Solennità dell’Epifania (6 gennaio 2018)

 

EPIFANIA 2018

CATTEDRALE DI S.ZENO

Dio si è fatto uomo per attrarre tutti a sé e condurre tutti nella comunione piena con Lui. Il Figlio unigenito di Dio, consostanziale con il Padre e con lo Spirito santo, ha preso un corpo umano, dimorando come uomo in mezzo a noi, rendendosi visibile a noi – perché Dio nessuno lo ha mai visto, soltanto il figlio unigenito ce lo ha rivelato – perché ogni uomo, di qualunque razza e colore, di qualunque lingua e paese della terra, lo potesse incontrare e, liberato dal peccato, avere salvezza eterna. Dalla grotta di Bethleem si irradia una luce interiore e vittoriosa sulle tenebre maligne del mondo, che attira ogni uomo e ogni popolo verso la fonte dell’amore e della vita che è Dio.

La festa liturgica della epifania ci fa rivivere esattamente questo; ce ne da consapevolezza; ci spinge alla gioia e alla gratitudine, ci invita a lasciarci guidare dalla luce di Dio che si è manifestata nella notte del Natale del Signore.

Con le parole di Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura, si esprime chiaramente il senso della festa odierna, seppure come profezia. E’ Dio che parla, e si rivolge a Sion, a Gerusalemme, al suo popolo invitandolo ad alzarsi in piedi nello splendore della luce. “Alzati, rivestiti di luce”, dice Dio. Bellissimo davvero questo invito che Dio rivolge a ciascuno di noi stamani, forse ancora troppe volte ripiegati su noi stessi, a piangerci addosso, intenti a leccarci le ferite della vita oppure spenti e chiusi nel nostro tran tran quotidiano, tristi e fiacchi per le nostre miserie e per come vanno le cose del mondo. “Alzati, rivestiti di luce!”. Alzati in piedi, su, guarda lontano, respira a pieni polmoni, “rivestiti di luce”. Non solo “lasciati illuminare” ma “rivestiti” di luce. Rivestirsi di luce è una espressione, straordinaria. Difficile anche da immaginare tanto è bella: essere rivestiti di luce sta a indicare una luce che ci ricopre completamente, dando alla nostra persona una lucentezza, una luminosità che si diffonde, che rallegra, che attrae. E’ per simboleggiare questo rivestirsi di luce che l’abito del sacerdote nella liturgia splende di bellezza e luminosità, con riflessi d’oro e d’argento; come splende per il suo candore luminoso la veste bianca del battezzato, di chi rinasce a vita nuova. Come pure la veste bianca di chi nella chiesa svolge un ministero liturgico, come è per stamani di Antonio, Alessio ed Eusebio che diventeranno l’uno lettore e gli altri accoliti.

Ancora attraverso la profezia di Isaia, Dio dice al suo popolo che tutte le genti della terra sono attratte dalla luce che Egli ha portato nel mondo e di cui è stato rivestito il suo popolo. Egli ci dice: “Alza gli occhi e guarda; tutti costoro si sono radunati, vengono a te”. Per una volta almeno, carissimi fratelli e sorelle, alziamoli davvero gli occhi intorno e guardiamo: non si è forse realizzata la profezia di Isaia? La parola di Dio non si è forse attuata? Guardate, carissimi, quante persone, quanti popoli, quante lingue, nazioni e culture, lodano oggi il Signore, illuminate dalla luce del vangelo! Da ogni angolo della terra si leva il canto della lode. Migliaia e migliaia di uomini e di donne, si sono lasciate illuminare dal Signore! In ogni parte della terra è diffuso il popolo di Dio e la chiesa splende della luce di Cristo, anche attraverso il martirio, la testimonianza condotta fino al versamento del sangue. Mi direte che certo, tante sono le inadempienze, tanti i peccati dei cristiani, dei figli della chiesa; che per tanti, l’appartenenza al popolo di Dio è forse solo nominale. Ma faremmo un torto a Dio se non riconoscessimo che queste ombre non intaccano la luminosità di un fatto: che alla luce di Cristo sorta a Natale è accorsa una moltitudine immensa di genti, nel passato e ancora oggi, con testimonianze di vita santa straordinarie. Oggi possiamo e dobbiamo dire con assoluta certezza che la parola di Dio si è realizzata e che quanto la antica profezia annunciava, ha effettivamente trovato riscontro nei fatti. Siano dunque rese lodi a Dio che è fedele alle sue promesse!

San Paolo, nella seconda lettura, esprime in poche parole quello che è appunto il disegno di Dio, il suo progetto sull’umanità; quello che già era adombrato per l’appunto nelle parole profetiche di Isaia: “che le genti – tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo – sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”.

Verità che troviamo plasticamente raccontata nel vangelo di Matteo con la vicenda dei “magi”, uomini sapienti d’oriente, scrutatori degli astri, non ebrei, rappresentanti dei popoli della terra. Essi si muovono dalle loro terre in cerca del re dei re. Una stella li guida. Camminano e camminano attratti dalla luce e giungono a Betlemme di Giuda. Lì è sorta la luce del mondo, Cristo salvatore. Offrono a lui doni mirabili, adorando il bambino. Essi devono affrontare anche le tenebre del mondo. Si imbattono nel perfido Erode, re d’Israele. Ma questi sapienti d’oriente, anche passando attraverso le tenebre della malvagità umana, raggiungono  a luce e, illuminati da questa luce, tornano alle proprie terre, evitando la cattiveria di Erode.

Aldilà della storicità del racconto, riportato soltanto dall’evangelista Matteo ma presente in molti vangeli apocrifi, il significato che l’evangelista da alla vicenda è chiaro ed è insieme riconoscimento della forza attrattiva di Cristo su tutti gli uomini e invito a camminare anche noi, tra le tenebre del mondo, verso la luce di Cristo; anzi, a lasciarci illuminare da Lui nella fede, nella speranza e nella carità, facendoci addirittura rivestire di luce, per essere araldi e testimoni del suo amore nel mondo.

Carissimi fratelli e sorelle, in questa festa dell’epifania del Signore, non possiamo non raccogliere l’appello di Dio ad essere luce del mondo. Ad esserlo, mettendo al servizio di Dio la nostra vita per la diffusione del suo Regno. Ad esserlo, lasciandoci però prima di tutto invadere l’anima, la mente e il cuore, dalla grazia di Dio, dalla gloria del Signore, dal suo amore misericordioso.

Di tutto questo, danno testimonianza stamani i nostri fratelli che tra poco istituirò l’uno lettore per custodire e curare il servizio della parola di Dio contenuta nelle Scritture Sante; gli altri accoliti, per servire all’altare il mistero dell’amore di Dio che si svela in ogni eucaristia. Udita la chiamata del Signore, essi sono stati attratti dalla luce di Cristo e hanno cominciato a consegnagli la propria vita per il servizio dei fratelli. Hanno cominciato a farsi “rivestire di luce” e di questo, tutti noi siamo particolarmente felici.




Messa di ringraziamento (31 dicembre 2017)

Ultimo dell’anno 2017

Cattedrale di San Zeno

“I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.” Così dice il vangelo che abbiamo appena ascoltato.

Questa sera possiamo benissimo ritrovarci nei pastori che accorsero alla grotta di Bethleem: siamo qui infatti per glorificare e lodare Dio per tutto quello che abbiamo udito e visto in questo anno che ormai ci sta alle spalle.

Tradizionalmente lo facciamo con il canto del “Te Deum”: un antichissimo inno cristiano che gli storici datano addirittura al IV° secolo. Da sempre, esso viene cantato per ringraziare il Signore in particolari circostanze, come appunto quella dell’ultimo dell’anno. Un grazie che si esprime col canto di questo inno ma che trova naturalmente il suo momento principale nell’Eucaristia, che è il grazie per eccellenza che la chiesa unita a Cristo innalza al Padre. Ci accompagna anche – e mi piace sottolinearlo – la memoria di Maria SS.ma, anticipando nell’ora del vespro la Solennità della Madre di Dio che si celebra il primo di ogni anno. “Maria – dice il vangelo – da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.” Cosa che anche noi stasera vogliamo fare, ricordando l’anno trascorso.

