La Chiesa sempre rinnovata dallo Spirito Santo

Serra Club San Miniato
18 gennaio 2019

 

Inizio con una nota un po’ negativa: ho come l’impressione che stiamo trasformando la chiesa in una organizzazione solo umana con finalità puramente terrene. Stiamo forse facendo della chiesa una ONG umanitaria? Vi ricordate l’omelia di Papa Francesco, la prima, dopo essere stato eletto, nella cappella Sistina? – illuminante per le indicazioni circa il suo pontificato: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo. Erano le tre azioni a cui invitava la chiesa e tutti noi. E a proposito del confessare diceva: “Noi possiamo camminare quanto vogliamo, possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va”. Diventeremo una ong filantropica, “ma non la Chiesa, sposa del Signore”. E aggiungeva: “Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno i castelli di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza”. Ma – proseguiva Papa Francesco –  “chi non prega il Signore, prega il diavolo”, perché “quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio”.

Sempre, nella storia della chiesa, si è corso il rischio e molte volte vi si è caduti dentro, di fare della chiesa una realtà solamente umana, un potere mondano, un regno, una casta, un codice di leggi…. Oggi corriamo il rischio di fare della chiesa una organizzazione filantropica.  Ma la chiesa – diceva e dice bene il Papa – non è un’organizzazione umanitaria. E’ la sposa dello Spirito Santo; è la comunità di coloro che si lasciano guidare dallo Spirito e vivono la comunione con il Padre, mediante il Figlio, appunto nello Spirito Santo; essa è madre che genera figli alla vita eterna per opera dello Spirito, come Maria Santissima; madre che fa rinascere alla vita di grazia gli uomini peccatori; essa è la comunità dei redenti che annuncia al mondo i cieli nuovi e le terre nuove, che invita alla conversione l’uomo e lo aiuta ad incontrarsi con il Cristo Salvatore.

La Chiesa e lo Spirito Santo sono dunque inscindibilmente legati. Potremmo dire così, articolando la mia riflessione: la Chiesa è continuamente rinnovata dallo Spirito santo perché nasce da Lui e perché vive e agisce grazie a Lui.

1.

Che la chiesa nasca dallo Spirito Santo è abbastanza evidente. Non è nemmeno la semplice chiamata di Cristo al discepolato, quella cioè che Gesù rivolge agli apostoli e ai vari discepoli, che fonda la chiesa. Del resto, la stessa narrazione evangelica della chiamata dei dodici avviene nella luce pasquale della morte e della resurrezione di Cristo, nonché – importantissimo – della Pentecoste. In effetti, la Chiesa nasce a Pentecoste e nasce con uomini fragili e peccatori, gli apostoli. Lo Spirito Santo fa nascere la chiesa non da uomini forti e coraggiosi, da uomini “bravi”, che possono esibire dal mondo lo splendore della loro coerenza, la forza della loro bontà. Tutt’altro. Lo Spirito costituisce come chiesa uomini che, eccetto Maria santissima, non avevano alcuna credenziale davanti al mondo. Chiunque avrebbe potuto dire loro, qualora avessero cominciato a predicare, come poi hanno fatto, ma voi, dove eravate quando il vostro maestro veniva condannato e crocifisso? Proprio voi che siete fuggiti, che non avete avuto il coraggio di seguire il vostro maestro fino in fondo, ora venite a farci la predica? Cosa mai avrebbero potuto rispondere a una tale accusa gli apostoli? Assolutamente niente. Avrebbero solo potuto dire: avete perfettamente ragione. Ma loro erano lì non per i loro meriti e le loro capacità, bensì in forza dello Spirito Santo che aveva avuto misericordia di loro e li aveva fortificati, riunificati in Cristo e resi capaci di parlare al mondo. Come infatti accadde a Pietro che parlando, toccò il cuore dei suoi ascoltatori, dice il testo degli Atti. Forse per le sue capacità, lui che aveva rinnegato tre volte il Signore imprecando e giurando che non lo conosceva? Niente affatto! Ciò che dette forza alla parola di Pietro non fu la sua coerenza, la sua bravura, l’essere senza peccato, ma la potenza dello Spirito Santo.

La chiesa dunque nasce dallo Spirito Santo e questa nascita è continua; sempre la fa nascere. E’ opera sua e non potrebbe essere altrimenti, perchè come dicevo, dei poveri uomini peccatori non avrebbero mai avuto la forza e la capacità di testimoniare Cristo. Non solo. Lo Spirito è all’origine della chiesa anche perchè è per la potenza dello Spirito, che genti diverse, molto diverse tra loro, poterono e possono riunirsi insieme e formare un solo popolo, una sola famiglia. Il miracolo della glossolalia nel momento della Pentecoste sta lì a significare questa unità molteplice e diversificata, dove ognuno riesce ad ascoltare nella propria lingua l’identico annuncio di salvezza. E’ un evento di comunione, la Pentecoste. E’ Babele rovesciata. Là la volontà caparbia dell’uomo voleva unificare tutto in un unico progetto – un progetto tutto umano –  che raggiungesse il cielo; a Pentecoste invece, dal cielo lo Spirito si effonde sugli uomini e, pur nella originalità di ciascuno, si viene a formare una sola famiglia. La chiesa nasce plurale: giudei e Gentili, Parti, elamiti, greci e romani, abitanti della Mesopotamia e del Ponto, genti diverse con storie e vicende, anche personali diverse; centurioni e soldati romani insieme a zeloti, farisei membri del sinedrio con pubblicani; prostitute, ladri, assassini con ebrei osservanti della legge. La chiesa nasce come un miracolo di comunione. Non è un prodotto umano, non è farina del nostro sacco. E’ un vero e proprio miracolo. Ed è un miracolo che continua nel tempo fino ad oggi, nonostante tutto. Solo lo Spirito di Dio può realizzare questa comunione che non è il risultato dello sforzo, della intelligenza o delle diplomazie umane, anche se ognuno è chiamato a fare la sua parte, che consiste esclusivamente nell’aprirsi con docilità all’azione dello Spirito, e lasciarsi trasformare da Lui per diventare uomini “pneumatikoi”, “spirituali”.

Come è stato possibile allora – mi si dirà – che lungo i secoli la chiesa si sia divisa, i discepoli di Cristo si siano separati? E’ chiaro: ciò è stato possibile quando ci si è opposti allo Spirito di Dio, quando non ci si è lasciati guidare da Lui e si sono assolutizzate le proprie idee, i propri progetti, facendo della chiesa una cosa “nostra”, mondana, solamente umana. Ecco perchè – a mio parere – anche oggi rischiamo pericolosamente la divisione e la frantumazione della chiesa. Perchè a dispetto di quello che diciamo e affermiamo, in realtà mi pare che non stiamo mettendoci in umile e orante ascolto dello Spirito Santo, rendendoci docili soltanto a Lui; ci stiamo piuttosto incaponendo sulle nostre idee, sulle nostre linee teologiche e pastorali, contrapposte a quelle degli altri, perchè vogliamo che prevalga una certa “linea” invece che un’altra e per farlo siamo pronti a tutto, adottando strategie comunicative e di occupazione di posti perché vinca la “linea”. Ma che linea e linea! E’ lo Spirito Santo che guida la Chiesa ed è a lui che con molta umiltà dobbiamo esser docili, tutti, dal Papa all’ultimo fedele – perchè è solo lo Spirito che ci fa conoscere autenticamente il Cristo, di cui noi siamo il suo corpo! Un discorso – si badi bene – che vale ugualmente per i cristiani di sinistra come per quelli di destra, per i novatori progressisti e i tradizionalisti, per i fan di Papa Francesco e i suoi oppositori. Tutti lì a inseguire i propri progetti, la propria idea di chiesa, i propri convincimenti. Attaccati ad essi e disposti a fare la guerra per essi. Quando invece, memori che la chiesa è un evento dello Spirito, che nasce da Lui e che senza di Lui non c’è chiesa, dovremmo preoccuparci solamente di essere docili allo Spirito Santo che, sia detto per inciso, non sempre e comunque ci spinge a fare quello che più ci piace, quello che ci quadra di più, quello che corrisponde alle nostre convinzioni. Come ben ci insegnano le lettere alle chiese nel libro dell’Apocalisse, laddove esse sono invitate ad “ascoltare con attenzione ciò che lo Spirito Santo dice.”

Ed eccoci allora al secondo punto. Lo Spirito Santo fa vivere la Chiesa e ne sostiene l’azione. Anzi, l’azione della chiesa è opera dello Spirito e si realizza per la sua potenza. La Chiesa vive e agisce nello Spirito Santo e se non vivesse così e agisse invece sulla base di qualche altra potenza o ragionamento umano, perderebbe la sua identità e si annienterebbe. Cosa che purtroppo può sempre accadere in un luogo o in un altro. Se infatti il Signore ha promesso la permanenza della chiesa nel tempo proprio con numerica l’assistenza continua dello Spirito Santo, non ha però detto niente circa la sua consistenza né ha garantito la sua permanenza in ogni luogo della terra. La storia è lì a dimostrarci che chiese un tempo fiorenti, oggi non esistono più oppure sono ridotte quasi al nulla.

