandonato. Forse presumevamo anche un po’ delle nostre forze e il tempo ci avrebbe fatto sperimentare la nostra povertà.

Riandiamo però stasera con gioia, con gratitudine, con riconoscenza a quei giorni in cui il nostro giovane cuore incontrò il Signore e si sentì avvolto dal suo amore. Lui è ancora con noi e ci sceglie, sempre di nuovo. Lo fa anche stasera, nonostante che gli anni ci abbiano un po’ affaticato e i nostri peccati appesantito. Anche se le esperienze e le delusioni della vita ci possono aver reso a volte cinici o demotivati, ancora il Signore Gesù ci guarda negli occhi, fissa il suo sguardo su di noi e ci chiama nuovamente ad essere suoi apostoli. Continua a fidarsi di noi, si consegna nelle nostre mani e ci dice ancora “voi siete i miei amici, a voi affido il mio gregge, il mio popolo; pascetelo con amore. Rinfrancate il vostro cuore, rinsaldate il vostro spirito e confermate i vostri fratelli: il mio stesso spirito è su di voi.”

Ed eccoci alla seconda cosa che vorrei evidenziare stasera: la bellezza del nostro essere insieme in un unico presbiterio. È un dono straordinario; una esperienza davvero pasquale; una gioia grandissima. Noi non ci siamo scelti; è il Signore che ci ha messo insieme e ha fatto di noi un variegato giardino. Siamo diversi l’uno dall’altro e non è detto che, umanamente parlando, ci stiamo tutti simpatici. Lo sappiamo. Eppure, c’è qualcosa che ci lega e ci unisce, più forte di tutte le nostre divisioni e i nostri isolamenti. Non ce ne accorgiamo? Credo di si; basta un attimo di attenzione per accorgersene. Io, questo legame con voi lo sento. È forte, intenso. A volte è doloroso, come sempre lo è l’amore vero. So quanto dovrei fare di più e quanto di più dovrei essere vicino a ciascuno di voi, alla vostra vita, alle vostre ansie e speranze. Ciononostante, il legame che c’è lo sento ed è forte e ne sono grato al Signore. Cosa sarei senza di voi? Ma credo che sia così anche per ciascuno di voi nei confronti l’uno dell’altro.

Siamo davvero un unico corpo, carissimi amici, pur se con caratteri e sensibilità diverse; siamo tutti alla sequela di Gesù e vogliamo rispondere alla sua chiamata. Siamo sulla stessa barca e questo ci fa accettare di buon grado anche la a volte necessaria correzione fraterna. Siamo una cosa sola: riconoscerlo con gratitudine, fare consapevolmente “corpo”, sentendosi un cuor solo e un’anima sola è necessario oggi più che mai, quando gli attacchi alla nostra vita vengono da molte parti e a volte anche dal di dentro di ciascuno di noi. I tempi non sono facili, sono complicati, contraddittori, sconclusionati. Anche per questo dobbiamo imparare a godere della nostra unità. Di quella comunione che nasce dallo Spirito Santo diffuso nei nostri cuori e dal comune sacramento dell’Ordine ricevuto.

Un’altra cosa ancora vorrei dirvi questa sera, carissimi amici: il popolo di Dio ci aspetta, ci attende; ha bisogno di noi, del nostro zelo, del nostro entusiasmo, ha bisogno della nostra carica interiore, del nostro slancio, della nostra fede, della nostra speranza, del nostro amore. Siamone consapevoli!

Questo popolo chiede di essere radunato in Cristo; chiede di essere difeso dai lupi rapaci che insidiano continuamente il gregge del Signore. Nel popolo di Dio ci sono i piccoli, i giovani, gli sposi, i deboli, i poveri, gli anziani. Ognuno attende da noi una parola di conforto, di incoraggiamento; una testimonianza di generosità e di dedizione, di distacco dai beni terreni; una testimonianza di amore sincero alla chiesa. Oggi poi sono molti coloro che non frequentano la chiesa. Anche nei loro confronti siamo debitori del Vangelo, della comunicazione della bellezza di Gesù e della vita con Lui. Abbiamo una missione che nessun altro uomo sulla terra ha.