Forse, immediatamente, guardando indietro, ci vengono in mente i passaggi dolorosi che abbiamo dovuto affrontare; le prove e difficoltà che abbiamo dovuto superare; forse i lutti per amici o parenti oppure le malattie che ci hanno sbarrato la strada. Forse ancora i tanti problemi irrisolti della nostra città, del nostro paese, del mondo; le tante violenze che hanno insanguinato i giorni. Forse ancora e soprattutto, i nostri peccati. Cionostante, stasera noi vogliamo riconoscere l’amore che Dio in quest’anno ha riversato con abbondanza nella nostra vita.

E vorrei partire proprio dalle celebrazione di questa sera, da quel Pane della vita che ancora una volta sarà spezzato per noi e a noi verrà donato: è il pane della vita eterna; è Gesù, vivo e vero; è Lui che si dona a noi, con generosità, con assoluta tenerezza, con completa disponibilità, per diventare carne della nostra carne, anima della nostra anima. E Lui, l’eterno Dio, l’incommensurabile Dio durante tutto quest’anno è venuto a noi, una infinità di volte e si è degnato di prendere dimora in noi, nonostante la nostra indegnità. E quante volte ci ha perdonato nel sacramento della confessione! Ci ha fatti nuovi, noi che spesso abbiamo macchiato la veste candida del nostro battesimo! Egli è stato largo nel perdono, grande nella misericordia e noi siamo potuti continuamente rinascere a nuova vita, lavati dal lavacro della purificazione. Mediante gli altri santi Sacramenti poi, Egli è venuto incontro a chi era nella malattia, a chi si è unito in matrimonio, a chi è nato, a chi, giovanetto, si è aperto alla testimonianza cristiana. Abbiamo riconosciuto Lui e il suo amore infinitamente tenero, quando ha donato alla nostra chiesa un nuovo presbitero.

Insieme alla grazia saramentale che con abbondanza si è riversata su di noi in questo anno, dobbiamo riconoscere l’altro grande dono che ci è stato fatto: quello della sua Parola contenuta nelle scritture sante. La sua Parola ci è stata donata anch’essa con abbondanza; è stata proclamata nelle nostre assemblee ininterrottamente; come un fiume di acqua fresca e pura si è riversata nei nostri cuori; come un seme buono è stata sparsa nel terreno della nostra vita. Abbiamo visto il divino seminatore uscire ogni giorno a seminare, attendendo con pazienza che fruttificasse nella nostra vita. Questa santa Parola non ha portato in noi i frutti sperati, ma il dono c’è stato e senza misura. Per questo, stasera ringraziamo.

Inoltre, dobbiamo riconoscere che Il Signore Dio si è fatto presente a noi attraverso tanti nostri fratelli nel bisogno. Nel volto del povero, chiunque esso sia, è presente Lui e accoglierlo, non è un dono che noi facciamo a Lui, ma è un dono che Lui fa a noi. Forse questa divina presenza nel povero, nel bisognoso, nell’ultimo, nel più piccolo e indifeso….ci può anche scomodare. Eppure è stata ed è anch’essa un dono grande per la nostra vita. Come fu un dono grande per Maria, Giuseppe, i pastori e noi, quel piccolo e indifeso bambino che nacque a Betlemme.  E’ normale che si possa sentire un certo disagio e che, nel concreto, sia necessario regolamentare al meglio quei fenomeni che assumono proporzioni tali da risultare ingestibili dal singolo. Eppure, anche se a volte inquietante, riconosciamo che è stata ed è una grazia di Dio, aver potuto aprire le nostre braccia e il nostro cuore a chi è nel bisogno. E dobbiamo ringraziare Dio che, venendo a noi in questo modo, ci abbia dato la possibilità di uscire almeno un po’ dai nostri egoismi, dalla nostra indifferenza, dalle nostre chiusure.

Giunti al termine dell’anno, vogliamo infine dire grazie al Signore anche per il dono della vita terrena. Siamo destinati al paradiso, è vero; ma ciò non impedisce, anzi ci richiede di apprezzare questa vita terrena che Dio ci ha dato, indispensabile per la stessa vita eterna. E noi l’apprezziamo questa nostra vita, con tutte le sue tribolazioni e gioie. Siamo contenti di averla vissuta di averla potuta anche quest’anno assaporare col suo gusto bello e intenso, amaro e dolce allo stesso tempo. Con la vita terrena, stasera ricordiamo anche quelle cose terrene che Lui ci ha dato e per le quali troppo spesso ci dimentichiamo di ringraziarlo: cioè la nostra terra; la casa comune dell’umanità che Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato sii ci ha invitato a contemplare e a custodire. E lo facciamo con l’animo e le parole di un grande santo, San Francesco, che sapeva vedere nelle cose della terra il dono di Dio.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate

Parole davvero belle per chiudere nella gratitudine il 2017. Ma anche per aprire il 2018, nella gratitudine appunto, per la certezza che Dio continuerà ad amarci. E allora auguri per il prossimo anno: che possiamo accogliere con cuore più aperto i doni di Dio e farli fruttificare in noi, nella nostra società e nel mondo e si edifichi il Regno di Dio.

 

 




Natale – Messa del Giorno (25 dicembre 2017)

Natale
Cattedrale di S. Zeno 25 dicembre 2017

 

Il Natale del Signore è un evento straordinario, unico. Non possiamo banalizzarlo, svuotandone il significato. Anzi, questo significato dobbiamo senz’altro recuperalo. Nella fede noi crediamo che duemila anni fa, nel villaggio di Betlemme in Palestina, l’onnipotente Dio, creatore del cielo e della terra, ha preso forma umana, è diventato uomo, nascendo da una donna vergine, sposata ad un uomo di nome Giuseppe. In quella lontana notte di Betlemme, Dio è venuto nel mondo e ha chiesto di essere accolto con amore; prima da quella giovane donna di nome Maria, poi da Giuseppe, lo sposo promesso, poi dai pastori e via via da tutti noi. Ancora oggi Egli nasce e desidera essere accolto nella nostra vita e nella vita del mondo.

Ecco allora che celebrare il Natale significa innanzitutto domandarsi che posto ha Dio nella nostra vita; se davvero Egli è accolto; se c’è spazio per Lui nella nostra esistenza. E siccome Dio, venuto nella carne ha un nome preciso e cioè Gesù, ci dobbiamo domandare: che posto ha il Signore Gesù nella mia, nella nostra vita? Intendiamoci, Dio è già in noi; abita già le profondità del nostro essere ed è dentro il mondo. Senza la presenza di Dio nella la storia come si è realizzata nel Natale di Betlemme anzi, il mondo, l’umanità sarebbero irrimediabilmente perduti e il potere delle tenebre dominerebbe su tutto.

Ciononostante, Lui deve essere accolto ancora in pienezza, deve trovare più spazio in noi e nel mondo; ancora ci sono tenebre nel mondo e queste attendono di essere vinte con la luce del Signore Gesù. Domandiamoci allora: forse ci siamo un po’ dimenticati di Dio? Forse Lui è il primo escluso dalla nostra vita oppure ci ricordiamo di Lui solo per chiedere qualcosa o per maledirlo se le cose non vanno come vorremmo, senza però che il Signore Gesù viva e in noi e guidi la nostra vita. Domandiamocelo. Chiediamoci se il peccato, il nostro egoismo, il nostro superbo io non riempia tutto di noi, per cui non resti più spazio per lui. Ancora troppe sono le ingiustizie nel mondo per poter dire che Dio è stato veramente accolto. Troppe sono ancora le guerre e le violenze, troppa la corruzione e il malaffare, troppa l’indifferenza nel mondo, per poter dire che Dio, nato bambino a Betlemme è stato accolto veramente e con amore.