La Chiesa dunque vive e agisce per opera dello Spirito Santo. Lo vediamo bene nel libro degli atti degli apostoli. Filippo è condotto dallo Spirito incontro all’eunuco della regina Candace (Atti 8, 26-29). Lo Spirito conduce Pietro presso il centurione Cornelio e ne conferma l’operato (Atti 11, 12; lo Spirito indica Paolo e Barnaba per la missione e li invia (Atti 13, 2-4)… e potremmo continuare. Lo Spirito agisce nell’annuncio della Parola, come abbiamo visto nel caso della predicazione di Pietro. Così, nella vita della Chiesa, lo Spirito agisce nell’evangelizzazione come nella catechesi. Non sono i persuasivi discorsi della sapienza umana, come dice bene San Paolo in I Cor al cap. 2, che operano. E’ lo Spirito dentro le parole umane. L’uomo mette la parola, mette la coscienza della propria incoerenza e fragilità, mette soprattutto la consapevolezza che non dice ciò che a lui pare, ma ciò che lo Spirito vuole; poi è lo Spirito che da sostanza alle parole, le rende vive e penetranti e con esse tocca il cuore dell’uomo, perchè solo lui può penetrare nel cuore dell’uomo, che Egli in qualche modo già abita. Ed è sempre lo Spirito – come dice San Paolo – che opera nel Battesimo e nella memoria eucaristica della morte e risurrezione del Signore Gesù. Così accade in tutti quei gesti che sono i santi sette segni. In essi e attraverso di essi lo Spirito opera. In sostanza, l’annuncio del Vangelo e i santi sette segni, sono l’agire dello Spirito nelle azioni della Chiesa; l’annuncio del Vangelo  e l’amministrazione dei sacramenti sono a loro volta, “l’agire” proprio della chiesa nel mondo. E’ questa l’azione per eccellenza della Chiesa nel mondo, che si fa lode ed eucaristia per il mondo. Forse a volte siamo portati a pensare che la chiesa nel mondo debba fare questa o quella cosa, quella e quell’altra cosa, secondo un po’ le mode del momento. Ma non è così: l’azione fondamentale della chiesa nei confronti del mondo, il suo agire nella storia è l’annuncio del vangelo e l’amministrazione dei santi segni di salvezza che sono l’agire di Cristo, reso possibile proprio dall’opera dello Spirito Santo.  Questo è il modo con cui la Chiesa ama il mondo, l’umanità. Dice il Concilio Vaticano II nella Sacrosantum Concilium al n.7 che “ ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado.” Tutte le altre azioni della Chiesa, quella che chiamiamo per esempio azione pastorale o azione di pre-evangelizzazione, come ogni azione volta al bene di questo mondo, come pure le stesse opere di carità, tutto, assolutamente tutto deriva, è animato, sorretto, guidato e sostanziato dalla parola di Dio e dai gesti santi con i quali lo Spirito opera la santificazione degli uomini. Forse oggi si sta forse un po’ dimenticando che questa è la fondamentale opera della chiesa nel tempo, nella storia: donare la grazia di Cristo, permettere ai peccatori di trovare la salvezza e la via di una vita nuova nell’amore, aiutare la comunione dell’uomo con Dio e quindi con gli altri, riconosciuti come fratelli. Perché per questo è mandato lo Spirito sulla chiesa e nel mondo: per la santificazione dell’uomo, la sua “divinizzazione”, la sua partecipazione alla comunione piena con Dio nella Trinità; solo in essa infatti ,l’uomo è veramente se stesso. L’esercizio della carità per la chiesa, non consiste in altra cosa che assecondare l’opera dello Spirito che vuole restituire ad ogni uomo, la dignità di immagine di Dio, destinato alla vita eterna, operando con la potenza dello Spirito Santo per aiutarlo a liberarsi da ogni giogo e condizionamento anche terreno, si che possa aderire pienamente a Cristo Signore, sperimentando una vita nuova nella comunione con Dio e con gli altri. Una carità che si volesse definire tale, ma che non partisse e non fosse sostenuta dall’azione dello Spirito santo, non sarebbe carità, ma solo un’opera umana, viziata in origine dal cuore malato che la mette in opera. Anche i farisei facevano l’elemosina e facevano cose buone, ma tutto era inquinato dal loro cuore indurito e chiuso alla grazia a causa della superbia. Ciò che facevano aveva l’apparenza del bene ma poneva solo pesi sugli altri. E se la chiesa non si preoccupasse di offrire Cristo a chi aiuta materialmente, cioè la salvezza e una vita nello e secondo lo spirito, tradirebbe la sua missione.

3.

Arriviamo allora al terzo punto: la chiesa sempre rinnovata dallo Spirito. Eh si, perchè se lo Spirito fa nascere la chiesa, la fa vivere e agisce in lei e attraverso di lei, Egli anche sempre la rinnova, si mantenga fedele, sia sposa senza macchia, e sia all’altezza del compito che le è affidato lungo i secoli. Qui non possono non venirci in mente le parole di Cristo nel vangelo di Giovanni (Gv 16,13)……. Rivolto ai discepoli, parlando dello Spirito, Gesù afferma che Egli ”vi guiderà alla verità tutta intera”. Ciò fa intende una presenza attiva dello Spirito nella compagine della Chiesa per condurla nel tempo alla pienezza della verità. Non c’è dubbio dunque alcuno che – per le parole del Vangelo – lo Spirito abbia a cuore il rinnovamento continuo della chiesa. Un rinnovamento che va in due direzioni inscindibili. Da una parte, lo Spirito rinnova la chiesa riconducendola sempre al primitivo amore, rifondandola cioè sempre su Gesù Cristo, riportandola al momento sorgivo della sua esistenza a quella effusione dello Spirito che è avvenuta a Pentecoste, ponendole davanti Maria Santissima, colei che, immagine e sintesi della Chiesa, ha accolto pienamente lo Spirito, ha generato l’uomo nuovo ed è anche diventata madre della chiesa; dall’altra, lo Spirito rinnova la chiesa adattandola ai tempi, non nel senso di un accomodamento allo spirito del tempo, all’aria del mondo, bensì attrezzandola per essere capace di assolvere la propria missione, il compito che le è stato affidato dal redentore, nelle mutevole condizioni storiche, nelle latitudini più diverse, nelle circostanze più disparate. Lo Spirito interviene a suscitare nella chiesa risposte e attenzioni agli uomini di quel momento storico.

Questa opera di rinnovamento della chiesa in duplice direzione ma convergente nel fare della chiesa un popolo “radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che sia “luce del mondo” e “sale della terra”, lo Spirito Santo la compie attraverso quattro elementi: i carismi, i segni dei tempi, i poveri e il magistero. Cerco di spiegarmi.

a.

Lo Spirito Santo suscita sempre nella chiesa doni particolari, doni che si chiamano carismi. Doni particolari appunto, dati sempre per l’utilità comune, mai per la soddisfazione di qualcuno. Lo Spirito di Dio illumina il cuore di alcune persone, ne rischiara l’intelligenza, ne acuisce la sensibilità verso aspetti della vita cristiana e della testimonianza. Ad ogni battezzato, lo Spirito dona qualche carisma. Ma ce ne sono di speciali, di straordinari, di particolare impatto o rilievo. Attraverso di essi, sempre lo Spirito invita la chiesa a tornare al Signore, a tornare al fondamento, a ciò che è essenziale e che corrisponde alla sua chiamata. Nello stesso tempo, indica alla chiesa il cammino da percorrere nell’oggi per adempiere la propria missione nel tempo e nello spazio. Questi carismi, lo Spirito li diffonde a piene mani, in ogni angolo della chiesa e in ogni persona. A volte carismi particolarmente importanti sono affidati ad umili bambini, pastorelli, a persone insignificanti, come invece possono essere date a persone che suscitano un fascino speciale, tale che possono chiamarsi persone carismatiche. A volte i carismi scuotono la vita della chiesa, contestano certi compromessi che il tempo ha prodotto, colmano lacune e deficienze. A volte si rivolgono anche criticamente nei confronti di chi ha la responsabilità della guida della chiesa ed è chiamato ad un compito magisteriale. Anche i carismi però, come ci insegna San Paolo, sono soggetti all’utilità comune e su di loro si deve esercitare un discernimento, perchè il carisma più grande di tutti è la carità di Cristo. Per vivere bene i carismi, in modo cioè che siano davvero per l’utilità comune, occorre che ci sia sempre umile e orante docilità personale allo Spirito Santo, altrimenti finiranno per dividere.

b.

Accanto ai carismi, lo Spirito santo che è dentro la storia e la guida dal suo interno, si fa presente attraverso quelli che si è soliti chiamare “i segni dei tempi”. Quelli a cui il vangelo stesso rimanda in Mt 16,4 e Lc 12,54-56 e che il Papa San Giovanni XXIII ripropose all’attenzione della chiesa: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù – dice il Papa – di saper distinguere i segni dei tempi, crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sui destini della chiesa e dell’umanità”. E il Concilio nella GS al n.11 riprende: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane”.

Tali segni che lo Spirito Santo indica – che vanno letti, studiati, capiti anche con l’apporto della ragione – si riconoscono perché segnalano la vocazione all’unità di tutto il genere umano; portano alla luce ciò che va nella direzione della comunione, del legame tra gli uomini, secondo il progetto di Dio. Si tratta di eventi, movimenti della storia che contengono un messaggio di Dio e sono voce dello Spirito; alcune volte anche in eventi contrari alla volontà di Dio, si manifesta per contrasto, il bisogno drammatico della comunione tra gli uomini e con Dio, rivelando quindi l’azione del maligno che non cessa di lavorare per confondere gli uomini, portarli alla perdizione e distruggere la creazione. In ogni cosa che accade, possiamo in realtà leggere un messaggio di Dio. Particolarmente in certi avvenimenti epocali o in certe macro situazioni che si rendono evidenti nella storia, lo Spirito parla alla chiesa, la scuote, la rimprovera, la mette in crisi e la spinge alla conversione, oppure la conforta e la consola, le infonde coraggio per affrontare il presente o indica le strade da percorre per incontrare l’uomo come fece con Filippo per incontrare il funzionario etiope. Ma i “segni dei tempi” vanno interpretati perchè ci si potrebbe ingannare. Ancora una volta, è necessaria la docilità allo Spirito per poter discernere i segni dei tempi e occorre farsi aiutare anche dai carismi, come pure dal magistero della Chiesa.

I poveri. Si. I poveri del mondo sono essi stessi voce dello Spirito Santo; sono il grido dello Spirito, quello che chiamò per es. San Paolo in Macedonia. “Durante la notte apparve a Paolo una visione: era un Macedone che lo supplicava: «Vieni in Macedonia e aiutaci!». (Atti 16,9). I poveri naturalmente in ogni senso: poveri materiali; poveri di dignità e di rispetto; poveri di cultura e di conoscenze; poveri e ultimi perchè rifiutati ancora prima di nascere; poveri e ultimi perchè disprezzati e abbandonati alla solitudine; poveri e ultimi perchè non amati da nessuno o perchè incapaci di amare; poveri perchè allontanatisi da Dio e impantanati nei peccati; poveri perchè affamati e assetati di vangelo. I poveri del mondo esprimono una fame che non è solo di pane ma della Parola che esce dalla bocca di Dio, perchè non di solo pane vive l’uomo. Tutti questi volti di poveri del mondo guardano alla chiesa, al popolo di Dio e domandano risposta, supplicano e le ripetono “Aiutaci!”, perchè non accada che “i bambini chiedano pane e non ci sia chi lo spezzi loro”, come dice il libro delle Lamentazioni (4,4). Quei poveri che sono come pecore senza pastore e di cui, nel vangelo Cristo ha compassione, per cui si mette a insegnare loro (Mc 6,34).  I poveri sono una voce possente dello Spirito che spinge al rinnovamento della chiesa, e siccome, come ci ha detto il Signore, i poveri li avremo sempre con noi, ciò vuol dire che lo Spirito Santo non cesserà fino alla fine dei tempi di rinnovare la chiesa attraverso di essi.

c.