Vedete, dar da mangiare a chi ha fame lo possono fare tutti, anche se purtroppo molti non lo fanno e occorre spingere a questo con l’esempio; assistere i malati lo possono fare tutti; lottare per una società più giusta, anche questo lo possono e debbono fare tutti; custodire la casa comune perché sia abitabile e non contaminata, è richiesto a tutti, anche se pure qui lo dovrebbero fare in molti di più. Ma assolvere dai peccati, nessuno al mondo lo può fare, se non voi, per la potenza dello Spirito Santo. Rialzare una persona dall’abisso del male e dalla prostrazione della perdita di ogni speranza donandogli la gioia della grazia di Dio, nessun uomo ha il potere di farlo, se non voi. Nessuno al mondo può dare agli uomini il Pane della vita eterna e il Vino della nuova alleanza; nessuno può dare al mondo la parola della verità che è Dio fatto uomo in Gesù Cristo; nessun uomo ha la potestà di radunare insieme in una famiglia di fratelli, genti diverse per etnia, cultura, condizione social. Nessuno, se non voi, se non noi, per la misericordia di Dio e non certo per i nostri meriti. Se a volte siamo derisi o non capiti, se ci sembra di perdere tempo o di essere assolutamente fuori dal mondo, non scoraggiamoci: siamo certi che questa è la chiamata del Signore per cui siamo venuti al mondo e a questa dobbiamo rispondere.

Vorrei concludere queste mie riflessioni invitandovi, carissimi amici e confratelli, a riconoscere anche quanto di bello riceviamo ogni giorno dal popolo di Dio, quel popolo che è qui stasera rappresentato. Siamo debitori nei suoi confronti. Perché questo popolo continua a volerci bene, nonostante tutti i nostri limiti; in genere ci apprezza e ci stima; ci è vicino e persino comprende i nostri difetti. Spesso prega per noi e noi, io in particolare, sentiamo davvero la forza di questa preghiera. Senza, non ce la faremmo mai.

Quanto ci hanno dato le persone che abbiamo incontrato nel nostro ministero, quelle stesse magari che sono state affidate a noi! Si sono rivelate spesso veri strumenti nelle mani di Dio; ci hanno fatto bene e fatto del bene, anche quelle che qualche volta ci hanno fatto soffrire.

Per questo popolo di Dio a cui apparteniamo e di cui siamo parte, noi rivolgiamo stasera una sincera preghiera al Signore; su di esso invochiamo la benedizione del cielo, mentre nuovamente decidiamo di metterci al suo servizio, nel nome del Signore. E questo è anche il senso delle promesse sacerdotali che ora ci apprestiamo a rinnovare».




Morti viventi o risorti?

Venerdì della V° settimana di quaresima – 12 aprile 2019 – Quinta stazione quaresimale

 

L’ultima tappa del nostro cammino quaresimale si conclude con il racconto della risurrezione di Lazzaro, l’amico di Gesù. Il ciclo battesimale delle letture bibliche delle ultime tre settimane di Quaresima, ci ha condotto per mano, prima a riconoscere con la samaritana il bisogno di un’acqua di salvezza che irrighi i deserti della nostra anima e del mondo; poi col cieco nato, a chiedere la luce degli occhi per vedere Dio e il nostro prossimo. Questa sera ci avviciniamo alla Pasqua come al trionfo della vita con la vicenda di Lazzaro.

Il quadro che l’evangelista Giovanni ci presenta è abbastanza straziante. Vediamo le lacrime di Marta e di Maria; la loro angoscia. Vediamo anche l’affetto grande e intenso di Gesù per l’amico. “Allora scoppiò in pianto”: questo particolare della narrazione ce lo manifesta.

Ed ecco che in questo cotesto straziante, Gesù compie il miracolo. Si tratta di un “segno”.

La risurrezione di Lazzaro dunque è solo un segno di una verità più profonda…Quella di Lazzaro non è come la risurrezione di Cristo, né come quella che ci è promessa da Gesù.

Nota magnificamente Joseph Ratzinger nel suo libro “Gesù di Nazaret” (pag. 271-272): «Se nella risurrezione di Gesù si fosse trattato soltanto del miracolo di un cadavere rianimato, essa ultimamente non ci interesserebbe affatto. Non sarebbe infatti più importante della rianimazione, grazie all’abilità di medici, di persone clinicamente morte. Per il mondo come tale e per la nostra esistenza non sarebbe cambiato nulla.

Le testimonianze neotestamentarie invece non lasciano alcun dubbio che nella risurrezione del Figlio dell’uomo sia avvenuto qualcosa di totalmente diverso. …

Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomini, una possibilità che interessa tutti e apre un futuro, un nuovo genere di futuro per gli uomini».

Queste illuminate riflessioni spiegano ciò di cui la risurrezione di Lazzaro è segno: la risurrezione di Cristo e la nostra vita con Lui.

Ben più di quello che è capitato a Lazzaro, noi infatti siamo stati resi partecipi della Risurrezione di Cristo; mediante il Battesimo, siamo stati sepolti nella morte di Cristo e risorti con Lui. La nostra identità di uomini è ormai quella di risorti con Cristo, ciò per cui siamo venuti al mondo e che ci identifica come uomini.

Questo è vero al punto che se non viviamo da risorti con Cristo, semplicemente non siamo uomini; in realtà neppure siamo vivi. Siamo piuttosto dei morti che camminano per la strada, dei “morti viventi”.