Se però Dio non è accolto sinceramente, autenticamente e profondamente – ecco la seconda considerazione che c’è da fare a Natale – irrimediabilmente si finisce per non accogliere l’altro che ci sta accanto o l’altro che viene da lontano. L’altro infatti, il nostro prossimo, sia esso la moglie o il marito, figlio o genitore, paesano o concittadino, oppure straniero o sconosciuto, è presenza di Dio, immagine sua. Se non si accoglie Dio nel cuore e nella carne, se non ci si fa discepoli di Gesù fino in fondo; se non si accoglie Dio, così come Lui si è rivelato, come si è fatto conoscere, cioè nella piccolezza del bambino Gesù; se non impariamo da Dio questa povertà e umiltà, finiremo sempre per opprimere l’altro, per togliergli la libertà, per renderlo nostro schiavo e servirci di lui ai nostri fini, oppure resteremo assolutamente indifferenti, senza nemmeno accorgerci di lui. E, quando succede questo, è segno che anche la nostra accoglienza di Dio è solo a parole, falsa e ipocrita.

Con queste convinzioni nel cuore vorrei allora farvi gli auguri di Buon Natale. Innanzitutto vorrei farli alla città di Pistoia. A questa città bella e piena di fascino, capace di prenderti il cuore, che preferisce il silenzio ma al tempo stesso la polemica; solidale ma anche un po’ scontrosa. Fraterna ma sempre pronta a dividersi. Alla nostra Pistoia auguro con tutto il cuore che sia città accogliente: che sappia cioè accogliere Dio, con quella fede che ha segnato in modo così incisivo e artistico i suoi luoghi, le sue strade, le sue piazze, la sua storia; nello stesso tempo che sappia sempre più accogliersi al suo interno senza frantumarsi e accogliere chi è nel bisogno, senza paure e senza guardare al colore della pelle, con spirito di autentico servizio. Sono certo che così facendo, Pistoia troverà la via di un vero sviluppo.

Un Buon Natale speciale vorrei dirlo ai piccoli, ai bambini, ormai davvero troppo pochi a dimostrazione di una società che sembra aver perso speranza nel futuro e voglia di vivere. Ai bambini dico: grazie che ci siete, meno male che ci siete perché voi siete la prima e fondamentale immagine di Gesù bambino e perché voi vedete e sognate cose importanti e belle che noi “grandi” a volte non riusciamo più a vedere e a sognare. Mi auguro che davvero ci siano tanti ma tanti bambini a Pistoia e il loro gioioso e rumoroso cinguettio riempia le case, le piazze e le chiese. Accogliere i bambini, farli nascere e crescere è accogliere Dio e dargli concretamente spazio nella vita del mondo.

Un buon Natale infine a chi si sente solo e smarrito – e quante volte accade anche a noi! A chi non spera più; a chi è deluso dalla vita e da se stesso, magari incatenato in situazioni da cui vorrebbe uscire ma non ci riesce. A chi è stanco e oppresso o sente il peso di una vita sbagliata e le conseguenze negative delle proprie azioni. A costoro dico semplicemente di provare ad aprire il cuore al bambino Gesù, fermandosi per un istante davanti a un presepio, entrando magari furtivamente nel silenzio di una chiesa, provando a dire una preghiera, una di quelle semplici che si imparano da bambini oppure con parole che vengono dal cuore. Mi auguro davvero che possano incontrare sul loro cammino chi li accolga con affetto e si faccia premuroso compagno di strada.

A tutti voi qui presenti infine Buon Natale. Abbiamo condiviso la fede nel Dio che si è fatto uomo; abbiamo celebrato la speranza che è nata col bambino Gesù, siamo stati inondati dall’amore di Dio; abbiamo accolto Dio, almeno con i gesti e le parole della liturgia: continuiamo questa accoglienza di Dio nella nostra vita e con semplicità apriamo il cuore all’accoglienza del nostro prossimo, chiunque esso sia.

+ Fausto Tardelli




Natale – messa della notte (24 dicembre 2017)

Natale
Cattedrale di S. Zeno 24 dicembre 2017

 

È Natale, carissimi amici. Si, è Natale, è vero. Credo però che occorra subito sgombrare il campo dalla parodia del Natale che purtroppo spesso in questi giorni va in onda. Togliamo dalla banalità il Natale. Ritorniamo a comprendere che cosa esso sia, in verità. Togliamolo dalla carta da regalo in cui l’abbiamo impacchettato; da quella melassa sdolcinata e stucchevole della bontà a buon mercato e dei buoni sentimenti che, a Natale, sembra che dobbiamo avere per forza.

Il Natale è una cosa sola; non mille altre, come fosse una grande sacca dove dentro ci si infila un po’ di tutto. Con il massimo rispetto per babbo natale, ma lui, col Natale non c’ha a che vedere niente. Natale è la nascita di Gesù. Questo è il Natale. Natale significa nascita ma se non si dice di chi, non si capisce nulla…. Natale è la nascita del Signore Gesù. È la nascita nella carne umana del Figlio di Dio. È l’incarnazione dell’eterno Verbo di Dio. È Dio stesso che è venuto ad abitare in mezzo a noi e ha preso in tutto la nostra condizione umana, eccetto il peccato. Dio, che nessuno ha mai visto, si è fatto vedere a noi in un bambino nato 2000 anni fa a Betlemme. Non è una favola. Non è un racconto fantastico; non è un film di fantascienza: è la verità; un evento storico. A Betlemme nacque un bambino da una giovane donna di Nazareth, sposata ad un uomo di nome Giuseppe. Quel bambino, per il credente, è Dio stesso; il Figlio unigenito del Padre, una cosa sola con lui e con lo Spirito Santo.
Vivere il Natale allora non può che voler dire innanzitutto ritornare a questa fondamentale verità; vuol dire rinnovare la nostra fede in Dio che si è fatto presente in mezzo a noi. Agli occhi del mondo, questa cosa è una follia, una stupidaggine, un non senso, un’invenzione della fantasia umana? Può essere. Per noi è invece la verità che ci da la vita: Dio ci ha visitato. È entrato nella storia, nel nostro mondo; è divenuto uno di noi. Con questo gesto, Dio è venuto a cercarci, a incontrarci, a ristabilire un’amicizia che l’uomo aveva rifiutato. L’incarnazione di Dio avviene infatti, come professiamo nel credo ogni domenica a messa: “per noi uomini e per la nostra salvezza”. Dio è venuto sulla terra, è nato nella nostra carne, per fare pace con noi e guarirci da quel male mortale che portiamo in noi che è il peccato, la mancanza di amore. “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama”. Annunciano gli angeli ai pastori svegliati perché vadano ad adorare i bambino.

Non ci vuol molto a riconoscere che l’uomo è profondamente malato e che ha bisogno di guarigione. Solo un cieco potrebbe non vedere il dramma dell’umanità. È necessario fare l’elenco delle malvagità di cui il cuore umano è stato capace durante tutta la storia e ancor oggi? Non credo proprio che ce ne sia bisogno, tanto è evidente il male che assedia l’uomo e con il quale l’uomo scende spesso a patti. È indubbio dunque che l’umanità ha bisogno di salvezza, di guarigione, di sradicare da sé il male e raggiungere una pace che è interiore e d esteriore insieme. Ciascuno di noi, se siamo sinceri, dobbiamo riconoscere di avere questo bisogno di salvezza, di liberazione dai nostri piccoli o grandi egoismi, dai nostri piccoli o grandi peccati, dalla nostra indifferenza nei confronti degli altri, dai nostri rancori e gelosie, dalla rabbia e dalla violenza che si annida dentro di noi; dalle nostre dipendenze, dai nostri vizi. Tutti poi sentiamo incombere su di noi il rischio più grosso: la mancanza di amore; che nessuno ci voglia bene o che non riusciamo noi a volerne agli altri; il rischio dunque della solitudine, di rimanere soli, scordati e dimenticati da tutti, forse, a volte, anche a causa di noi stessi, del nostro carattere, delle scelte che abbiamo fatto e che ci segnano irrimediabilmente la vita.