Infine c’è da dire che lo Spirito santo rinnova la chiesa anche attraverso il Magistero, attraverso cioè quell’insegnamento che lungo i secoli, papi e vescovi insieme hanno dato al popolo di Dio in ordine alle cose della fede e della vita umana sorretta dalla fede. L’assistenza dello Spirito Santo è stata garantita al magistero della chiesa. Ciò non significa che ogni secondario o individuale insegnamento sia pienamente garantito dallo Spirito. Tale assistenza speciale è garantita in certi momenti e a certe condizioni. Il più solenne e autorevole di essi è sicuramente il Concilio ecumenico. Pensiamo all’ultimo concilio il Vaticano II. Esso è stato sicuramente una ventata potente dello Spirito Santo che ha soffiato nella vita della chiesa; creando anche scompiglio se volete, ma rinnovando e adattando la chiesa al suo compito di evangelizzazione nei tempi nuovi del mondo. Quell’atto del supremo magistero rappresenta un profondo rinnovamento operato dallo Spirito Santo. Sempre di nuovo però, per ben interpretarlo e attuarlo, occorre la personale docilità allo Spirito; richiede cuori “integri e buoni” – come dice Luca nella spiegazione della parabola del seminatore per indicare come il seme possa portar frutto – cuori aperti e docili come il cuore di Maria Santissima. Il magistero, a servizio dell’intero popolo di Dio è necessario per l’interpretazione dei segni dei tempi e il discernimento dei carismi. Allo stesso tempo, il magistero della chiesa non può negarsi allo sforzo della lettura comunitaria dei segni dei tempi e all’apporto dei carismi suscitati dallo Spirito.

4.

Termino con una considerazione finale abbastanza logica che discende da tutto quanto siamo andati dicendo. Una specie di conclusione sintetica. Se consideriamo il modo di agire dello Spirito, il suo modo di rinnovare la chiesa attraverso i carismi, i segni dei tempi, i poveri e il magistero, immediatamente, rileviamo una cosa: che lo Spirito agisce mettendo in relazione, creando relazioni reciproche e operando per una comunione che è un camminare insieme. I modi attraverso i quali lo Spirito agisce sono infatti in salutare tensione tra di loro e non si possono dare l’uno senza l’altro. Quando non sono accolti secondo lo Spirito o se ne assolutizza a scapito degli altri, vengono fuori i drammi; arrivano persino a confliggere e a fornire motivi per rompere la comunione. Essi invece chiedono di essere tutti accolti e articolati insieme, in un continuo lavoro di interazione attraverso il quale la inevitabile e costitutiva tensione tra di essi si sciolga nella comunione: “erano un cuor solo e un’anima sola”, così dice della chiesa il libro degli Atti. Lo Spirito Santo rinnova dunque la chiesa, spingendola ad essere sempre quella delle origini, cioè una comunione di fratelli che partecipa per grazia alla comunione trinitaria e che diventa tramite, segno e strumento tra gli uomini di comunione divina e fraterna. Il rinnovamento della chiesa – non quello che noi pensiamo o che noi progettiamo – la riforma della chiesa – non quella che abbiamo in testa, che vogliamo realizzare a tutti i costi e che è soltanto una nostra idea – la realizza invece lo Spirito Santo con la nostra docile collaborazione. E consiste sempre nel muoverci a fare di singoli individui un “noi” in Cristo, una comunione variegata e molteplice, un organismo vivente come un corpo composto da varie membra e organi, che sono però strettamente collegati tra loro in modo vitale e che formano l’unico corpo di Cristo, di cui Cristo è appunto il Capo. Quello che  a noi è chiesto, quello che alla chiesa nel suo insieme è chiesto, è di non ostacolare lo Spirito Santo, di non frapporre barriere alla sua azione, lasciandoci invece guidare, docili alla sua azione. Accogliere e assecondare quello che lo Spirito dice alla chiesa, questo è il rinnovamento; che si tratti di qualcosa di nuovo ed inedito o qualcosa da sempre presente nella chiesa ma un po’ dimenticato, non conta. Il discrimine è dato non dal nuovo di per sé né dal vecchio di per sé, bensì da ciò che è secondo lo Spirito e non secondo la carne. La figura di una chiesa sempre giovane e continuamente rinnovata dallo Spirito Santo non può che essere allora lei, la Vergine Maria. “Lo spirito santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”. Così l’Angelo a Maria e lei in piena docilità che si rende disponibile al soffio dello Spirito: “avvenga per me secondo la tua parola”. Ecco dunque il segreto del rinnovamento della Chiesa, operato dallo Spirito di Dio in ogni tempo.

+ Fausto Tardelli




Battesimo del Signore – Diaconato di Alessio, Eusebiu, Fratel Benedetto (13 gennaio 2019)

BATTESIMO DEL SIGNORE
Diaconato di Alessio, Eusebio, fra Benedetto
(13 gennaio 2019)

Immergersi nelle acque; salire su un alto monte; alzare la voce: tre azioni, tre gesti che caratterizzano la festa odierna del Battesimo del Signore, secondo le letture bibliche che abbiamo appena ascoltato. Tre azioni che possono ben configurare anche il ministero sacro e in particolare quello del diaconato.

Gesù scese dentro le acque del fiume Giordano per esservi immerso. E’ il primo e fondamentale gesto da considerare oggi. In questo gesto da una parte si indica la necessità per l’uomo di rinascere a vita nuova, purificato dal peccato; dall’altra, Dio Padre mostra chiaramente che è nel Figlio unigenito che bisogna immergersi, cioè in Colui che si è caricato dei peccati del mondo, facendosi come un peccatore.
Per noi allora, immergersi nelle acque, esprime la necessità di essere ogni giorno immersi nel mistero dell’amore di Dio in Cristo, facendone ogni giorno esperienza, esperienza di salvezza, di tenerezza, di liberazione, di conforto e di stimolo a una vita migliore. Come ha detto San Paolo, questa è “un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo”. L’immersione quotidiana nella grazia di Dio è indispensabile per ogni ministro del Signore. Senza questo continuo “battesimo” nell’amore di Dio, egli non ce la può fare a condividere efficacemente la vita delle persone a cui è inviato, ad aiutare il Cristo a portare il peso dei fratelli e delle sorelle con la dolcezza e la pazienza del servizio. Il ministro del Signore che si illudesse di poter servire gli altri, senza attingere alla fonte dell’amore di Dio, si ingannerebbe e finirebbe per ridurre il suo ministero a un’opera soltanto umana e quindi votata inesorabilmente all’inquinamento dell’egoismo.

Salire su un alto monte. Ecco l’altro gesto indicato dalla parola di Dio. Così dice il profeta Isaia: “Sali su un alto monte”. In questo salire sul monte, possiamo facilmente vedere la chiamata all’impegno, anche faticoso, per rispondere alla grazia di Dio e adempiere il ministero. Occorre salire; dunque occorre faticare, lottare, per superare noi stessi e le nostre cattive inclinazioni, per aprirci alla comunione; occorre salire, sforzandosi di superare ogni giorno le asperità della vita, le contraddizioni del tempo, il nostro stesso cuore di pietra incline sempre ad alimentare l’uomo vecchio. Invece su, in alto, avanti, con decisione. Certamente cadenzando il passo come quando si va in montagna, perché il fiato non venga meno e il cuore non scoppi; però avanti, senza fermarsi di fronte ad alcun ostacolo e senza cedere alla tentazione del cammino facile in pianura o in discesa, per la via larga e spaziosa, che, come dice il Vangelo, porta sicuramente alla perdizione. Così il ministro del Signore non può non essere sempre in arrampicata. Mai solitaria però; piuttosto come quella di un capo cordata che apre la pista e che deve far attenzione a non cadere, trascinando nella caduta coloro che il Signore ha legato a lui.

Infine, c’è da alzare la voce. E’ ancora questo che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie”. Con questo gesto, con questa azione, si significa il fatto che l’araldo del Signore che porta la buona notizia dell’amore di Dio per gli uomini, della remissione dei peccati e del mondo nuovo della pace, deve farsi sentire, deve proclamare la notizia perché tutti l’intendano. La sua voce deve innalzarsi sopra le mille voci del mondo, sopra il chiacchiericcio delle parole vuote e l’inganno delle parole false di cui è pieno il mondo e di cui si riempiono facilmente la testa e il cuore degli uomini. La buona notizia del Regno di Dio che è Gesù, deve sovrastare quel brusio delle comunicazioni umane, spesso ingannevoli, spesso corruttrici. Un alzare la voce che è si impegno perché la buona notizia sia da tutti ascoltata e tutti la possano conoscere, ma che significa soprattutto lavoro perché la nostra vita corrisponda al messaggio, perchè la gioia brilli nei nostri cuori e nei nostri volti, perchè l’amore generoso e concreto testimoni la verità, la bontà e la bellezza del vangelo. Il diacono è in senso forte “araldo” del Vangelo. Egli sale sull’ambone in mezzo o davanti all’assemblea per proclamare Cristo morto e risorto, buona notizia per il mondo, e mentre l’annuncia con gioia, egli non può mai dimenticare il monito che gli è stato rivolto nel giorno dell’Ordinazione: “Credi ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni.

Ed ora, carissimi fratelli e sorelle ascoltiamo le considerazioni che il rituale propone per il conferimento del diaconato.

I diaconi, fortificati dal dono dello Spirito Santo, sono di aiuto al vescovo e al presbiterio nel ministero della parola, dell’altare e della carità, mettendosi al servizio di tutti i fratelli. Divenuti ministri dell’altare, annunziano il Vangelo, preparano ciò che è necessario per il sacrificio eucaristico, distribuiscono ai fedeli il sacramento del corpo e del sangue del Signore. Inoltre, secondo la missione a loro conferita dal vescovo, hanno il compito di esortare e istruire nella dottrina di Cristo i fedeli e quanti sono alla ricerca della fede, guidare le preghiere, amministrare il Battesimo, assistere e benedire il Matrimonio, portare il Viatico ai moribondi, presiedere il rito delle esequie. Consacrati con l’imposizione delle mani secondo l’uso trasmesso dagli apostoli e uniti più strettamente all’altare, i diaconi esercitano il ministero della carità in nome del vescovo o del parroco. Questi compiti esigono una dedizione totale, perché il popolo di Dio li riconosca veri discepoli del Cristo, che non è venuto per esser servito, ma per servire.

E voi, Alessio, Antonio Benedetto, Eusebio, prossimi diaconi, guardate innanzitutto e sempre al Signore che vi ha dato l’esempio, perché come egli ha fatto così facciate anche voi. Come ministri di Gesù Cristo che in mezzo ai discepoli si mostrò come un servo, siate sempre pronti e disponibili per compiere la volontà di Dio e servite con gioia e generosità il Signore e i fratelli. Ricordatevi che nessuno può servire a due padroni e, mettendo la vostra vita al servizio del Signore, rifiutate gli idoli di ogni impurità e dell’avarizia, che rendono schiavi gli uomini.

Poiché vi accostate liberamente all’ordine del diaconato, seguendo l’esempio dei diaconi scelti dagli Apostoli al ministero della carità, siate degni della stima del popolo di Dio, pieni di Spirito Santo e di sapienza. Voi avete scelto di consacrare il vostro celibato per farne segno e richiamo alla carità pastorale, sorgente di fecondità spirituale nel mondo. Animati dal desiderio di un sincero amore per Cristo e vivendo con totale dedizione in questo stato di vita, vi consacrate al Signore a un titolo nuovo e sublime; e aderendo a lui con cuore indiviso, sarete più liberi di dedicarvi al servizio di Dio e dei fratelli, e più disponibili all’opera della salvezza.