Ma che vuol dire vivere da risorti?

Credo che la risposta a queste domande sia triplice: innanzitutto significa vivere nella gioia, con il cuore pieno di speranza, senza farsi abbattere da niente. Nella gioia cioè di sapere che niente ci può davvero ferire e uccidere, se si rimane attaccati a Gesù Cristo; che le avversità e le contrarietà della nostra esistenza, tutte le croci che in modo o nell’altro costellano i nostri giorni, come pure tutte le fatiche che si incontrano nella testimonianza della fede, tutto, proprio tutto, è illuminato dalla gioia pasquale, dall’incontro col risorto che continuamente ci ripete: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro».(Mt 11,28).

In secondo luogo, per vivere da risorti, occorre nutrirsi di Cristo parola e pane di vita eterna. Gesù lo ha detto a chiare lettere: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24).

Infine, c’è un terzo modo ancora, fondamentale, per vivere da risorti, ed è l’apostolo Giovanni a dircelo nella sua prima lettera, anche qui con molta chiarezza: «Fratelli, noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui». (IGv 3, 14-15).

 

 




Un mondo di ciechi

Venerdì della IV° settimana di Quaresima – 5 aprile 2019 – Quarta Stazione Quaresimale

“Un mondo di ciechi”

Il vangelo del cieco nato ci introduce sempre di più nel mistero pasquale. Il Signore infatti, come disse lui stesso nella sinagoga di Nazareth all’inizio del suo ministero, è venuto per dare la vista ai ciechi. Anzi, riprendendo il brano evangelico appena ascoltato, Gesù precisa, sconcertandoci un po’, per la verità: “Io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”.

Tornerò più avanti su questa enigmatica frase. Intanto però una cosa è certa: ridare la vista ai ciechi è una caratteristica dell’opera del Salvatore che culmina appunto con la Pasqua. Possiamo dunque pensare il mistero pasquale come un evento che toglie il velo dagli occhi degli uomini, che ridà la vista agli uomini, resi ciechi dal peccato.

Nelle vicende pasquali che vivremo tra non molto, la passione e la morte del Signore, come pure la sua sepoltura, sono ben rappresentate dal buio, dalla notte, dall’oscurità: è il trionfo delle tenebre. In quei momenti, tutto il mondo appare avvolto da densa caligine e niente sembra più riconoscibile. Accade qualcosa di atroce che oscura il cuore, facendo morire ogni speranza. Colui che aveva fornito una speranza ad Israele, Gesù, nel quale molti avevano creduto, appare definitivamente sconfitto. L’oscuro signore delle tenebre sembra aver vinto e il mondo degli uomini è cieco, non vede più, non riconosce più il valore delle cose, il volto degli altri; non distingue più il bene dal male perché il bene non risulta più evidente, sembra definitivamente sparito dal mondo.

La luce viene col mattino di Pasqua. Lì tutto è luminosità e chiarore; il Risorto risana gli occhi degli uomini accecati dall’odio, dalle cattive passioni, dall’indifferenza. Gli uomini e le donne cominciano a vedere. La loro vista si acuisce a tal punto da riuscire a vedere anche l’invisibile: vedono il Risorto, colui che è passato dalla morte alla vita; lo riconoscono che cammina con loro e mangia con loro e nello stesso tempo riescono a vedersi tra loro, a riconoscersi e ad abbracciarsi come fratelli. La Verità risplende luminosa e il bene torna a farsi evidente, anche se l’oscurità sconfitta continuerà a insidiare i discepoli che restano nel mondo.

Con la Pasqua accade ciò che nel miracolo del cieco nato si annuncia. Come il cieco passa dalla oscurità alla luce per l’intervento taumaturgico del Cristo, così ognuno di noi, per la passione, morte e risurrezione di Cristo, passa dall’oscurità del male alla luce del bene. Il cieco nato riacquista la vista e riesce così a vedere gli altri e il creato; noi, per la Pasqua, riacquistiamo quella vista spirituale che ci fa riconoscere il Risorto vivo e presente in mezzo a noi, gli altri come fratelli nostri e la storia come storia di salvezza. La vicenda del cieco nato ci fa pregustare la gioia della Pasqua.

Ma stasera siamo ancora in Quaresima e il cammino penitenziale non è ancora terminato. Ed ecco allora che il miracolo della guarigione del cieco, non può non farci riflettere sulle nostre cecità. Perché sia Pasqua per davvero – ci ricorda la liturgia penitenziale della Quaresima – occorre riconoscere le tenebre che sono in noi, che oscurano la nostra coscienza e si allungano come ombre minacciose nella vita di chi ci sta accanto e nella stessa società. E qui allora torna in ballo e si spiega l’enigmatica frase del vangelo che ho citato all’inizio: “Sono venuto, dice il Signore, perché quelli che vedono, diventino ciechi”. Come a dire, sciolto l’enigma: che chi crede di vederci e di vederci bene, mentre non si rende conto della sua cecità, è in realtà il vero cieco perché non vede né Dio né gli altri.