Noi dunque, tutta l’umanità, il mondo abbiamo bisogno di salvezza. Ma con il Natale nasce per noi il Salvatore, il medico che può guarirci: il gioco allora sembrerebbe fatto! Cos’altro ci manca? Non è però così. Quel medico divino; quel Dio venuto ad abitare fra noi; quel salvatore, tante volte non è seguito, non è accolto, non si corre da Lui, non ci si affretta ad incontrarlo; si gira alla larga; ci si volta piuttosto da un’altra parte per cercare altrove, illudendoci, guarigione e salvezza, libertà, riconoscimento e amore.

Come è possibile? Come può accadere una cosa del genere? Come può essere successo? Sta di fatto che ciò è accaduto e continua ad accadere, dopo la nascita del bambino Gesù. Già questa avvenne fuori, perché non c’era posto per lui. Appena nato poi, lo si cercò per ucciderlo e la sacra famiglia fu costretta ad emigrare in Egitto. Cresciuto, Gesù trovò spesso un muro, proprio tra i suoi, tra coloro che avrebbero dovuto riconoscerlo come il salvatore. Poi? Poi siamo stati capaci di uccidere il nostro salvatore, di appendere al legno della croce Colui che poteva guarirci dal nostri mali. C’è dell’assurdo in tutto questo!

Ma c’è un motivo per cui questo accadde e ancora continua oggi ed è ciò su cui il maligno fa leva per farci sembrare ridicolo, inattendibile, anzi ingannevole, tutto ciò che Dio fa: è il modo stesso con cui Dio è voluto venire tra noi. Nell’umiltà, nel nascondimento, nella tenerezza dell’amore, nella forma più indifesa e impotente. E noi, noi proprio no, questa cosa qui, ci confonde, ci scombussola, perché noi siamo malati soprattutto di superbia e pensiamo sempre di essere chi sa chi e riteniamo anche che chi conta veramente e può far qualcosa per noi, deve essere uno superbo come noi, un potente che fa vedere i muscoli! Se Dio fosse venuto tra noi in pompa magna, con lampi e fulmini, su un carro di fuoco, con la potenza di legioni di angeli; se fosse venuto a noi come un ricchissimo e potentissimo signore, non ho dubbi che l’avremmo subito accolto. Deferenti e col capo chino, l’avremmo circondato di onori e di lodi; avremmo avuto infatti la sciocca certezza che Egli avrebbe risolto i nostri problemi e dato salvezza a tutti noi. Invece no. Dio si presenta in un modo che ci spiazza. Non ci vuole costringere. Vuole il nostro amore e l’amore o è libero o non è amore. Non vuole che lo amiamo per interesse, perché l’amore per interesse è una contraddizione in termini e non guarisce il cuore: lo ammala di più; lo fa diventare cattivo e violento. Con la sua nascita come un piccolo bambino indifeso e fragile, Dio vuole insegnarci che la guarigione del nostro cuore e del mondo, passa attraverso l’umiltà di riconoscere in verità il nostro bisogno di Dio e degli altri; consiste nel riconoscerci piccoli e amati con dolcezza; sta nell’accettare di essere amati e perdonati; nell’imparare a prendersi cura amorevolmente del nostro prossimo, fino ad amare persino i nostri stessi nemici.

Allora, carissimi amici, noi che per grazia di Dio sappiamo come stanno veramente le cose, accorriamo disponibili alla grotta di Bethleem. Affrettiamoci. Ringraziamo dal profondo del cuore questo Dio che si è messo nelle nostre mani; riconosciamo, confessiamo con onestà i nostri peccati, i mali interiori che rovinano la nostra vita e chiediamo al salvatore del mondo, umilmente e ardentemente, la guarigione. Attraverso il sacramento della riconciliazione, riceviamo il perdono dei nostri peccati. Nell’Eucaristia, mangiamo il pane della vita che è Gesù, vivo e vero, umilmente presente in un insignificante pezzetto di pane. Apriamo le braccia della tenerezza verso Gesù e accogliamolo con la premura e l’attenzione con la quale si prende in braccio un neonato; con la stessa premura e umiltà apriamo il cuore e le braccia alle persone che ci stanno vicine ogni giorno; a quelle che incontriamo; a quelle che sappiamo essere nel bisogno qui da noi e nel mondo.

Solo così il Natale del Signore sarà autentico, sarà degnamente celebrato e sarà davvero un Buon Natale. Quel Buon Natale che auguro di cuore a me e a tutti voi.

+ Fausto Tardelli




In morte di don Gentilini (20 dicembre 2017)

In morte di don Gentilini
20 dicembre 2017

(Chiesa di Santa Chiara, Seminario di Pistoia)

Ieri se n’è andato non il più presbitero più “presbitero” della diocesi, perché è ancora vivo don Italo Taddei che è il nostro decano, ma, dopo di lui senz’altro il più anziano sacerdote della diocesi. Don Giovanni Gentilini, il primo gennaio avrebbe compiuto 98 anni. Ieri si è letteralmente spento, facendosi ancora più piccolo e minuto di come lo era in vita.

Come ben sappiamo, il “dies natalis” per il cristiano non è il giorno della sua nascita al mondo. È invece il giorno della sua morte. Perché nel giorno della sua morte, egli nasce al cielo; se nella sua vita terrena si è affidato al Signore; se ha cercato di compiere il bene con onestà e sincerità di cuore, amando il prossimo come se stesso; se si è pentito sinceramente del male commesso; per lui si aprono le porte del cielo ed è veramente un giorno “natalizio”. Non giorno di tristezza e amarezza per la fine di qualcosa, bensì gioia e letizia per la nascita definitiva ad una nuova vita.

Sappiamo anche – carissimi amici – che la nostra nascita al cielo è stata resa possibile unicamente dal fatto che Dio si è degnato di nascere sulla nostra terra, prendendo la nostra condizione di vita, condividendo con noi, eccetto il peccato, tutta la nostra fragilità. Cosicché il Natale del Signore sulla terra, ha reso possibile il natale del cristiano alla vita del cielo. È così allora che la morte di don Gentilini si incastona bene nel contesto della festa del Natale ormai prossimo. Don Gentilini se ne è andato proprio nel momento in cui facciamo memoria della venuta di Dio in mezzo a noi. Il suo ingresso in cielo, cosa che noi davvero speriamo, è frutto di questa venuta di Dio tra noi. Siano dunque rese grazie a Dio, ancora una volta e sempre, per aver dato a noi, sue creature, questa possibilità non dovuta e mai meritata. E nel rendere grazie a Dio, non riusciamo a non essere nella gioia anche nel salutare questo uomo di Dio che ha compiuto fedelmente la sua missione, ciò per cui era nato, nella semplicità dei modi, con l’acutezza della sua intelligenza, col suo spirito indomito, con la sua fede ardente. Negli ultimi anni, ormai la mente si era offuscata, ma fino all’ultimo, finché ha potuto e come poteva, è rimasto dedito e fedele ai doni ricevuti, davvero come un servitore vero del Signore. Quando ancora era nel pieno di tutte le sue facoltà ha scritto il suo testamento spirituale, bello, nelle sue poche, essenziali e commoventi parole: quasi una fotografia del suo animo. Lo leggo volentieri, perché sia ancora lui a parlarci e a testimoniarci la sua fede….

Carissimi, oggi la liturgia ci presenta la figura di Maria SS. che col suo si, si offre, quale strumento dell’avvento del Regno di Dio sulla terra. Siamo affascinati dalla figura di questa giovane donna, profetizzata nella figura della vergine che da alla luce un figlio, l’Emmanuele, e di cui ci ha parlato Isaia. Il dialogo di Maria santissima con l’arcangelo Gabriel è stupendo. Vi si legge l’amore di Dio per questa creatura che viene inondata dallo Spirito Santo per essere la madre del Salvatore. E quanto è dolce e insieme umano, il titubare di Maria, la sua sorpresa, il suo timore! Infine, l’abbandono fiducioso nelle mani di Dio fa splendere la risposta esemplare della fede a cui tutti siamo chiamati.