Fondati e radicati nella fede, siate sempre irreprensibili e senza macchia davanti a Dio e agli uomini, come devono essere i ministri di Cristo, dispensatori dei misteri di Dio. Non venga mai meno in voi la speranza del Vangelo, di cui sarete non solo ascoltatori, ma araldi e testimoni. Custodite il mistero della fede in una coscienza pura, manifestate con le opere la parola di Dio che predicate, perché il popolo cristiano, animato dallo Spirito Santo, diventi una oblazione pura, gradita a Dio. E quando andrete incontro al Signore nell’ultimo giorno, possiate udire da lui: “Vieni, servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo Signore”.




Chiesa di San Bartolomeo in Pantano – Festa di San Bartolomeo (24 agosto 2018)

SAN BARTOLOMEO
24 agosto 2018

Oggi è un giorno speciale per la nostra città. È la festa di San Bartolomeo. Legata ai ricordi dell’infanzia, è l’occasione per far festa con i bambini, portandoli ad ungere, secondo la tradizione. È la festa con la quale riprende anche la vita della città e il quartiere si colora di allegria, mentre questa antica e bellissima austera chiesa accoglie una moltitudine di persone che vengono a ricevere una benedizione, accostarsi alla confessione, nutrirsi del pane di Cristo o anche solo a sostare un momento nel cammino della vita. Questo edificio di pietra, metafora di quello che è la chiesa di sempre, accoglie tutti quelli che vogliono entrare, senza discriminazioni di sorta, buoni o cattivi, belli o brutti, neri, bianchi, gialli o rossi: chiede solo rispetto per la santità del luogo e per il mistero che vi si celebra.

Potremmo togliere di mezzo questa festa, svilirla, ritenendola un retaggio di un passato ormai morto, rievocata soltanto dal punto di vista folkloristico? Credo proprio di no. Questa festa parla di Pistoia e delle sue radici cristiane ancora vive; parla ancora oggi del bisogno che ogni uomo ha di Dio; come parla a noi del bene prezioso dei bambini che sono in mezzo a noi e che anzi dovrebbero essere molti di più. Questo giorno ci racconta anche della festa, ci parla di tranquillità, di pace, di fraternità, di amicizia e di gioia, tutte cose di cui abbiamo estremo bisogno e di cui sentiamo oggi più che mai il bisogno, quando si alzano mura e steccati addirittura di odio, ci si prende ogni giorno di più a male parole, ci si offende, ci si insulta, si mostrano i muscoli e ci si divide ferocemente come se fossimo già in una guerra civile o di nuovo, dentro cupi anni di piombo.

E allora, carissimi fratelli e amici, cerchiamo di vivere al meglio questa festa, di godercela, cercando davvero di rinverdire la nostra fede cristiana, riscoprire la bellezza dell’amore verso il prossimo, ridare slancio al nostro impegno di costruttori di pace, offrendo così un buon futuro ai nostri figli.

Ma noi, ci crediamo in Gesù Cristo, carissimi fratelli e sorelle? Non vi sembri scontata questa domanda e soprattutto la risposta: che diamine che ci crediamo, altrimenti non saremmo qui, mi potreste dire. Eppure io credo che la domanda non sia affatto fuori luogo. Abbiamo sentito il Vangelo; lì Natanaele, cioè Bartolomeo, dall’iniziale scetticismo passa all’adesione entusiasta: «Signore, tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele». Ma noi, crediamo nel Signore Gesù? Chi è Lui per noi, per me? Possiamo davvero dire a Lui, come disse Bartolomeo: «Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il mio re?»

Chi seguiamo, nella nostra vita? a chi diamo fiducia? Chi è il nostro punto di riferimento essenziale? Domande che già ponevo a me stesso, a voi e alla città nel giorno della festa di San Jacopo e che ripongo oggi, sempre nella festa di un apostolo.

Perché la fede nel Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, non la possiamo dare per scontata. No. La fede in Gesù Cristo non è semplicemente un dato culturale; un riferimento di tipo sociologico o un semplice “credere in qualcosa”. Questa fede non posso darla per scontata nella mia vita, anche se son vescovo; non la possono dare per scontata nemmeno i sacerdoti, a volte dimentichi e in alcuni terribili casi addirittura traditori, del principale loro compito che è come quello di Filippo, narrato nel vangelo di oggi: portare le persone a Cristo.

La fede cristiana, lo dicevo già il 25 di luglio e oggi qui lo ripeto, si esprime nel credo che ogni domenica professiamo e che forse conosciamo davvero poco; si concretizza nell’osservanza dei comandamenti del Signore che sono espressione dell’amore vero e che forse ci siamo un po’ scordati; la fede si vive nella chiesa e con la chiesa fondata sugli apostoli; e ciò vuol dire in comunità con gli altri fratelli e sorelle; la si annuncia infine a tutti come il tesoro più prezioso del quale nessuno può essere privato.

Prima di tutto però la fede è rapporto vivo con Cristo; relazione di fiducia e di amore con Lui, ascolto della sua parola e comunione di grazia con Lui; è essere perdonati da lui e quindi un esser liberati da Lui per vivere con Lui, in Lui e per Lui, come preghiamo ogni volta che andiamo a Messa.

Questa fede cristiana è aperta al dialogo con tutti, credenti e non credenti; non ha paura di confrontarsi con nessuno; anzi, tende la mano ad ogni creatura, qualunque sia il suo credo, la sua cultura, la sua lingua o le sue usanze. Aperto al dialogo verso tutti, pieno di amore e di disponibilità nei confronti di chiunque che rimane sempre immagine di Dio e dunque fratello, il cristiano sa però che la sua fede è originale rispetto a quella di qualsiasi altra religione e che ha ragioni da mostrare anche al non credente.

Carissimi fratelli e sorelle, in questo mondo globalizzato che ci vorrebbe soltanto consumatori di un grande e unico super mercato; in questo mondo che, come ha detto Papa Francesco è «soggetto alla globalizzazione del paradigma tecnocratico, che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni, senza rispetto per la peculiarità e ricchezza di ogni persona e di ogni popolo»; che vorrebbe unificarci rendendoci però ingranaggi di un unico sistema amministrato da burocrazie e da una finanza mondiale che favorisce solo la ricchezza di pochi, noi affermiamo la dissonanza della fede cristiana, l’eccedenza di questa fede e della visione d’uomo che essa comporta, il valore della differenza e il valore delle tradizioni e dei singoli popoli. Convinti che questo non impedisca la convivenza pacifica tra le genti ma anzi la renda possibile, perché nel dialogo e nel confronto libero e rispettoso si superano le paure e si mantiene viva la strada per la ricerca della verità, anelito che non si può cancellare dal cuore dell’uomo.

In questa fede umile e forte noi, carissimi amici, vogliamo radicarci sempre di più, anche se è esigente, ci chiede coerenza di vita e non si accontenta di parole o di segni di facciata. In questa fede e con questa fede vera, vorremmo che crescessero i nostri figli, assaporando la bellezza di una vita vissuta col Signore nell’amore generoso e magnanimo verso il prossimo. Con questa fede vogliamo costruire una società buona, accogliente, giusta e fraterna. È difficile, in specie coi tempi che corrono, ma non ci arrendiamo. Lo dobbiamo a Dio e ai nostri figli.

San Bartolomeo, apostolo di Cristo che per Cristo ha dato letteralmente la pelle, interceda per noi e ci aiuti ad essere gioiosi cristiani autentici, e soprattutto aiuti ad esserlo i nostri bambini.

+ Fausto Tardelli




Ai giovani pellegrini toscani in cammino verso Roma – Chiesa di San Francesco (10 agosto 2018)

Benvenuti, carissimi giovani.

Se non son mille, certo son molte e diverse le strade da cui venite. Avete camminato e faticato, in questi giorni caldissimi. Avete incontrato e ammirato, avete conosciuto e vi siete conosciuti, avete trovato ospitalità e al tempo stesso avete trasmesso gioia e voglia di vivere. Siete venuti da diversi luoghi della toscana e oltre. In questi stessi momenti, molti altri giovani da ogni parte d’Italia sono in cammino verso Roma.

Ora siete qui, ma la meta non è ancora raggiunta. Siamo infatti diretti appunto a Roma, presso la tomba dell’apostolo Pietro, per stringerci attorno al Papa Francesco; non tanto per vedere un uomo, quanto, riconoscendo il lui il successore dell’apostolo Pietro che il Signore ha messo a capo della sua chiesa, per essere confermati nella nostra fede. Ma la nostra vera meta non è nemmeno Roma, bensì Gesù Cristo. Noi siamo in cammino, carissimi giovani, verso Cristo, per essere afferrati e conquistati da Lui e gettare tutta la nostra vita in Lui, con Lui e per Lui, accettando la sfida di realizzare un mondo nuovo, migliore di quello che conosciamo, dove ci siano sempre meno guerre e odio, dove abiti giustizia e verità e che si apra senza paura al Dio dell’amore che Gesù ci ha rivelato. Il Papa Francesco vi ha invitato a ripensare la vostra vita, a fare discernimento, cioè a comprendere la chiamata che Dio vi fa. Ognuno infatti ha una chiamata da Dio, non è venuto al mondo per caso. Ognuno di noi è chiamato in modi diversi e originali, alla santità che è la pienezza dell’amore.

Oggi qui facciamo solo una sosta. Una sosta importante; non a caso a Pistoia, perché la cattedrale di questa città custodisce da tanti secoli, dal 1145 per la precisione, una reliquia dell’apostolo Giacomo, ricevuta direttamente da Santiago di Compostela, dove sono i resti mortali dell’apostolo Giacomo. Pistoia, chiamata la Santiago minor, custodisce la memoria preziosa di un grande apostolo, e per questo motivo è stata meta di pellegrinaggio, punto di partenza per il cammino; sosta di passaggio per raggiungere Roma, oppure la stessa Santiago.

Jacopo o Giacomo, grande testimone del vangelo, fu ucciso, primo fra gli apostoli, dal re Erode Agrippa a Gerusalemme poco dopo l’anno 40 dell’era cristiana. Detto «il maggiore», era fratello di Giovanni l’evangelista, col quale fu chiamato fra i primi discepoli da Gesù e fu sollecito a seguirlo. Gesù disse di lui che avrebbe «bevuto con lui il calice del sacrificio», cosa che in effetti si realizzò, quando Giacomo fu fatto decapitare da Erode Agrippa I.

Oggi la chiesa ricorda anche un altro grande testimone del vangelo: il giovane Lorenzo, diacono della chiesa romana. Era l’anno 258. A Roma il potere stava saldamente nelle mani dell’imperatore Valeriano che scatenò una delle ricorrenti e terribili persecuzioni nei confronti dei cristiani. Papa Sisto II subì il martirio con quattro diaconi il 6 di agosto, mentre si trovava nella zona del cimitero. Lorenzo era per l’appunto un altro dei diaconi di Papa Sisto II ma non fu ucciso subito, il 6 di agosto, insieme al Papa. Molto probabilmente, amministrando lui i beni della chiesa a favore dei poveri, le autorità romane pensarono di tenerlo in vita finché non avesse consegnato i beni della chiesa. Quando poi videro che Lorenzo non cedeva perché i beni della chiesa erano dei poveri e ai poveri erano stati tutti distribuiti, uccisero anche lui, il 10 agosto…. E la tradizione popolare dice che in quella notte cadono le stelle per ricordare le gocce di sangue che sprizzarono dal suo martirio o anche le scintille del fuoco della graticola sulla quale sarebbe stato posto.