E allora soffermiamoci un attimo a pensare alle nostre cecità, perché non vorremmo meritarci il rimprovero che Gesù rivolge ai farisei, come abbiamo sentito nella conclusione del vangelo di questa sera: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane.”

Allora no. Noi non vediamo. Lo vogliamo riconoscere. Non ci vuol molto a capirlo del resto. Basta un attimo di attenzione per capirlo. Quante volte infatti il Signore si affaccia nella nostra vita, si fa presente nelle pieghe della nostra esistenza, negli avvenimenti che ci capitano e non lo vediamo! Quante volte Egli non c’è nella nostra vita; per noi è assente; non ci accorgiamo di Lui, delle sue premure, dei suoi rimproveri. Quante volte non lo riconosciamo nei segni sacramentali, perché la nostra fede è fiacca e li trasformiamo in gesti vuoti o magici. Quante volte non lo vediamo presente in mezzo a noi, vivo e reale, Risorto e datore di vita e riduciamo il nostro radunarci a un semplice convenire umano o a una occasione di scontro tra di noi. Quante volte infine non lo riconosciamo nel volto degli altri, della sposa, dello sposo, del figlio, dell’anziano, oppure del povero all’angolo della strada, del migrante, del rifugiato, persino del nemico!

Se poi allarghiamo lo sguardo, bisogna constatare che per certi versi si vive oggi in un mondo di ciechi, perché non si riesce più nella nostra società a cogliere l’evidenza del bene che non è più evidente a molti e lo si scambia facilmente per male o infelicità. Ciechi e guide di ciechi, verrebbe da dire. Per cui non si riesce più a scorgere né la presenza di Dio Padre buono e provvidente, né la dignità inalienabile della persona umana dal concepimento fino alla sua morte naturale, né il valore fondamentale della famiglia fondata sul matrimonio; e quel che è peggio, la menzogna la fa da padrona in ogni aspetto della vita sociale; tutto viene manipolato a proprio uso e consumo per piegarlo ai propri interessi, a volte affermando nello stesso tempo una cosa e il suo contrario, in una contraddizione palese ma tranquillamente nemmeno avvertita. Accecati dalle passioni, accecati dalle voglie, accecati dai desideri irrefrenabili, dalla rabbia e da un narcisismo senza limiti: questo sembra il quadro drammatico della nostra società.

In essa, carissimi fratelli e amici, ognuno di noi è  chiamato a una conversione profonda del cuore, così da poter dire col cieco nato, con umiltà ma insieme forza e determinazione: “Solo una cosa so: ero cieco e ora ci vedo”. E se qualcuno, preso dalla rabbia per la nostra vista riacquistata, ci vorrà far tacere dicendo come al cieco “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”, noi risponderemo che si, è vero, siamo nati nei peccati e conosciamo il peccato, ma il Signore ci ha usato misericordia perché tutti potessero avere speranza. E se anche ci cacceranno fuori dalla società, sempre come accadde al cieco del vangelo, tacciandoci magari di medievali e antiscientifici, noi ce ne andremo contenti perché sappiamo con San Francesco che lì sarà perfetta letizia.




Dammi da bere

Venerdì della III° settimana di quaresima – 29 marzo 2019. Terza stazione quaresimale (24ore per il Signore)

“Dammi da bere”

In queste ultime 3 stazioni quaresimali, seguendo quello che ci consente la liturgia, celebriamo l’Eucaristia con le letture del ciclo domenicale A, per cui abbiamo stasera la storia della samaritana, venerdì prossimo quella del cieco nato e il successivo quella di Lazzaro. Un percorso tipicamente pasquale che ci introduce direttamente nel mistero della nostra salvezza.

Che dire della storia della samaritana? Il bellissimo testo giovanneo ci presenta un dialogo straordinario tra Gesù che, stanco, si ferma al pozzo di Giacobbe, e questa donna samaritana dai molti mariti, che va ad attingere acqua.

Un dialogo incalzante, dove Gesù si mostra quel fine pedagogo che è. Un colloquio di salvezza, perché conduce pian piano la donna alla luce della conversione, alla gioia di una scoperta che rinnova profondamente la sua vita e la rende testimone gioiosa del Messia.