Il mistero che si è compiuto in Maria, ha a che vedere in certo qual modo col mistero che avvolge la vita di un presbitero. Costui, pur non essendo pieno di Grazia e pur essendo quindi segnato dal peccato di origine, viene ricolmato dei dono dello Spirito per essere, prima cristiano, discepolo e testimone di Cristo e poi, in sua persona, consacrato alla missione; perché attraverso di lui, il popolo di Dio abbia in nutrimento la parola e il pane di vita, ogni uomo trovi il perdono dei propri peccati e in un certo senso, Cristo nasca nel cuore di ognuno. Come Maria, il presbitero è strumento della grazia di Cristo e può dire con lei “Grandi cose ha fatto in me l’onnipotente”. Quando poi, con la sua vita, il sacredote cerca di corrispondere al dono ricevuto, compie un’opera straordinaria per la salvezza del mondo. Non importa che Maria sia una giovane, insignificante ragazza di uno sconosciuto villaggio come Nazareth. Dio si compiace di scegliere ciò che nel mondo è piccolo e a volte disprezzato, per compiere il suo disegno d’amore.

La vita di don Gentilini credo si possa accostare bene a quella di Maria. Egli ha compiuto la sua missione, apparentemente in una posizione modesta e secondaria, quasi appartato: prima parroco a Saturnana, poi a San Felice, infine, per lunghissimi anni a Sarripoli. La sua vita laboriosa unita alla sua intelligenza, lo ha fatto espertissimo conoscitore di latino e greco. Poteva forse essere stato grande, agli occhi del mondo. Invece ha semplicemente fatto ciò che gli è stato chiesto, con umiltà e dedizione. In questo modo però possiamo ben dire sia stato un vero strumento nella mani di Dio, lasciando una traccia profonda in chi l’ha conosciuto. E allora, mentre, giustamente, come ci invita a fare la chiesa, preghiamo per l’anima di don Gentilini perché sia purificato da ogni colpa che possa aver commesso, ringraziamo davvero il Signore per il dono di questo prete che ha esercitato in modo davvero ammirevole il ministero sacerdotale.

+ Fausto Tardelli




Solennità dell’Immacolata e ordinazione sacerdotale di Gianni Gasperini (8 dicembre 2017)

Solennità dell’Immacolata

8 dicembre 2017
Ordinazione sacerdotale di Gianni Gasperini

 

Tutti noi, carissimi fratelli e sorelle, siamo colpiti dalla bellezza di certi luoghi, magari sperduti in capo al mondo, ma ancora incontaminati. Ne restiamo incantati. Questi luoghi per la verità si fanno sempre più rari nel nostro mondo, ma tutti ne sentiamo il fascino e quando ci è data l’occasione di trovarcisi, siamo contenti, la cosa ci fa star bene e portiamo a lungo negli occhi e nel cuore il ricordo di ciò che abbiamo visto e gustato.

In effetti proviamo una gioia grande e profonda nel contemplare le meraviglie di paesaggi, fatti di valli, montagne e boschi, di distese di acque o di mare. Quanto è bello trovarsi lì nel mezzo, dove ancora l’acqua delle fonti e dei fiumi è così pulita che la si può persino bere e l’aria è pura e luminosa, ricca di ossigeno che ci permette di respirare a pieni polmoni, mentre anche la pioggia bagna e feconda la terra senza inquinarla, e le piante crescono rigogliose insieme agli animali e nessun incendio è lì a devastare ogni cosa!

Quando sperimentiamo una tale bellezza ne godiamo, anche perché in netto contrasto con la quotidiana esperienza dell’inquinamento, delle polveri sottili, delle piogge acide, dei materiali e delle discariche pericolose e via e via….

Questa lunga premessa soltanto per avere anche soltanto una pallida idea della gioia e della contentezza che promanano dalla festa di oggi, quella cioè della Immacolata Concezione di Maria SS.ma. Nel contemplare Maria, noi la vediamo piena di grazia, come le dice l’angelo a nome di Dio, tutta santa, senza macchia alcuna, e proviamo una gioia profonda, intensa: Maria infatti è la creatura non contaminata dal male, non inquinata, non corrotta. Lei è acqua purissima e limpida; è aria salubre e fresca; è mare libero da ogni inquinamento; paesaggio incontaminato e splendido; terra buona, fertile, bellissima. Ecco lo splendore di Maria ed è per noi davvero speranza e gioia. Per noi ancora immersi nel peccato; in quel groviglio inquinante del malaffare e della corruzione; noi spesso dentro le tenebre dell’ingiustizia e della violenza, della cattiveria, della prepotenza, della sopraffazione. Per noi, immersi ogni giorno in un inquinamento che prima di essere ambientale è morale e spirituale, guardare oggi a Maria, alla tutta bella e alla tutta santa, ci da consolazione e speranza. Ci fa capire che è possibile sperare perché quanto dice San Paolo e cioè che Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, non è una fandonia e non è nemmeno un modo di dire: è la verità sacrosanta e in Maria, questa verità risplende.

Il cammino di Maria sulla terra non fu però facile. La bellezza della sua purezza, della sua incontaminatezza; l’essere libera da ogni corruzione dell’anima e del corpo, non la preservò affatto dalla fatica, dal dolore, dal buio della fede, dalla pesantezza dei giorni e della carne. Lei dunque ci dice con chiarezza che la docilità all’azione dello Spirito Santo che opera la santificazione dell’uomo, va espressa in un impegno giornaliero che per noi significa passare ogni giorno dalla morte del peccato alla vita nuova dei figli di Dio, lottando e soffrendo perché l’umanità intera e la casa comune di questa umanità, siano terra confiscata alla corruzione del male, perché siano terra fertile per la giustizia, la verità e la pace.

Tra poco ordinerò un nuovo presbitero. Il prete non è senza peccato originale come Maria SS.ma e il peccato attuale segna spesso la sua vita. Eppure, la sua azione apre alla bellezza dei cieli nuovi e della terra nuova. E’ un pover’uomo, alla fine, che è stato afferrato dall’amore di Cristo senza sapere nemmeno lui perché e percome. Forse, avesse seguito il suo comodo, avrebbe fatto altre cose e battuto altre strade. Un giorno però – e ogni prete conosce bene quel giorno e non può scordarlo – gli occhi di Cristo si sono fissati dentro i suoi e sono andati a scavare la sua anima. A quel punto non ha potuto che arrendersi all’amore, accettando di diventando pescatore di uomini, accettando anche di misurare ogni giorno con sofferenza la distanza tra ciò che è diventato per grazia e quello che riesce ad essere. Lo Spirito Santo lo ha invaso, come ora avverrà per Gianni, rendendolo capace di comunicare Cristo al mondo; di generarlo per gli altri, esattamente come è accaduto per Maria. Ciò che il prete porta tra le sue mani, che custodisce nel suo ministero, ciò che comunica con la parola di Dio fatta sacramento di salvezza, che compie in nome di Cristo, aldilà della sua miseria e di tutta la sua debolezza, è ciò che fa nuove tutte le cose: è ciò che disinquina il cuore dell’uomo dal male; è la sorgente dell’acqua pura che disseta per la vita eterna; è l’aria piena di ossigeno che fa vivere; è il mistero d’amore che ha reso tutta santa la Vergine Maria.

E tu, carissimo Gianni, durante il tuo cammino, nei momenti belli come in quelli più faticosi, di fronte alle crisi e prove di ogni genere che dovrai affrontare, ricordati sempre del farmaco di immortalità che porti, del tesoro di grazia e di bellezza che ti è stato affidato e cerca di fare in modo che tutti quelli che attraverseranno la tua vita o che andrai a cercare, lo possano personalmente incontrare.

 




Lettera al Clero diocesano: La grazia e la responsabilità di essere preti oggi a Pistoia

LA GRAZIA E LA RESPONSABILITÀ DI ESSERE PRETI OGGI A PISTOIA

8 DICEMBRE 2017

Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria

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La nostra chiesa è in festa: nella solennità dell’Immacolata Concezione, verrà infatti ordinato un nuovo presbitero, don Gianni Gasperini, e Dio sa quanto abbiamo bisogno di preti e di preti santi, dediti anima e corpo al ministero apostolico e profondamente innamorati di Cristo. Ci stringiamo pertanto attorno a don Gianni; preghiamo per lui e con lui diamo lode al Signore.