Allora, carissimi giovani, sull’esempio dell’apostolo Giacomo e del giovane Lorenzo, sollecitati dal successore di San Pietro, il Papa Francesco, continuiamo a camminare. Questo il proposito, questo l’impegno. Il cammino è segno della vita, di quel cammino che ognuno è chiamato a compiere attraverso il tempo. Camminare esprime il desiderio e la voglia di realizzare qualcosa che valga per davvero, di dare un senso pieno alla propria esistenza. Il cammino della vita, lo sappiamo, spesso è pieno di incertezze, di cadute, di ripensamenti; spesso ci si ferisce e si rimane ammaccati. A volte è fatto di amarezze, di speranze deluse, di solitudini e tormenti. Non sempre è facile e a volte verrebbe anche la tentazione di fermarsi, stanchi e sconfortati. Ma no. Voi, in questi giorni, con il vostro camminare pronunziate una parola di speranza: state dicendo che la vita va vissuta, che la vita è comunque bella; che non ci si può arrendere nel pianto, ma ci si deve rialzare e riprovare sempre. Perché non c’è sconfitta che ci possa abbattere definitivamente; non c’è contrarietà o difficoltà che ci possa o ci debba fermare. La memoria di San Jacopo, oggi di San Lorenzo, ci fa capire che agli occhi di Dio non conta il successo delle nostre imprese e che non ci si deve impressionare se a volte può sembrare tutto inutile e l’impegno non portare frutto perché gli ostacoli sono troppo grandi e numerosi. Il martire, come Giacomo, come Lorenzo, all’apparenza furono degli sconfitti – chi è più sconfitto infatti di colui al quale è tolta la vita? – In realtà è proprio il testimone di Gesù che vince, e lascia una profonda traccia di bene nel mondo. Perché, come ci ha detto il vangelo “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.”

Ancora un’ultima cosa vorrei cogliere dalla figura di San Lorenzo: il suo amore per i poveri, la sua dedizione alle necessità dei bisognosi. La prima lettura di questa S. Messa tratta da San Paolo ai Corinzi ha sottolineato proprio questo aspetto fondamentale di San Lorenzo. San Paolo ci ha invitato ad essere generosi; a donare con gioia a chi è nel bisogno, perché Dio ama chi dona con gioia. Anche la figura di San Jacopo è da secoli legata al sorgere di luoghi di accoglienza, ospitalità, veri e propri ospedali.

E allora carissimi amici, continuiamo a camminare dietro al Signore, sulle orme dei santi, imparando a servire e ad amare come Lui. Pur nella nostra piccolezza, sentiamoci strumenti nelle mani di Dio per andare incontro alle necessità e i bisogni materiali e spirituali degli altri. Non ci è permesso voltarci dall’altra parte! Non ci è permesso farci prendere da quella che Papa Francesco ha più volte stigmatizzato, come la globalizzazione dell’indifferenza. Le persone che attendono, che hanno bisogno di una mano amica e fraterna, addirittura in certi casi solo per sopravvivere, sono molte. Qui da noi e nel mondo. Dovunque ci sono mani tese a cercare un conforto, un sostegno, la restituzione di una dignità, la liberazione dal male e dal maligno; protese a cercare giustizia e pace; a cercare vita; a cercare Dio, perché, come ha detto Gesù, “non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Cosa può fare ognuno di noi? Non lo so. Ognuno se lo deve chiedere nel fondo della propria coscienza. Ognuno di noi può e deve fare qualcosa. Siate dunque disponibili e pronti.

E allora, oggi pomeriggio, quando passerete davanti a quel frammento del corpo di San Jacopo, qui venerato da secoli, vi invito a chiedere a questo nostro fratello maggiore, tre semplici ma grandi cose: una fede forte, coraggiosa e gioiosa, da veri innamorati di Cristo; un cuore aperto e generoso che vede, sente e opera per il bene degli altri; infine la saggezza del discernimento, per scoprire quale sia il vostro posto nel mondo secondo la vocazione che Dio vi ha dato.

+ Fausto Tardelli,

Pistoia, 10 agosto 2018

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V Stazione Quaresimale – Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas (23 marzo 2018)

Quinta stazione quaresimale
VI venerdì di Quaresima

San Giovanni Fuorcivitas 23 marzo 2018
Letture Messa “ad libitum”

Siamo ormai giunti al termine del nostro itinerario quaresimale che ci ha visto attraversare la città da un chiesa all’altra, andando dietro al Signore, per cercare Colui che ci ha cercato e trovato per primo. Una bellissima esperienza; un dono di grazia speciale.

Questa sera è il tripudio della vita. La resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, come la risurrezione del figlio della sunamita ad opera del profeta Eliseo, ci fanno sentire la gioia, il profumo, l’allegria della vita. Come è triste invece la morte, come è fredda, ghiaccia! Ed è anche terribile, per quella inesorabile decomposizione che comincia da subito e che fa dire a Marta nel vangelo, quando Gesù ordina di togliere la pietra dal sepolcro di Lazzaro: “Signore, manda già cattivo odore; è lì da quattro giorni”. E’ brutta la morte per cui chi è morto, lo si sottrae ben presto alla vista dei vivi, dentro una cassa, sotto terra, in un sepolcro, arso nel fuoco. Non si può durare a lungo a vedere la morte, a sentirne l’odore, a stargli vicino; ci fa male, fisicamente e moralmente.

Possiamo compiere tutti gli sforzi del mondo per assuefarci alla morte; possiamo tentare di esorcizzarla in ogni modo; cercare di tenerla lontana dalla nostra vista, dalla nostra esperienza….. Ma non c’è niente da fare. Pur nello stordimento della distrazione, essa, col suo carico di tristezza, di gelo e di ineluttabilità, torna ad assalirci sempre di nuovo. Qualcuno vorrebbe convincerci che è giusto che sia così per il ciclo vitale, per la necessaria rigenerazione di ogni cosa in spazio e tempo per forza limitati. Ma in realtà, tutto si ribella in noi di fronte alla morte. Non siamo fatti per la morte; no; non ci piace per niente, se non a chi, drammaticamente, non riesce a scorgere vie d’uscita alla sua situazione di sofferenza. La morte ci ripugna, perché contraddice tutto quello che ci piace, quello che desideriamo, quello che vorremmo: calore, gioia, movimento, allegria, amore, in una parola, vita. E sentiamo come una contraddizione inaccettabile venire alla vita, respirarla a pieni polmoni, magari superando grandi difficoltà, e poi finire nel vuoto di un sepolcro.

Per tutto questo, il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta una esplosione di gioia e di speranza. Come la risurrezione del figlio della sunamita. Trionfa la vita; le lacrime di tristezza e angoscia, si trasformano in pianto di gioia. Torna il calore; torna la luce nel buio del sepolcro, il profumo della vita trionfa come quello dei fiori di primavera nella stagione in cui tutto rinasce. E noi, sinceramente godiamo di tutto questo, perché ci piace la vita e, come dicevo, odiamo la morte.

Ciononostante, non possiamo non considerare il fatto che il ragazzo risuscitato da Eliseo e lo stesso Lazzaro, dopo essere tornati in vita, morirono di nuovo. Inesorabilmente. Ci verrebbe allora quasi da dire che tutto sia un’illusione e che alla fine, dalla morte nessun uomo può sfuggire. Forse però, occorre andare più in profondità e leggere le cose alla luce, non tanto della risurrezione di Lazzaro ma di quella di Cristo. Il Cristo risorto infatti ha vinto definitivamente la morte ed è risorto per non mai più morire, entrando in una condizione di vita nuova.
Alla luce di Cristo allora, morto e risorto per portare a compimento il disegno del Padre; morto e risorto nel segno dell’amore che è Dio stesso, possiamo comprendere che la vita vera, quella piena ed eterna, che già comincia quaggiù ma che si realizzerà definitivamente oltre la morte, è quella che si condensa nell’amore. La vita vera, assume tutto ciò che di bello, di gioioso, di luminoso c’è nell’esperienza umana; raccoglie tutta la densità dell’umano, anche della carne dell’uomo, delle sue passioni, dei suoi sentimenti, della sua sensibilità, per trovare però compimento, oltre ogni umana misura, nella conoscenza di Dio, nella figliolanza con Dio Padre, attraverso il Figlio unigenito Gesù Cristo, mediante l’effusione sovrabbondante dello Spirito Santo che “da la vita”, come proclamiamo nel credo.

Non possiamo non amare la vita, non possiamo non goderne, non possiamo non assaporarne tutta la bellezza, nonostante le contrarietà che si incontrano. Ben misera cosa sarebbe però fermarsi a gustare la superficie della vita, i suoi aspetti esteriori, le sue manifestazioni più contingenti se non andassimo invece al succo della vita; se non andassimo ad attingere alla fonte della vita vera che è Gesù Cristo; se non imparassimo a godere della gioia che ci viene da questa vita di Dio in noi, che è libertà dal peccato, pienezza d’amore, carità operosa nei confronti dei fratelli. In questo modo, niente di ciò che è veramente umano viene disprezzato o perduto, anzi, nella vita di grazia che lo Spirito Santo realizza in noi, tutto trova pieno significato e profondità.

Altrimenti, carissimi amici e fratelli, noi non siamo realmente vivi, nonostante le apparenze. Sembriamo vivi ma in realtà siamo morti. Anche se brindassimo tutti i giorni alla vita, anche se passassimo i giorni nella spensieratezza di tutte le possibili gioie terrene; anche se avessimo tutto e tutto ci potessimo permettere, saremmo nient’altro che dei morti che camminano per le strade. Morti dentro, perché in noi non ci sarebbe la vita di Dio, la vera vita, quella Grazia santificante che proviene solo da Dio e si realizza soltanto nell’amore da Lui ricevuto e a sua volta donato a Lui e agli altri. Ed è a motivo di questa terribile possibilità in realtà che Gesù, come dice il racconto evangelico, letteralmente “scoppiò in pianto”. Pensiamoci.

E pensiamo anche che alla luce interiore della Grazia, anche il morire terreno diventa occasione di lode e gratitudine.  È San Francesco a dircelo nel suo meraviglioso cantico delle creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.”




IV Stazione Quaresimale (24 ore per il Signore) – Chiesa di San Paolo (16 marzo 2018)

Quarta stazione quaresimale
V venerdì di Quaresima

San Paolo 16 marzo 2018
Letture Messa “ad libitum”

Il Signore è mia luce e mia salvezza. L’abbiamo cantato come salmo responsoriale. È il canto che possiamo ben pensare sia stato quello del cieco nato del vangelo, risanato da Cristo.
Non sappiamo il nome di quest’uomo di cui parla l’evangelista Giovanni. Sappiamo solo che era un mendicante, che aveva ancora i genitori vivi ma che non si occupavano di lui. Sappiamo ancora che era un uomo senza tanti peli sulla lingua e molto concreto; sapeva il fatto suo e non aveva paura dei farisei, ai quali seppe tener testa con coraggio e ironia.