Un dialogo, nel quale possiamo benissimo entrare anche noi, nel senso che possiamo benissimo ritrovarci nei panni di questa donna che incontra il Signore. In effetti, il Signore anche con ciascuno di noi intesse un colloquio. Tutta la nostra vita diciamo pure che è un dialogo con Lui. Un dialogo di salvezza. Fin dal seno materno. Ancor prima addirittura che fossimo formati nel seno di nostra madre, Dio ci ha chiamato, ci ha interpellato, è entrato in dialogo con noi. Possiamo anzi ben dire che noi esistiamo proprio perchè Dio ci ha rivolto la parola, ci ha chiamato dalle tenebre del nulla all’esistenza. Noi siamo “costituiti” da questo dialogo che Dio intesse con noi per condurci vita piena, alla pienezza della comunione, facendoci superare quell’afasia, quella mancanza di parola e di comunicazione, quella incapacità di dialogo che caratterizza il peccato e una vita nel peccato.

Il dialogo di salvezza di Dio con ciascuno di noi, si è reso visibile in Gesù Cristo, parola vivente di Dio eterno. Verbo eterno del Padre, Egli ha preso carne umana per entrare in dialogo concreto con noi a partire dalla nostra stessa carne, dalla nostra stessa esperienza umana. In fondo, la vita di Cristo sulla terra, che cosa è stata se non un dialogare continuo con noi uomini? Se non un entrare in una conversazione umana per condurci attraverso il suo dialogare con noi uomini, con noi peccatori, sbandati, refrattari e dal cuore indurito, oltre il peccato; per farci entrare in quel divino colloquio che intercorre tra le persone della stessa indivisa Trinità?

E così, ognuno di noi vive questo dialogo con il Signore per tutta la sua vita. Lui ci parla, ci incontra, attende risposta; aspetta le nostre lentezze; tace silenzioso per rispettare la nostra libertà, pronto però a rivolgerci ancora la parola, per spronarci ad essere nuovi, a riprendere in mano la nostra vita, a camminare dietro a lui nella gioia che si fa amore verso i fratelli. Tutto ci parla di Lui; in ogni uomo è Lui che ci parla; così nelle Sacre Scritture come nei santi sette segni; così nell’intero creato e nella storia.

Vivere questo colloquio a tu per tu col Signore, accettare di dialogare con lui, dicendogli ciò che siamo, ciò che desideriamo, i nostri turbamenti e le nostre miserie; ascoltando la sua parola vivificante che penetra fin nel midollo delle nostre ossa, discutendo anche con lui quando ciò che accade ci risulta incomprensibile e persino inaccettabile, tutto questo è la dinamica profonda della vita cristiana, e nel mantenere vivo questo dialogo col Signore, come fa, pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, la donna samaritana, c’è la via della nostra salvezza.

Nel dialogo con la donna di Samaria vorrei ora brevemente soffermarmi sull’inizio. Su quella prima parola che Gesù le rivolge: “Dammi da bere”. Una richiesta che dobbiamo sentire rivolta a ciascuno di noi stasera. Particolarmente vorrei sottolineare il fatto che questa richiesta il Signore Gesù tante volte ce la rivolge attraverso gli altri, attraverso cioè chi è nel bisogno e ha sete, è affamato, nudo, ammalato, carcerato o pellegrino, oppure dubbioso, afflitto, nell’ignoranza o nel peccato. Rispondere a questa richiesta è dialogo di salvezza per noi: gli altri infatti sono sempre coinvolti nel dialogo tra noi e Dio. Inevitabilmente, necessariamente coinvolti. Non c’è dialogo col Signore che non includa anche i fratelli.

La sete, la fame, l’indigenza, la sofferenza di chi è nel disagio, qui da noi e nel mondo, allora non può lasciarci indifferenti. Se così fosse, sarebbe davvero una falsità essere qui e celebrare devotamente l’Eucaristia; sarebbe un falso dialogo col Signore: un dialogo menzognero; una contraddizione in termini.

Domandiamoci allora se almeno ci accorgiamo della sete che c’è intorno a noi, del bisogno che c’è in coloro che ci circondano, a partire da chi ci sta accanto, per arrivare fino alle necessità di chi abita lontano da noi. Bisogno di sostegno materiale certo ma anche e soprattutto di sostegno spirituale. Sete di acqua che disseta il corpo e di pane che lo nutre ma anche sete e fame della parola di Dio, perché “non di solo pane vive l’uomo”. Sete di acqua che si attinge ai pozzi della terra ma anche e soprattutto direi, sete di acqua viva che si attinge dal costato di Cristo. Rientrando in noi stessi, forse ci accorgeremo di quanti poveri lazzari bussano alla porta del nostro cuore e quanto invece questa porta rimanga chiusa o, nel migliore dei casi, socchiusa. Il Signore però nei nostri fratelli, insiste: “Dammi da bere” e sulla croce, la domanda è ancora più stringete: “Ho sete”. Chiediamo allora stasera allo Spirito Santo che ci apra gli occhi per vedere la sete che c’è attorno a noi e chiediamogli che questa sete ci tocchi profondamente e ci inquieti, di una santa inquietudine. E lo Spirito ci faccia anche capire che noi chiesa, noi cristiani, se da una parte ci dobbiamo impegnare con ogni uomo di buona volontà perché tutti abbiano su questa terra il necessario per vivere dignitosamente, dall’altra siamo chiamati a dare al mondo quell’acqua viva che è Cristo, quell’acqua che risana l’uomo dalle ferite del male e che lo rende “creatura nuova”.