Quella dell’otto dicembre è una grande gioia per tutta la chiesa pistoiese; una gioia che si unisce a quella che scaturisce dalla contemplazione dello splendore della Vergine Maria, la tutta santa, la piena di grazia. Proprio in quel giorno inoltre, si compiono tre anni dal mio arrivo a Pistoia ed è per me motivo di sincera gratitudine al Signore. Colgo allora la bella occasione che ci si presenta, per consegnare alla diocesi una breve nota sulla vita e le responsabilità del prete, perchè da parte di tutto il popolo cristiano si apprezzi sempre di più il dono del sacerdozio ministeriale e perché gli stessi presbiteri possano corrispondere al meglio al dono ricevuto.

In quanto chiamati da Cristo alla sua sequela come “pescatori di uomini”, i presbiteri hanno il compito fondamentale di aiutare le persone ad incontrare Gesù Cristo Salvatore, ad aprire il cuore a Lui per lasciarsi trasformare dallo Spirito, così da essere veri figli del Padre, ripieni di amore anche verso i nemici e quindi partecipi della vita eterna. Come dice il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium al n.28, “Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l’ufficio di Cristo, pastore e capo, i presbiteri raccolgono la famiglia di Dio quale insieme di fratelli animati da un solo spirito; per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24)”. Tale ministero si compie stando tra il popolo, in missione sulle strade del mondo, annunciando in parole e opere Gesù morto e risorto, via, verità e vita; amministrando i sacramenti dell’incontro con Cristo, particolarmente perdonando i peccati e donando il Pane della Vita, affinchè i poveri, gli ultimi, i peccatori ritrovino dignità, speranza e salvezza. Si compie inoltre visitando gli infermi, soccorrendo chi è nel bisogno e guidando i singoli e le comunità verso la pienezza della vita del mondo che verrà.

I presbiteri non sono degli operatori sociali, bensì uomini di Dio altissimo che in Gesù Cristo ha dato possibilità di vita nuova ai peccatori e ha aperto all’umanità le porte del cielo. Essi hanno una missione eminentemente spirituale ma non per questo disancorata dalla realtà; piuttosto concentrata su quello che è il senso stesso della vita, il suo fine, la sua meta: Dio in Cristo. Se si interessano di problemi sociali è perchè gli uomini e le donne possano svincolarsi da condizionamenti indegni della persona umana e ognuno sia libero di abbracciare Cristo e pregustare la bellezza della vita eterna.

I presbiteri sono educatori nel popolo di Dio: educatori alla vita nuova in Cristo, che è vita di lode al Padre, di amore verso di Lui e verso il prossimo; educatori che risvegliano nei laici la consapevolezza della vocazione battesimale che li fa partecipi a pieno titolo della vita e della missione della chiesa. A immagine del Buon pastore, sono chiamati a  donare se stessi per il Regno di Dio; ad accogliere e perdonare; ad annunciare la misericordia del Padre e la necessità della conversione; a predicare e insegnare le verità che sono via al cielo, correggendo e sostenendo, consolando e ammonendo, difendendo la vita e la dignità di ogni uomo, sempre però con la viva consapevolezza di aver bisogno per primi della misericordia di Dio, perché coscienti di non essere migliori degli altri.

Per questo debbono continuamente verificare con scrupolo, e la propria fedeltà alla Parola di Dio così com’è interpretata dal Magistero, e il rispetto nei confronti della sacra liturgia, e l’osservanza della disciplina ecclesiale. Occorre che vigilino inoltre sulla propria condotta morale e sul celibato vissuto per il Regno, mantenendosi liberi anche da ogni pur minimo attaccamento al denaro e ai beni terreni. Si interroghino ancora sulla propria dedizione alle persone, in specie le più bisognose; sulla disponibilità ad accompagnarle come fa il buon pastore che si carica sulle spalle la pecora smarrita o dolorante; infine sulla prontezza alla collaborazione con gli altri presbiteri, oggi tanto necessaria.

Proprio per la loro responsabilità di educatori, i sacerdoti siano molto attenti nel parlare e nell’agire, in modo da favorire il dialogo e l’incontro, mai lo scontro. Essi sono uomini di comunione e per loro nessuno è nemico, pur se qualcuno può arrivare a considerarli nemici. Anche quando la loro voce si alza per proclamare la giustizia e la verità, lo facciano nei modi che l’ora presente richiede. Oggi infatti siamo seduti su di una polveriera, per cui occorre imparare a misurare i gesti e le parole, perché non accada esattamente il contrario di ciò che vorremmo: che scoppi la guerra, dove invece si vuole la pace. Gli animi sono surriscaldati; in giro c’è rabbia e malcontento; ci si muove spinti più dalla “pancia” che dalla ragione; più dalle sensazioni che dall’obiettività. La denuncia profetica perciò oggi si fa principalmente nel silenzio tenace dell’operosità; nella discrezione dell’azione quotidiana; nella ricerca di un confronto che risolva nel dialogo interpersonale gli inevitabili conflitti; gettando dentro la vita di tutti i giorni, umili semi di speranza. A mio parere, questo è lo stile di azione del presbitero nel tempo presente.

A tre anni ormai dalla mia venuta a Pistoia, posso dire con cognizione di causa che il presbiterio della nostra diocesi è in buona sostanza un grande dono. Ci sono purtroppo qua e là inadempienze e inadeguatezze; non possiamo certo nascondercelo. A volte si riscontra un esercizio ripetitivo e stanco del ministero, oppure comportamenti, abitudini e impostazioni pastorali che non sono del tutto in linea con quanto la Chiesa e il vescovo chiedono. Ogni tanto si affaccia qualche rivalità o invidia. Si fa poi fatica ad accettare una certa mobilità nel servizio parrocchiale, cosa che sarebbe di per sé normale, specie in questa stagione ecclesiale accentuatamente missionaria. Non mancano incomprensioni all’interno di qualche parrocchia e tensioni un po’ troppo aspre che il sacerdote dovrebbe cercare assolutamente di non fomentare, fosse anche solo involontariamente. Altrimenti si produrrebbe un’odiosa divisione nella comunità tra chi sta dalla parte del parroco e chi gli è contrario, finendo per dar luogo a un “nomadismo” da una parrocchia all’altra che non è per niente positivo. Bisognerebbe infatti che ogni fedele riuscisse ad accettare con fiducia il sacerdote che ha, senza andare dal prete che più gli piace; ricercando piuttosto con vero senso di responsabilità, le vie del dialogo, della comprensione reciproca e, se necessario, della correzione fraterna; cosa che del resto il presbitero dovrebbe accogliere con grande apertura di cuore. Qui evidentemente è in gioco anche il mio compito di pastore e padre, di amico e guida, di fratello e compagno di strada. Pur avvertendo la mia debolezza e fragilità e avendo ben chiare davanti agli occhi le mie inadempienze e incapacità, sento la responsabilità di esercitare quella che voglio chiamo una “amorevole vigilanza”. Mi spingono ad essa sia il rispetto dovuto al popolo santo di Dio, che ha diritto di trovare nei preti ciò di cui ha bisogno per crescere nella “statura di Cristo”, sia l’affetto sincero che nutro verso ogni singolo presbitero di questa diocesi.