La forza, quest’uomo la traeva dall’evidenza dei fatti: era cieco, non vedeva, non aveva mai visto niente fin dalla nascita. A un certo punto, un uomo a lui sconosciuto gli si era avvicinato, aveva fatto del fango con la saliva e la terra, aveva spalmato questo fango sui suoi occhi, lo aveva mandato a lavarsi alla piscina di Siloe. Lui era andato, si era lavato e ora ci vedeva. Questo era il fatto. Anche se il testo non ce lo dice, possiamo ben immaginare l’emozione, lo scombussolamento, la gioia, la novità sorprendente che aveva coinvolto quell’uomo. Quello che gli era capitato, era assolutamente inaudito. “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato”, dirà ai farisei, facendoli arrabbiare definitivamente e provocando la sua espulsione dalla sinagoga.

Questo cieco nato ha dalla sua, la forza dei fatti. Gli altri, i farisei, fan solo discorsi, chiacchiere, ideologia, esprimono pregiudizi, non vedono la realtà; sono davvero, loro, dei ciechi che, per giunta, pensano di vederci bene. Il cieco nato porta fatti concreti: “una cosa la so” – dirà ancora ai farisei – “ero cieco e ora ci vedo”.
Vorrei far notare che questo “fatto” è “capitato” al cieco. È sopravvenuto alla sua vita. Non lo ha cercato. Non risulta infatti dal testo che il cieco abbia chiesto la guarigione, come invece in altri casi descritti nel vangelo. Gesù ha preso lui l’iniziativa e lo ha guarito. Una iniziativa totalmente gratuita, totalmente staccata da qualsiasi richiesta del cieco. Del resto, anche nel primo dei segni compiuti da Gesù, secondo l’evangelista Giovanni, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Canaan, non risulta alcuna richiesta di intervento da parte degli sposi o di colui che guidava il banchetto.

Nel caso del cieco nato, l’iniziativa è presa da Gesù. E, si badi bene, nemmeno il secondo incontro con Gesù – perché il racconto ci presenta appunto due incontri di Gesù col cieco – neppure il secondo incontro, quello veramente decisivo per la salvezza del cieco, è ricercato da costui. È ancora Gesù che lo trova e gli chiede: “Tu credi nel figlio dell’uomo”?

Tutto ciò, carissimi amici, ci fa riflettere su di una verità che connota l’agire di Dio, sempre: è Lui che prende l’iniziativa e tutto viene da lui. Anche quando giustamente noi cerchiamo il suo volto, lo desideriamo, ci rivolgiamo a lui con la supplica del peccatore, ciò è possibile solo perché Egli con il suo amore ci ha prevenuto. Lui sempre ci ama per primo. Senza alcun nostro merito, senza alcuna nostra pretesa. Non è il nostro vuoto che chiede e fonda la sua pienezza. Non è l’uomo che crea Dio. È vero esattamente il contrario: è Dio che crea l’uomo e imprime nell’uomo la nostalgia di Lui. È il Signore che ama infinitamente e dona infinitamente se stesso a noi ed è ancora lui, luce del mondo che fa scoprire la novità gioiosa del vedere e svela la bruttura delle tenebre del male che sono in noi e nel mondo, senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

Di fronte alla guarigione del cieco nato dunque dobbiamo innanzitutto inchinarci all’iniziativa di Dio che ci viene incontro, che viene incontro all’uomo. Mai ci dovremmo stancare di meditare questo muoversi di Dio nei confronti dell’umanità, nei confronti di me, di ciascuno di noi. La vita cristiana inizia laddove ci si riconosce cercati e amati; laddove ci si riconosce voluti e pensati con amore. Il primo atto della vita cristiana non è un atto, bensì una passività totale: è accorgersi di essere cercati e trovati; che c’è uno che è totalmente per noi, Gesù di Nazareth, figlio di Dio, che mi tocca con la sua mano, applica sui miei occhi il medicamento realizzato con la sua saliva e con la terra, che, come commenta Sant’Agostino indica la salvezza dell’uomo fatto di terra attraverso la parola di Cristo; il quale ancora mi purifica con l’acqua della piscina di Siloe, cioè l’acqua dell’inviato” – questo è il significato di Siloe – l’acqua viva che è cioè Cristo stesso, nella quale siamo stati immersi mediante il battesimo.

Meditando la vicenda del cieco nato, c’è ancora altra cosa su cui riflettere. Anche noi, come il cieco nato, dovremmo vivere della certezza di un fatto molto concreto: che cioè siamo stati guariti; ci è stata donata la vista. Siamo stati cioè resi partecipi della vita di Cristo. Tutti gli uomini nascono ciechi a causa del peccato di origine. Ma noi siamo stati inseriti nella morte e risurrezione di Cristo; siamo stati battezzati; abbiamo ricevuto il sigillo dello Spirito. Son fatti, questi, non discorsi. Un fatto talmente evidente nella nostra vita – così dovrebbe essere – da darci forza per affrontare qualsiasi avversità, per resistere di fronte a chi imbroglia le carte e continuamente ci dice che la nostra fede è una fantasia superstiziosa; di fronte alle contestazioni che ci vengono dai farisei di ogni tempo; di fronte al riso di chi ci ripete che siamo pieni di peccati e quindi non possiamo insegnare niente a nessuno. Di fronte a tutto questo noi dovremmo saper rispondere non tanto con la forza di idee convincenti – anche queste certamente servono – ma prima di tutto con la semplicità disarmante dei fatti: ero cieco; ora ci vedo. Ero malato, Cristo mi ha guarito; ero perduto e il Signore mi ha ritrovato.

Forse però allora è proprio qui che nasce il bisogno di riconoscere i nostri peccati e di umiliarci di fronte a Dio e quindi la necessità della confessione delle nostre miserie. Lo dobbiamo dire infatti: tante volte, l’essere stati fatti partecipi della salvezza; l’essere stati fatti rinascere come figli di Dio; l’essere stati illuminati dalla Grazia non è un fatto, nella nostra vita. Non è la certezza della nostra vita; non è la roccia su cui poggia la nostra esistenza. Non è esperienza vissuta; non è gioia di chi ha ritrovato la vista; non è entusiasmo di chi è stato liberato dalle catene e finalmente si sente libero. È una fede sbiadita, scolorita, la nostra. Abitudinaria e mesta. Ed è precisamente in questo contesto di fiacchezza della nostra fede che diventano facili i tradimenti della legge del Signore, le ottusità nei confronti dei fratelli; i compromessi con i nostri vizi, l’accomodamento alle logiche egoistiche del mondo.

Allora però, fratelli e amici carissimi, facciamo nostre stasera le parole del profeta Michea che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Siano la nostra preghiera, questa sera: “Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di Lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia.




III Stazione Quaresimale – Chiesa di San Bartolomeo (2 marzo 2018)

Terza stazione quaresimale

IV venerdì di Quaresima – San Bartolomeo 2 marzo 2018 – Letture anno A

L’abbiamo sentito ora nel vangelo: una donna si reca al pozzo per attingere acqua. Ne ha bisogno. L’acqua è infatti una necessità per l’uomo. Non sappiamo che cosa stesse pensando quella donna, che cosa stesse rimuginando tra sé nel tragitto solitario che la conduce al pozzo in quell’ora calda del giorno – era mezzogiorno. Ce lo possiamo forse immaginare: a casa un uomo ad attenderla; il suo compagno. È il sesto uomo della sua vita. È già stata sposata per 5 volte. Ora si è accompagnata con un sesto uomo, senza sposarsi. È per giunta una samaritana; cioè reietta dal popolo ebraico. Chissà quante cose le passano per la testa in quel momento. È stanca di dover venire ogni giorno al pozzo. Forse anche della sua vita un po’ sconclusionata, emarginata. Ha bisogno d’acqua. È lì per questo. Ma in lei possiamo riconoscere benissimo un’altra sete, quella forse di riuscire a dare finalmente una svolta alla sua vita, dopo i fallimenti sperimentati; forse è anche un po’ scoraggiata di fronte alle macerie della sua esistenza. Lo si capisce bene da tutto il dialogo che si instaura con Gesù e dal finale del racconto. Riprendendo la prima lettura dal libro dell’esodo, possiamo benissimo vedere nella sete della donna, tutta la sete di un popolo e del mondo intero: “in quei giorni il popolo soffriva per mancanza di acqua”.

Davanti alla donna c’è Gesù. È lì, al pozzo, stanco, affaticato, affamato – i suoi erano andati a cercare del cibo. Si è seduto e anch’egli ha sete. Una profonda sete. Ma non dell’acqua del pozzo. Egli ha sete dell’anima di quella donna; ha sete dell’anima di ognuno di noi; ha sete di me e della mia vita. Egli, stanco, sta cercando me, come canta un antico e ingiustamente abbandonato inno liturgico: “quaerens me sedisti lassus” Tu, signore sedesti stanco per cercare me, per darmi il tuo amore, per salvarmi dal non senso della mia vita, dal male nel quale spesso sono incatenato. La stanchezza del Signore Gesù è la sua croce d’amore, è la fatica del buon pastore che va per dirupi e rovi a cercare la pecora perduta e caricarsela sulle spalle. La richiesta che Gesù fa alla donna, rileva questa sua sete: “dammi da bere”, cioè, dammi la tua anima, dammi la tua persona, lasciati amare, lasciati salvare, apri il tuo cuore a me e sarai salva.

Due assetati dunque s’incontrano nel racconto evangelico: la sete della donna e quella di Cristo si incontrano. L’una è in cerca di salvezza, anche se ancora bene non lo sa. Sarà necessario tutto il dialogo d’amore di Cristo perché lo comprenda e capisca dove può trovare l’acqua che zampilla per la vita eterna. L’altra sete, quella di Cristo, è in cerca di lei e di noi, di ciascuno di noi per donarci l’acqua via del suo amore, l’acqua che disseta e ristora, purifica e fa germogliare la vita. Se queste due seti si incontrano è esplosione di gioia, è trionfo di speranza; è l’inizio di un giorno nuovo splendente di sole, di un sole che non tramonta.

Che la nostra sete e quella di Cristo si incontrino: questo allora c’è da augurarsi stasera, per la nostra vita, per il nostro cammino quaresimale che ci conduce alla Pasqua. Che si incontrino: lo dobbiamo desiderare, attendere, cercare, con tutte le nostre forze. Non solo per noi e per la nostra vita ma per la vita del mondo, per ciascuno dei quasi 8 miliardi di persone che abitano la faccia della terra.
Questo desiderio, questa speranza dell’incontro di una sete con l’altra, si accompagna però a sofferenza, purtroppo, perché non sempre accade, sia nella nostra vita personale, che in quella delle nostre comunità e società, come nel mondo.