Il fratello ingombrante

III° venerdì di quaresima 21 marzo
Seconda Stazione Quaresimale (Chiesa di Santa Maria Liberata – Chiesa di San Bartolomeo Apostolo)

“Il fratello ingombrante”

La storia di Giuseppe venduto dai fratelli è tristemente attuale, sempre attuale direi, nella storia del mondo. Dal tempo di Caino e Abele, il fratricidio o il rifiuto del fratello segna le vicende umane; le tinge drammaticamente di sangue. Sarà anche per questo, per indicare una via diversa possibile che Gesù, tra i suoi apostoli volle ben due coppie di fratelli? Forse, chissà.

Comunque è così: la cronaca del mondo è piena di fratelli che odiano i fratelli. E il motivo? Ascoltiamo il testo della genesi: «Israele amava Giuseppe più di tutti suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche larghe. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente». Il motivo dunque è evidente: l’invidia. E’ sempre così. E’ l’invidia che fa maturare l’odio e pone le basi anche dell’uccisione. Anche se non sempre arriva a quel punto, come si vede nel racconto che abbiamo ascoltato, dove Giuda mostra un qualche sentimento e convince gli altri a non uccidere Giuseppe ma a venderlo, senza che questo non sia ugualmente grave.

Ebbene si, l’invidia. Ci sembra a volte che non sia niente, o sia cosa di poco conto; la declassiamo facilmente a semplice immaturità psicologica e tendiamo a sminuirla o a non riconoscerla in noi. Difficilmente si ammette di essere invidiosi. L’invidia invece è un grande peccato e un vizio capitale. Essa (Dice il Catechismo della chiesa cattolica 2539 – 2540) «Consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui e nel desiderio smodato di appropriarsene, anche indebitamente». Quando arriva a volere un grave male per il prossimo, l’invidia diventa peccato mortale: Sant’Agostino vede nell’invidia «il peccato diabolico per eccellenza». e San Gregorio Magno dice che «dall’invidia nascono l’odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causata dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna».

E perché si è invidiosi? E’ semplice: perché si pensa di non essere amati a sufficienza, come ci meritiamo o vorremmo. Soprattutto perché cediamo al cattivo pensiero che il bene che hanno gli altri, tolga qualcosa a noi. Come sempre, la causa è il nostro io presuntuoso e superbo che vorrebbe tutto per sé e non tollera di non essere considerato il più bravo, il più grande, il più meritevole di tutti.

Ma colui che è oggetto di invidia che fa? Di solito, o gode di questo e trova compiacimento nel veder soffrire gli altri e si diverte mettendoli sotto i piedi, oppure, al contrario, si riempie di rabbia e di risentimento, meditando vendetta, perché attribuisce all’invidia altrui il suo insuccesso, il non aver potuto raggiungere gli obiettivi che si era prefissato. E quando si fa così in questo modo, ancora si pecca, in quanto è sempre l’io, il nostro io a voler prevalere. La storia di Giuseppe invece ci racconta un’altra storia, con un altro finale. Giuseppe, quasi ucciso e venduto dai fratelli, sarà proprio lui che salverà i fratelli nel tempo della carestia e li riabbraccerà pieno di amore.

Come non vedere allora in Giuseppe, la figura di Nostro Signore di cui ci parla il Vangelo, pietra angolare nonostante sia stata scartata dai costruttori? E’ Lui, Gesù, ad essere stato venduto da noi e ucciso sulla croce. I contadini di cui parla la parabola evangelica sono mossi dall’invidia come i fratelli di Giuseppe, è evidente. Invidia nei confronti del padrone della vigna. Sono invidiosi della ricchezza del padrone per cui non vogliono dargli il suo. Bastonano i servi, uccidono il figlio, pensando addirittura – scioccamente – come sempre è sciocco l’invidioso – di prendere l’eredità del figlio. In quei contadini siamo rappresentati tutti noi, l’umanità intera, dalle origini fino ai nostri giorni; l’uomo infatti, sembra assurdo, ma eppure è invidioso di Dio, della sua potenza, delle sue prerogative e vuole strappargli dalle mani questo potere; vuole diventare Dio, prendere il suo posto, senza rendersi conto che Dio in realtà tutto dono all’uomo, anche la sua natura divina e che quindi non c’è bisogno di strappargli niente, perché tutto si riceve, quando si è vuoti di se stessi e si è pronti a ricevere Dio come un dono. L’uomo invece spesso si fa attrarre dal maligno che è tale proprio perché roso dall’invidia nei confronti di Dio e dell’uomo amato da Dio.