Se dunque cose da migliorare ce ne siano, ciononostante la nostra diocesi, come dicevo, ha sostanzialmente un buon presbiterio, dedito con entusiasmo e passione alla missione apostolica. La cura pastorale del popolo di Dio non è certo trascurata. Ciò è ancor più degno di nota se si tien conto che di questi tempi ogni presbitero porta un carico non indifferente di preoccupazioni, di fatica e talvolta anche di amarezze. Capita infatti che di tanto in tanto debba sopportare pazientemente critiche ingiuste e ingenerose. In qualche caso gli accade persino di essere vittima di maldicenze se non di calunnie. Un prete che si sforzi di compiere con fedeltà la sua missione, oggi si trova sempre in movimento, direi “consumato” dalle persone, dalle situazioni complicate che deve affrontare, forse anche da tante incombenze di cui farebbe volentieri a meno e che bisognerebbe effettivamente trovassero una diversa soluzione.
Mi sento perciò di dire sinceramente grazie ai presbiteri di questa Chiesa e credo dovrebbero farlo pure ogni comunità e ogni cristiano. Se segnalo dei limiti, è perché ritengo che la vita e l’operato dei presbiteri possa migliorare ancora e che in ogni caso ci sia bisogno di un “colpo d’ala”: per far meglio ed essere in tutto e per tutto dei veri “pescatori di uomini”, se non altro con più gioia, fantasia e abbandono fiducioso nelle braccia del Padre. Per questo, chiedo a tutta intera la comunità diocesana di non smettere di pregare per la santificazione di noi sacerdoti.

Termino ritornando ad assaporare la gioia che il Signore ci dona l’otto dicembre e invitando tutti ad aprire il cuore alla gratitudine. Affido a Maria Santissima la vita di don Gianni perchè sia sacerdote secondo il pensiero, il cuore e la carne di Dio. Affido alla Madonna i presbiteri della nostra chiesa, me compreso, perchè siamo un cuor solo e un’anima sola, contenti della chiamata che il Signore ci ha rivolto.

Affido inoltre a Maria il piccolo gruppo dei nostri seminaristi affinchè si preparino bene al ministero sacerdotale, verificando con attenzione la propria vocazione. Che Maria infine benedica tutto intero il popolo di Dio che è la santa Chiesa pistoiese ma anche un po’ fiorentina e pratese: cresca ogni giorno di più nella gioia del vangelo.

Pistoia 3 dicembre 2017,
prima domenica di Avvento
+ Fausto Tardelli




Festa dell’unità nazionale e delle forze armate (4 novembre 2017)

4 novembre 2017

Festa dell’unità nazionale e delle forze armate

 

Per molti anni, oggi era la festa della vittoria.  Celebravamo la vittoria sui nemici della prima guerra mondiale. Oggi forse abbiamo capito che, se essere liberati da un giogo ingiusto e oppressivo è cosa buona, doverlo pagare con lo spargimento del sangue, sia pure di Caino, è sempre una sconfitta per l’umanità del mondo e per l’umanità che è dentro ogni uomo.

Cento anni fa eravamo in guerra. Da questo punto di vista oggi le cose sono notevolmente migliorate, lo dobbiamo riconoscere. Oggi sarebbe assolutamente impensabile una guerra come la combattemmo allora, in specie tra le nazioni della vecchia Europa. Non lo abbiamo capito però subito, allora, cento anni fa, purtroppo – e questo ci mette un po’ di angoscia per il presente….. Ci vollero ancora il dramma enorme della seconda guerra mondiale, la strage infinita di uomini e donne, lo sterminio degli ebrei, le bombe atomiche di Nagasaki e Hiroshima.

Oggi abbiamo dato un nuovo nome a questo giorno: è la festa dell’unità nazionale e delle nostre forze armate che, secondo il dettato costituzionale non hanno alcuna finalità aggressiva ma solo difensiva e di difesa del bene grande della pace, dentro il quadro del diritto internazionale. E’ giusto, direi senz’altro, rendere omaggio ai caduti e onorare gli uomini e le donne delle nostre forze armate impegnate in un non facile compito. Come vescovo della chiesa cattolica di questa città, voglio esprimere gratitudine e vicinanza ad essi, in particolare in questo momento a coloro che sono in missione all’estero e che sono abitualmente stanziati da noi, che sono parte della nostra città. E’ senz’altro giusto inoltre far festa per la nostra patria, per la nostra cara Italia unita in un sol popolo, con la convinzione però che ogni popolo e nazione fa parte di un mondo che deve sentirsi prima che diviso, unito dalla comune appartenenza alla razza umana.

Se dunque giustamente facciamo festa, non possiamo però dimenticarci che il nostro sogno, sogno concreto e non utopistico, sogno non di illusi malati di fantasia ma di uomini determinati e coi piedi saldamente per terra; sogno da mettere in atto, da realizzare con tutte le nostre forze, certi dell’aiuto di Dio, non possiamo dimenticarci, ripeto, che il nostro sogno è quello di un mondo senza confini, senza armi e senza guerre, in cui dimora la giustizia e la pace. E’ il sogno propostoci dalla parola di Dio nel libro del profeta Isaia ascoltato poco fa: “Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre”

La realtà purtroppo è ancora lontana da questo sogno. Qualcosa è stato fatto e dobbiamo ringraziare il Signore. Come dicevo, oggi è meglio di cento anni fa. Sicuramente. Da tutti i punti di vista. Molto però resta da fare, perché molte sono ancora le terre dove regna il malaffare, la violenza e la guerra. Vale dunque ancora, eccome, il duro monito dell’apostolo Giacomo il minore: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”. E dunque ancora valide rimangono le indicazioni di Giacomo: “Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi…. purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria…. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.”

Non meno interessante e istruttive solo le parole di Cristo nel vangelo. Lì egli si rivolge ai suoi, ai suoi apostoli e discepoli e li invita ad avere sentimenti e stili di vita orientati al servizio, facendo loro capire che la vera grandezza non sta nel sedere in altro o nel potere che si ha sugli altri, ma nell’amore gratuito e generoso che si diffonde nel mondo; nell’umiltà di chi fa con coscienza il proprio dovere, senza aspettarsi niente in contraccambio, stando in mezzo agli altri nelle modalità di Cristo stesso  che dichiara: io sto in mezzo a voi come colui che serve.

L’insegnamento del Signore prende le mosse, come abbiamo sentito, dalla constatazione che nel mondo di solito non accade così perché i re e i governati dominano e hanno potere sulle nazioni. Credo però che oggi abbiamo capito, anche se non sempre si mette in pratica quanto si è capito, che il servizio al bene comune è l’autentica e unica cifra di chi ha responsabilità di governo. L’interesse comune e non il proprio, la ricerca di uno sviluppo economico nazionale e mondiale rispettoso di ogni persona, una politica che non sia solo ricerca di compromesso tra le parti ma chiaro impegno per una crescita di tutti in umanità; ecco, tutto questo è ciò che è richiesto in particolare a chi ha un ruolo pubblico. Ed è autentico spirito evangelico. In questo senso l’esortazioni di Cristo ai suoi valgono veramente anche per tutti coloro che in qualche modo tengono in mano le sorti del mondo. Valgono anche, mi permetto di dire, per tutti coloro che in qualche modo hanno responsabilità all’interno del nostro paese. Solo così infatti oggi può essere davvero festa dell’unità nazionale.

 




VI° Domenica di Pasqua – Ordinazione Diaconale di Gianni Gasperini – Cattedrale di San Zeno (21 maggio 2017)

ORDINAZIONE DIACONALE

di Gianni Gasperini
Cattedrale 21 maggio 2017

“Non vi lascerò orfani”. Questa tenerissima promessa del Salvatore rivolta ai suoi che troviamo nei discorsi di Gesù riportati dall’evangelista Giovanni, domina il brano evangelico di questa sera.
L’affermazione del Signore si colloca nel contesto della promessa del dono dello Spirito Santo. Quello Spirito di verità, quell’altro Paraclito, che il Padre darà ai discepoli di Gesù e che rimarrà con loro per sempre.

Siamo ormai prossimi alla festa di Pentecoste e la liturgia della chiesa ci introduce alla comprensione del dono dello Spirito che è “Signore e da la vita”. La nostra assemblea questa sera è già opera dello Spirito. Egli ci anima e ci sostiene; sostiene il cammino della nostra chiesa pur con tutte le sue fragilità e debolezze; assiste il mio ministero episcopale oltre ogni mio inesistente merito; lo stesso Spirito Santo questa sera consacrerà in modo speciale un giovane, Gianni, per farlo ministro di Dio, servitore del Vangelo e del popolo di Dio, segno vivente di Cristo che è venuto nel mondo non per essere servito ma per servire e dare la sua vita per gli uomini.