“In quei giorni, il popolo soffriva per la mancanza di acqua”. Parole antiche, dell’esodo… Ma quanto attuali! Quanto contemporanee, quanto dolorosamente vere. Perché, anche materialmente è proprio così: oggi un sacco di persone soffrono per la mancanza di acqua. “Sono circa 900 milioni le persone che non hanno accesso ad acqua potabilmente sicura. Sono almeno 1,8 milioni i bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno per malattie collegate alla qualità dell’acqua: uno ogni 20 secondi.” (fonte Il Corriere). Un dramma incredibile che non ci può lasciare indifferenti e che ci deve vedere in qualche modo impegnati alla sua risoluzione. Ma le parole dell’Esodo sono attuali perché il dramma della mancanza di acqua per tanta gente, ci rivela il dramma ancora più grave, della mancanza dell’acqua viva, dell’acqua della Grazia nel cuore delle persone.

Non è difficile riconosce che siamo tutti degli assetati, che abbiamo sete di vita e di amore, sete di gioia e di bene, sete di felicità e di pace….. non è difficile riconoscerla, questa sete, dentro di noi e nel cuore dell’umanità. Al tempo spesso però dobbiamo riconoscere che spesso non ci si abbevera alla fonte buona. Spesso la nostra sete, la si soddisfa bevendo acqua putrida, di pozzanghere sudice e maleodoranti, acqua velenosa; all’apparenza cristallina e pura ma in realtà piena di germi mortiferi. Dobbiamo riconoscerlo, quest’oggi in particolare, nel cammino della quaresima e domandarci seriamente dove ci abbeveriamo, da dove attingiamo l’acqua e se l’acqua che attingiamo non sia per caso inquinata. Domandiamoci qual è l’oggetto dei nostri desideri; che cosa cerchiamo; quali sono le soddisfazioni che andiamo cercando; le nostre nascoste aspirazioni; i piaceri con i quali ci illudiamo di compensare la nostra sete di amore vero. Domandiamoci inoltre se per soddisfare la nostra sete, invece di amare e donare come ci ha insegnato il Signore, sfruttiamo gli altri, utilizzandoli per i nostri fini.

Sia come sia, però il Signore Gesù continua a dirci come alla samaritana: dammi da bere. Apri il tuo cuore a me; se tu cerchi l’acqua viva della vita eterna, vieni a me. L’acqua che cerchi “sono io, che parlo con te”. E ce lo dice anche questa sera, qui, in questa celebrazione eucaristica dove l’altare è per tutti noi, il pozzo di Giacobbe dove egli ci attende.




II Stazione Quaresimale – Chiesa di San Paolo Apostolo (2 marzo 2018)

Seconda stazione quaresimale

III venerdì di Quaresima
(Anno b 2 marzo 2018)

La storia di Giuseppe venduto dai fratelli è davvero tragica. Assomiglia a tante vicende drammatiche che purtroppo riempiono la cronaca anche dei nostri giorni. Episodi antichi, di estrema attualità che ci fanno pensare a come l’uomo rimanga alla fine sempre lo stesso, quantunque il cosiddetto “progresso” avanzi, nonostante la tecnologia faccia passi da gigante e dia a qualcuno letteralmente alla testa, facendogli credere che è e sarà la risoluzione di tutti i problemi dell’uomo.
La vicenda di Giuseppe trova riscontro nella parabola raccontata da Gesù nel vangelo di Matteo. Qui siamo di fronte a una parabola, ma come sappiamo bene, Gesù prende spunto dalla vita quotidiana, dall’esperienza, dai fatti concreti della vita. Perciò non è difficile pensare alla veridicità della storia dei contadini che percuotono i servi del padrone della vigna, che li bastonano, fino ad arrivare a uccidere il figlio stesso del padrone della vigna. Anche queste son vicende drammaticamente attuali.
Di fronte a tutti questi fatti, almeno noi, che tendiamo a considerarci tutto sommato abbastanza buoni e bravi, ci vien da domandarci come sia possibile che accadano queste cose; come sia possibile che ci siano uomini e donne che compiono simili gesti; in definitiva, forse commiseriamo ma osservando i fatti dal di fuori, prendendone le distanze.
Però il sacro tempo della quaresima ci richiama ad altre considerazioni; a cambiare mente e mentalità, ad assumere un punto di vista diverso rispetto alla semplice constatazione dei drammi della storia umana, magari accompagnata da un lamento per i tempi tristi che stiamo vivendo. Troppo facile cavarcela così! La questione in realtà è più profonda e ci interessa da vicino, ci coinvolge personalmente. E parte dal motivo per cui e la storia di Giuseppe venduto dai fratelli e la parabola dei contadini malvagi ci vengono stasera raccontati in questa liturgia.

E’ chiaro infatti che la figura di Giuseppe rimanda a quella di Cristo, venduto dai suoi stessi amici ai capi del popolo di Israele; non accolto, anzi rifiutato proprio da coloro che erano il suo popolo; da coloro – come i discepoli – che per primi avrebbero dovuto riconoscerlo. Com’è del resto chiaro, per le parole stesse di Gesù riportate nel vangelo, che in quel figlio inviato dal padrone della vigna e trucidato dai contadini malvagi, c’è Lui, il Figlio unigenito, crocifisso da coloro che avrebbero dovuto custodire e far fruttificare la vigna del Padre.

Questa sera allora, ognuno di noi è messo davanti a Cristo. Anzi, è Lui, il Signore Gesù che si pone davanti a noi e ci fissa coi suoi occhi che vedono ogni cosa, anche le profondità della nostra anima. E davanti a lui siamo invitati a scegliere nuovamente: o con Lui o contro di Lui. Anzi, per la verità, prima ancora – e questo ci produce grande sofferenza e ci fa enorme fatica accettarlo – stasera Lui ci invita a identificarci coi fratelli che hanno venduto Giuseppe; coi contadini che hanno ucciso il figlio del vignaiolo. Si, proprio noi; si, proprio io, ho venduto, ho ucciso. Ho venduto, ho ucciso Lui, Gesù, con la mia indifferenza, con la mediocrità della mia fede, con la mia indolenza, con la mia superficialità, con il mio cedere sempre di nuovo agli impulsi dell’uomo vecchio fatto di gelosie, di invidie, di rancori, di pigrizia, di lussuria, di ipocrisia. Abbiamo venduto e ucciso Lui, quando non abbiamo obbedito ai suoi comandamenti, quando ci siamo voltati da un’altra parte di fronte al fratello, quando non abbiamo servito, amato, abbracciato chi era nel dolore, o abbiamo insultato, maledetto, offeso l’altro. E ciò che abbiamo fatto, unito al peccato di altri, ha reso possibile i drammi che riempiono le cronache di ogni giorno. Senza che neanche ce ne rendiamo conto. Stasera allora, è proprio questo che qui accade: Gesù parla di noi, parla a noi e noi siamo davanti a lui. Lui, con calma, fissandoci negli occhi e dentro il cuore, ci racconta la storia di Giuseppe venduto dai fratelli. Non ci accusa; non ci condanna; semplicemente ci racconta quella storia e ci chiede di ascoltarla; è sicuro che ne capiamo il significato. E, come se non bastasse, con la stessa calma, ci racconta anche la parabola dei contadini malvagi. Scandisce le parole, perché entrino in noi e ancora, perché noi capiamo da soli; continuando a fissarci negli occhi, mentre noi facciamo fatica a sostenere il suo sguardo; non c’è rabbia nel suo sguardo, non c’è risentimento, solo infinito amore, ma proprio per questo non riusciamo a sostenerlo.

Cos’è tutto questo, una tortura? Una modo per colpevolizzarci e buttarci a terra? Un modo per distruggerci, facendoci sentire in colpa, anche se, alla fine, potremmo dire, nessuno di noi ha venduto fratelli o ha ucciso qualcuno? No di certo. Il Signore Gesù svela la radice del male che è in ognuno di noi, la necessità di vigilare perché l’uomo vecchio non prenda il sopravvento, perché guardando in faccia il male che ci attacca, lo possiamo prevenire confidando in Lui. E’ questo alla fine ciò che conta e ciò che il Signore vuole da noi. Che smettiamo l’atteggiamento farisaico di chi si crede giusto e di non aver bisogno di guarigione e assumiamo invece l’atteggiamento che onora la verità, facendoci prendere coscienza di avere un assoluto bisogno del tocco della mano di Dio per la nostra salvezza.

La storia di Giuseppe in effetti ha un lieto fine, potremmo dire. Giuseppe, proprio lui, odiato dai fratelli, sarà quello che salverà i fratelli, quando, mossi dalla carestia, cercheranno rifugio in Egitto dove Giuseppe è diventato importante. Lo scartato diventa il salvatore. Un salvatore che volentieri, senza recriminazioni, senza rimostranze, salva i fratelli, senza alcun loro merito. Così la parabola dei contadini ci dice che il figlio ucciso, Gesù, darà salvezza agli uomini. La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo di quell’edificio nuovo che è la nuova umanità che inizia dal nostro cuore pentito e redento. A partire da stasera.




I Stazione Quaresimale – Pieve di Sant’Andrea (23 febbraio 2018)

Prima stazione quaresimale

II venerdì di Quaresima
(Anno b 23 febbraio 2018)

Abbiamo iniziato il tempo della Quaresima ascoltando l’invito del Signore a convertirci. La consapevolezza della necessità della conversione non nasce prima di tutto dalla coscienza del male che abbiamo commesso o della strada sbagliata che stiamo percorrendo. Nasce piuttosto dalla parola di Dio che ci chiama alla conversione. Nasce dalla iniziativa di Dio nei nostri confronti. Nasce dal suo amore, perchè a Lui sta a cuore che noi viviamo e viviamo in pienezza.

Solo ascoltando con attenzione il Signore che ci parla, solo contemplando il suo amore misericordioso che si è manifestato sulla croce, noi siamo spinti a guardare alla nostra vita in profondità e abbiamo la luce necessaria per scandagliare il male che è in noi, riconoscere che abbiamo peccato, anzi, che siamo nel peccato, che abbiamo una mentalità sbagliata, un modo di vedere le cose che non è quello di Dio, un modo di ragionare lontano dal vangelo e che ci manca ancora molto ad essere come Dio ci vuole.

E’ il Signore che ci guida a riconoscere i nostri mali. Noi non siamo in grado di fare una diagnosi vera. L’ intendimento del Signore che ci vuole aprire gli occhi sui nostri mali per essere guariti e gustare la dolcezza del suo amore, è chiaramente dichiarato nella lettura del profeta Ezechiele che abbiamo ascoltato poco fa. Dice Dio: forse io ho piacere della morte del malvagio? O non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? Dio dunque vuole il nostro bene; non vuole la distruzione dell’uomo; ci ama e ci vuol far partecipi della sua vita. E’ per questo che ci invita a conversione, a guardare dentro di noi laddove forse abbiamo lasciato che spuntasse e crescesse la gramigna del male. Ci invita, come capiamo dalla lettura di Ezechiele, a vedere bene come stiamo usando la nostra libertà; che cosa ne facciamo; se la usiamo per compiere la sua volontà oppure per dare sfogo al nostro io prepotente e superbo.