Ma quando l’ uomo si lascia prendere da questa invidia sulla scia del maligno e vuole rubare il posto a Dio, bramando il suo potere e la sua gloria, inevitabilmente e immediatamente si trasforma in un carnefice dell’altro uomo. Credendosi Dio, vuole essere riconosciuto come tale da tutti gli altri esseri viventi ed è perciò spinto a dominarli, a schiacciarli, ad asservirli a sé, e quando questi in qualche modo si ribellano o si sottraggono o anche solo tentano di sottrarsi, ecco che debbono essere distrutti, annientati.

Così, carissimi fratelli e sorelle si spiegano i grandi genocidi della storia, le ideologie che hanno fatto milioni di morti, ma anche ogni manipolazione arbitraria della natura umana, i femminicidi che riempiono le cronache e ogni violenza nei confronti di chi è diverso. La mala pianta però alberga dentro di noi, dobbiamo riconoscerlo: i fatti ricordati non si sarebbero potuti verificare e non si potrebbero verificare se la mala pianta dell’invidia non fosse nel cuore anche di ciascuno di noi.

L’opera nefasta del maligno però e anche tutta la nostra invidia non riusciranno mai a sconfiggere Cristo e a distruggere l’opera di Dio. Anche se come Giuseppe, Gesù è stato considerato e ancora molti lo considerano un fratello “ingombrante”, del male che si è scaricato e che si scarica su di Lui, ne fa motivo di vittoria e quindi di speranza per l’umanità. Egli è il Risorto, nostro Salvatore ed è una meraviglia ai nostri occhi. Accorriamo dunque a Lui con fiducia in questo tempo quaresimale; chiediamogli che ci cambi il cuore e che al posto della invidia distruttrice, mettano radici la benevolenza, la gratitudine e la carità sincera. Chiediamo che Dio ci faccia sentire così forte il suo amore, così intensamente, così pienamente da liberarci dalla schiavitù dell’invidia.

+ Fausto Tardelli




Ciò che a Dio non piace

II° venerdì di quaresima 15 marzo 2019
Prima Stazione Quaresimale (Battistero di San Giovanni in Corte – San Giovanni Fuorcivitas)

“Ciò che a Dio non piace”

 

“Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?” Queste parole del Signore riportate nel brano del profeta Ezechiele, ci fanno capire una cosa: che Dio ha un suo modo di guardare al comportamento dell’uomo. Lo fa sempre in una prospettiva di salvezza, mai di punizione o tantomeno di vendetta.

Nel suo modo di agire non c’è quel risentimento nei confronti di chi gli ha fatto un torto, così tipico tra noi uomini. Dio non è spinto dalla voglia di far pagare al reo il fio del suo comportamento. Dio non soffre di “lesa maestà”, per cui chi si è permesso di offenderlo deve essere punito, annientato.

Niente di tutto questo: Dio ha piacere, desidera invece soltanto e senza retro-pensieri, che il malvagio desista dalla sua condotta e viva, rivelandosi in questo modo un Dio che ama la vita, che è fonte della vita e che ama donarla. Vengono subito qui in mente le parabole evangeliche della misericordia, laddove si dice che c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione; soprattutto viene in mente la parabola del buon pastore che va in cerca della pecora perduta e se la carica sulle spalle con infinito amore per riportarla ai pascoli e alle acque della vita.

Di fronte a un Dio così, carissimi amici, non ci deve allora far fatica fare verità su noi stessi; non ci può creare disagio guardare in faccia con sincerità le nostre malvagità. Non c’è da nascondere niente.

La prima cosa che forse dobbiamo imparare nel tempo della Quaresima è anzi proprio questo: riconoscere con sincerità la malvagità che è in noi. È l’unico modo per sperimentare la cura premurosa del Signore e il suo amore infinito. Egli infatti, dice ancora in altra parte del vangelo, è venuto per i malati, per i peccatori, per coloro che si sono perduti, non certo per chi si sente a posto, già bravo, “in regola” e quindi autosufficiente e bisognoso di nulla. In realtà questi è già morto, la vita lo ha abbandonato.