Allora, carissimi amici e fratelli, ciò che dobbiamo fare innanzitutto in questo sacro tempo di Quaresima è lasciarci raggiungere dalla parola di Dio; lasciarci contestare dall’amore di Dio; lasciarci scuotere da lui, ascoltando con cuore aperto e piena attenzione le Sacre Scritture e mettendoci di fronte a Cristo crocifisso; a Cristo che ci apre le sue braccia come risorto con i segni della passione e della croce. Facciamoci dunque scuotere dal Signore e smuovere dal suo pressante invito alla conversione, che va preso estremamente sul serio, non come un atto di ostilità nei nostri confronti ma come un profondo atto d’amore. Guardiamoci dentro, portando alla luce i malanni spirituali che abbiamo, illuminando le zone d’ombra della nostra coscienza, esaminando con attenzione noi stessi, sempre con la fiducia di chi sa di manifestare i propri mali a chi può guarirci col suo amore misericordioso. Il Signore ci fa capire che siamo malvagi. Si, siamo malvagi, ma, come ci ha detto tramite il profeta Ezechiele, “se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso.”

Nel racconto evangelico troviamo ancora l’invito alla conversione. Lo troviamo con un’altra espressione che però possiamo dire ha lo stesso significato: “Gesù disse ai suoi discepoli, se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. L’invito alla conversione, nel vangelo di stasera è l’invito ad essere giusti, di una giustizia non come quella degli scribi e dei farisei che era limitata, ipocrita, legalista. Gesù infatti ci chiama ad avere un cuore giusto, cioè buono, a misura di Dio stesso che è bontà infinita. La chiamata di Cristo svela la grettezza del nostro cuore, porta alla luce la nostra incapacità di amare, quali e quanti ostacoli poniamo nell’amare il nostro prossimo come noi stessi. Le considerazioni di Gesù riportate dal vangelo di Matteo sono abbastanza pungenti e ci fanno male, perché toccano nervi scoperti. In poche parole, Gesù afferma che si può uccidere il nostro prossimo anche con la nostra ira, la nostra rabbia; che è condannabile chi offende il prossimo; che addirittura se tu sai che il tuo fratello ha lui, qualcosa contro di te, devi esser tu a cercare di riconciliarti per primo. Eh si! Queste parole di Gesù toccano davvero dei nervi scoperti della nostra anima, specialmente di noi oggi così inclini, anche attraverso i cosiddetti social, a offenderci, a dirci le peggio cosa, ad augurare ai nostri nemici le peggiori disgrazie; oggi, quando sembra di moda essere violenti e arroganti. Ma le parole di Cristo pungono anche tra di noi. Dentro le nostre comunità, dentro la chiesa, quante chiusure, quanti giudizi malevoli, quante offese, maldicenze, rabbia, invidie e gelosie!

Ancora una volta, dobbiamo essere convinti che se il Signore ci contesta e ci invita a conversione, a una giustizia superiore, non lo fa per distruggerci e perché ci vuole male. Se è severo con noi, non è perché voglia la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

All’inizio del tempo quaresimale, accettiamo allora di buon grado che il Signore ci contesti e ci metta in crisi; che ci faccia capire i mali che abbiamo dentro; facciamo con serietà il nostro esame di coscienza di fronte a Lui e al suo amore. E consapevoli della nostra debolezza, preghiamo levando la nostra supplica, accorata e sincera: convertici a te Signore con la grazia del tuo amore e noi ci convertiremo.




Inaugurazione Centro Maic (Pistoia 9 febbraio 2018)

Inaugurazione nuovo Centro Maic (Pistoia)

9  febbraio 2018

 

Dalle finestre di casa mia ho la gioia di poter vedere le montagne, le nostre montagne. Le colline vicine alla città sparse di paesi e di case; poi più su, alzando gli occhi, le cime dell’appennino, ad oggi ancora innevate. Il tutto, quando poi c’è il sole, incorniciato da un cielo azzurro, da godimento straordinario agli occhi. Davvero un bel vedere.E mi vien da pensare: ma guarda un po’ il buon Dio che ha creato ogni cosa, come si è preoccupato di mettere l’uomo dentro un giardino affascinante di bellezza. Ci ha circondato di bellezza; ci ha avvolti in un mare di bellezza. Sicuramente l’ha fatto perché all’uomo gli fa bene; perché l’uomo fosse in qualche modo educato da tanta bellezza e imparasse ad aprire il suo cuore, la sua mente, la sua bocca e le sua mani alla riconoscenza e all’amore.

Il centro che oggi viene inaugurato, nella sua parte totalmente nuova e in quella vecchia ristrutturata, direi che vuole copiare il buon Dio. E ha fatto bene chi ha pensato, voluto e realizzato questa impresa straordinaria, perché ha voluto circondare di bellezza chi, per qualche motivo – riprendendo la parola del vangelo che abbiamo ascoltato – è “sordomuto”, cioè debilitato e fragile. Così facendo, chi ha voluto questo centro, si è reso strumento nelle mani di Dio e partecipe del suo amore misericordioso verso ogni uomo.

Credo che oggi dobbiamo davvero rendere grazie a Dio per gli uomini e le donne che hanno reso possibile ciò che è la MAIC; con le sue strutture ma ancor più con i suoi servizi alla persona in difficoltà e ancora di più per l’amore che sempre è scorso a fiumi qui dentro. E penso a quando questa bella storia è iniziata – io non c’ero allora, ma ne vedo i frutti e questo mi fa dire che è stata una bella storia; penso alle fatiche del percorso, anche agli errori fatti come alla generosità di tanti; ai benefattori, agli operatori: veramente una bella storia d’amore. Penso però soprattutto ai ragazzi con disabilità che, insieme alle loro famiglie, hanno costituito da sempre la vera ricchezza di questo luogo. Vorrei anzi dire che sono stati proprio questi ragazzi e queste ragazze il dono di Dio per noi. Sono stati e sono proprio loro ad alimentare la bellezza di questo luogo. Gli altri, i fondatori, i benefattori, gli operatori, non hanno fatto altro che cogliere la bellezza delle loro vite preziose e farsene interpreti. In questo senso, credo di poter dire che la bellezza di questo centro rinnovato è solo manifestazione esterna dello splendore della presenza di Dio nella vita di questi ragazzi. Sono loro ad aver dato bellezza a questo luogo; loro sono i veri artefici di ciò che oggi noi tutti ammiriamo. La loro bellezza ha conquistato chi gli è stato vicino e ha influenzato in modo determinate chi ha voluto e realizzato questa struttura.

La realtà della MAIC è dunque qualcosa di cui la città di Pistoia deve andar fiera, come anche la chiesa pistoiese che non può non vedere in essa un frutto bello del seme del Vangelo seminato nella nostra terra. La città innanzitutto; perché la MAIC ha insegnato a questa città a porre attenzione, un’attenzione operosa, intelligente e amorosa, a coloro che sono più deboli e fragili dentro la società. Oggi, purtroppo si va diffondendo una triste e pericolosa mentalità che considera la vita degna di essere vissuta soltanto se è efficiente, giovane, sana, ricca di possibilità e di opportunità, agiata. Altrimenti si considera un vuoto a perdere, uno scarto da buttare, un’inutile causa di sofferenza e disagio. E chi non raggiunge gli standard considerati accettabili per meritarsi di vivere è bene che si tolga di mezzo, perché è soltanto un peso. E si ha anche la sfrontatezza di far passare per pietà ciò che invece è discriminazione e violenza. La tristezza di questa mentalità che purtroppo certe leggi alimentano, inquina e rende invivibile le nostre contrade. La MAIC, in questo senso è un vero polmone di ossigeno per la città, perché qui, la vita di un uomo è sacra e da custodire e accudire con amore, sempre, comunque essa sia, dal concepimento fino alla morte naturale.

Oltre che la città, anche la chiesa pistoiese – tutta intera – si deve rallegrare per quello che è la MAIC, perché non può non vedere in essa la realizzazione della pagina evangelica che abbiamo ascoltato. In essa si parla di Gesù che incontra un sordomuto. Non si accontenta di parlargli. Lo tocca, entra in contatto fisico con lui. Addirittura mescola la sua saliva con quella del malato. Poi con la parola che è preghiera al Padre, Effatà” apriti, compie il miracolo. E lo stupore è grande così che la gente diceva: “Ha fatto bene ogni cosa.: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
Credo proprio che questa pagina evangelica sia esperienza quotidiana alla MAIC. Lo sia stata fin dalle origini e ancora oggi. Qui il vangelo si incarna; qui si vedono i segni del Regno di Dio; qui si tocca con mano la forza dell’amore; qui la chiesa si fa viva e quotidiana esperienza. Questo luogo non è certamente esente da egoismi e rancori; non siamo ancora nel paradiso. Ma un pezzo di paradiso, questo si, un po’ lo è la MAIC. Perché ogni giorno qui si rinnova il miracolo dell’amore che fa fiorire vite che agli occhi del mondo sembrerebbero inutili o perse. Soprattutto perché alla MAIC è chiaro che la potenza che opera è quella di Dio; che tutto si deve a Gesù Cristo morto e risorto; tutto è affidato alla intercessione materna della Madre di Dio.

Effatà è la parola con cui Gesù guarisce il sordo muto. È anche la parola che si pronuncia nel battesimo nella rigenerazione degli uomini a vita nuova. Consapevolmente, chiaramente anche se umilmente, la MAIC professa l’unico Signore che è la via, la verità e la vita e a Lui si rifà per trovare forza e energia. Se la MAIC per sventurata circostanza dimenticasse questo suo fondamento essenziale e indispensabile, si condannerebbe ad essere una struttura senza anima la cui bellezza esteriore a poco le gioverebbe.

Ecco perché benediciamo quest’oggi il centro rinnovato. Non è una formalità nè un gesto magico. È un atto di fede con il quale innanzitutto benediciamo il Signore, cioè diciamo bene di Lui che ci ha concesso di giungere a questo giorno e realizzare quanto è stato realizzato. È un atto di fede, con il quale vogliamo riconoscere il bene che qui è stato donato da tanti, a partire da don Renato Gargini che ha dato tutto se stesso a questa opera d’amore. È un atto di fede, con il quale intendiamo affidare questo centro e tutta la MAIC al Signore e alla Vergine Santa e lo affidiamo al Signore e a sua Madre Maria, perché gli ospiti di oggi e di domani qui trovino sempre amore vero; perché chi qui opera si senta sempre motivato a dare il meglio di se per il bene degli altri; perché chi ha la responsabilità della guida abbia la lungimiranza di guardare con sapienza al futuro; perché tutti coloro che entrano in contatto con questa realtà respirino un’aria di fraternità e di pace e ne siano consolati.

+ Fausto Tardelli, vescovo