Per non correre il rischio di rimanere esclusi dalla vita, dobbiamo chiedere che il Signore con la sua luce illumini anche gli angoli più reconditi della nostra coscienza, per mettere a nudo tutte le nostre miserie, così da poter vedere bene quei compromessi che pian piano finiscono per impastare la nostra vita e renderla mediocre: né calda né fredda, quindi, a detta del libro dell’apocalisse, vomitevole. Che il Signore ci illumini per poter riconoscere la nostra malvagità in tutta la sua gravità e anche in tutte le sue conseguenze negative per la vita del mondo. Si, perché si fa presto a gridare contro i mali del mondo, magari contro il surriscaldamento del pianeta e i cambiamenti climatici come si è fatto in questa giornata, ma quanto si è avvertiti che la causa di ogni male è il peccato che ognuno di noi commette ogni giorno? Che la causa è la sistematica trasgressione di quelle dieci parole che si raccolgono nel duplice comandamento dell’amore?

Come i raggi del sole in una stanza fanno vedere in contro luce la polvere che c’è nell’aria, così la luce del Signore rende evidenti i nostri mali: e di questo non dobbiamo che ringraziare il Signore. E’ una vera grazia, che all’inizio di questa quaresima vogliamo chiedere.

Avendo però ben chiaro una cosa, come ci ricorda ancora il profeta Ezechiele; che non basta accorgersi e vedere la nostra malvagità: occorre anche “allontanarsi da tutti i peccati, osservare tutte le leggi di Dio e agire con giustizia e rettitudine”. Il Signore è molto chiaro in proposito. Il suo perdono non ci trova già sani. Il suo amore ci raggiunge mentre siamo ancora peccatori. Questo è vero. Ma può produrre frutto soltanto se trova in noi disponibilità a un sincero cambiamento di vita.

L’insegnamento di Cristo propostoci nel vangelo di stasera in questo senso è una grande grazia per noi; esso infatti ci permette di riconoscere la nostra malvagità, di aprirci al perdono di Dio, mostrandoci inoltre la strada da intraprendere per una via nuova. In modo particolare lo fa andando a scoprire le magagne che guastano il rapporto con gli altri, relazione essenziale nel progetto di Dio per l’uomo.

La malvagità che Cristo stasera rivela presente nel nostro cuore è quella che ci fa agire in modo diametralmente opposto a quello di Dio che, abbiamo visto, non tiene conto del male ricevuto, non ci punisce, non ce la fa pagare, non ci disprezza. Noi, al contrario abbiamo spesso un cuore pronto all’ira nei confronti degli altri, impaziente, prepotente. Incredibilmente omicida, come proprio oggi abbiamo visto in Nuova Zelanda. Magari siamo capaci di dire con ipocrisia che in fondo noi non siamo di quelli che uccidono, sapendo bene però che in realtà gli altri si possono uccidere in tanti modi, anche solo con le parole o con l’indifferenza.

L’esame si fa stringente, perché il Signore Gesù mette a nudo anche la malvagità che sta dentro la semplice offesa. Apparentemente innocua, l’offesa dell’altro può essere davvero carica di cattiveria, di disprezzo, persino di odio. E in questi tempi di social diffusi, non dovremmo forse fare davvero molta attenzione alle parole che pronunciamo? Alla cattiveria che c’è dentro le nostre parole, pronunciate o scritte? Al veleno che si cela dietro apparenze perbeniste e magari anche educate?

Nell’insegnamento evangelico, Gesù ci indica anche la strada da intraprendere perché il suo amore non sia vano in noi e tutto non si riduca ad un perdono a buon mercato. Sono indicazioni concrete che mostrano atteggiamenti e comportamenti nuovi. Indicazioni di cui far tesoro. Eccole: impegnarsi per la riconciliazione col fratello, impegno per Gesù prioritario. Anche rispetto all’offerta a Dio, alla relazione con Dio. Impegnarsi per la riconciliazione significa prende atto realisticamente che qualcosa si è rotto, che le relazioni a volte si frantumano, su spezzano, per cui occorre appunto riconciliarsi, ricucire. Una riconciliazione – si badi bene – da ricercare non solo perché noi siamo in disaccordo con qualcuno ma perché – come dice Gesù – qualcuno ha qualcosa contro di noi. Insieme alla riconciliazione, Gesù ci invita a ricercare il dialogo, almeno fin dove è possibile; a cercare una via di accordo con l’altro, parlando, incontrandosi, confrontandosi. Non sempre ciò è possibile. Ma anche dove ciò risultasse impraticabile, il cuore deve comunque sempre rimanere lontano dal disprezzo dell’altro, deve restare aperto all’incontro, sempre proteso al dialogo, ostinatamente desideroso che persino colui che ci ha fatto del male, si converta e viva.

E’ così allora che potremo essere davvero figli di Dio, di quel Dio che non ha piacere della morte del malvagio, ma che si converta e viva.