La promessa del Signore Gesù si è dunque adempiuta e si realizza anche questa sera. Si adempì allora quando lo Spirito scese sugli apostoli e sui discepoli dopo che Gesù era salito al cielo; si adempie questa sera perché nello Spirito, sentiamo viva la presenza del Risorto in mezzo a noi, lo vediamo veramente e non ci sentiamo per niente orfani. Consapevoli di ciò, questa sera, con totale e libera adesione di mente e di cuore, vogliamo essere docili all’azione dello Spirito Santo, per correre sulle sue ali e farci condurre là dove Egli vuole, aperti e disponibili a percorrere vie nuove; a battere sentieri sconosciuti, ad affrontare le sfide che il presente ci offre; certi che il Paraclito, invocato, cercato e supplicato, ci sosterrà.

I nuovi scenari del mondo, le mutate condizioni delle nostre società, l’avvento di un’era tecnologicamente avanzata; l’esteso ambito delle comunicazioni e transazioni in un mondo globalizzato; il portato delle nuove generazioni; la rimodulazione delle relazioni affettive; come l’epocale flusso migratorio che mescola razze, culture e credenze; e le abissali ingiustizie sociali, come pure i conflitti aperti di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi, con il rischio che corre la nostra casa comune…. Sono, tutte queste cose insieme, concretamente il luogo dove lo Spirito ci guida e dove dobbiamo dare testimonianza; il luogo da cui quindi non possiamo fuggire spaventati. Tutto quello che sta accadendo sotto i nostri occhi ci chiede attenzione e studio, analisi e intelligenza perché anche i problemi antichi si presentano oggi sotto nuova forma e con molteplici varianti e connessioni. Richiede però soprattutto docilità allo Spirito Santo; confidenza in Lui e supplica accorata: “Veni creator Spiritus mentes tuorum visita“!

La prima lettura dagli atti degli apostoli ci manifesta esattamente questa docilità allo Spirito da parte della comunità apostolica, al punto da diventare capace di accogliere la novità rappresentata dall’incredibile fatto che la Samaria, la terra degli ostili samaritani, si andava aprendo al vangelo, attraverso la predicazione del diacono Filippo. Dio ci sorprende sempre. Come sorprese gli uomini della prima ora, gli apostoli, aprendoli alla realtà della chiamata di tutti i popoli alla salvezza, così anche oggi Dio non finisce di sorprenderci attraverso l’ offerta di nuovi campi di apostolato, di tante nuove opportunità per annunciare il Vangelo, rendere testimonianza alla verità ed esercitare la carità. Proprio là dove tutto sembrerebbe chiuso e inaccessibile, si aprono invece varchi incredibili nei cuori delle persone, e lì gli araldi del vangelo possono depositare con umiltà e fiducia il seme della speranza. Solo il discepolo che non abbia più fede, che l’abbia ormai persa o che viva ripiegato su di sé o su idee scontate e cristallizzate, non vede i campi che biondeggiano di messe abbondante; la fame di Dio e di amore che c’è nell’uomo contemporaneo; l’anelito all’incontro con Gesù da parte dei giovani e il desiderio acuto di una vita che non muoia anche là dove pare che ci si sia ormai arresi alla morte.

L’apostolo Pietro, nel cap. terzo della sua prima lettera – la nostra seconda lettura di stasera – ci fa capire a che cosa siamo chiamati; a che cosa è chiamata la Chiesa, la Chiesa abitata e animata dallo Spirito Santo. Siamo chiamati a “rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi.” E subito dopo, la lettera prosegue, invitando a dare questa risposta “con dolcezza e rispetto e una retta coscienza”. La speranza deve essere in noi, prima di tutto: altrimenti come potremmo darne ragione? E la speranza vive in noi quando per la potenza dello Spirito Santo, Cristo vive in me, così che io lo possa adorare nel mio cuore. Alla base, a fondamento, a sostegno e sorgente della evangelizzazione, dell’azione del cristiano nel mondo, della sua testimonianza, non ci può che essere l’esperienza viva dell’incontro personale con Cristo che alimenta la speranza. Non basta però; come ci suggerisce l’apostolo Pietro, occorre anche lo sforzo e l’impegno per rispondere, rendendo ragione di questa nostra esperienza, realissima e concretissima. La fatica di una corretta, dolce e rispettosa “apologia” della fede, oggi è più che mai richiesta, convinti però che non potrà essere solo questione di intelligenza, bensì della totalità della persona. Pur sapendo ancora che la possibilità stessa di rendere ragione della speranza implica una vita coinvolta nell’amore, sinceramente dedita al dono di sé nel servizio dell’altro.

Ecco allora perché il diacono nella chiesa ha una missione importante. Aldilà dei compiti specifici, egli ci ricorda, ricorda a tutti noi, alla chiesa e al mondo, che è nel servizio di amore a Dio e al prossimo il segreto della piena riuscita della vita, secondo il progetto di Dio e la verifica dell’autenticità della fede.

Gianni è stato chiamato appunto all’ordine del diaconato. Fortificato dal dono dello Spirito Santo, il diacono – ci ricorda la chiesa – è di aiuto al vescovo e al presbiterio nel ministero della parola, dell’altare e della carità, mettendosi al servizio di tutti i fratelli. Divenuto ministro dell’altare, annunzia il Vangelo, prepara ciò che è necessario per il sacrificio eucaristico, distribuisce ai fedeli il sacramento del corpo e del sangue del Signore. Inoltre, secondo la missione che gli sarà conferita, avrà il compito di esortare e istruire nella dottrina di Cristo i fedeli e quanti sono alla ricerca della fede, guidare le preghiere, amministrare il Battesimo, assistere e benedire il Matrimonio, portare il Viatico ai moribondi, presiedere il rito delle esequie. Consacrato con l’imposizione delle mani secondo l’uso trasmesso dagli apostoli e unito più strettamente all’altare, il diacono esercita il ministero della carità in nome del vescovo o del parroco.

Tutti questi compiti, carissimi fratelli e sorelle – fanno si che possiamo vedere nel diacono un vero dono di Dio che ricorda a tutti la assoluta necessità del servizio. Nel ministero del diacono possiamo così riconoscere la testimonianza dell’autentico discepolo di Cristo, il quale non è venuto per esser servito, ma per servire. Siano dunque rese grazie al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo per il dono grande che questa sera ci viene fatto.

+ Fausto Tardelli




Pasqua di resurrezione – Cattedrale di San Zeno (16 aprile 2017)

Pasqua 2017
Cattedrale

 

Sono ormai trascorsi i giorni della passione. Il giorno dell’ultima cena e del tradimento; quello della cattura e della tortura; quello della crocifissione e della morte; è passato anche il giorno silenzioso del sepolcro; siamo finalmente a Pasqua, nel mattino del giorno nuovo, il giorno del Risorto.

Ma è tutto veramente passato? Davvero non c’è più traccia nella storia dei drammatici giorni della passione e della morte? No davvero, carissimi fratelli e amici. Se celebrassimo la Pasqua e la sua gioiosa luminosità pensando che i drammi del mondo siano finiti, sbaglieremmo di grosso. E la nostra non sarebbe fede, ma solo chiacchiere da imbonitore, segno che avremmo capito ben poco del mistero della redenzione.

In realtà ancora oggi e domani sarà versato sangue innocente. Ancora barconi porteranno sconsideratamente da noi un sacco di gente, e persone moriranno nel mare. Gli attentati non finiranno e la rischiosissima tensione in Asia rimarrà alta. Ancora gli arsenali si riempiranno di armi sempre più sofisticate per uccidere sempre meglio. Ancora ci sarà chi, non trovando sollievo alla sua sofferenza, vorrà togliersi dal mondo; ancora bambini concepiti saranno rifiutati e scartati; ancora ci saranno donne violentate o uccise da falsi amanti e l’odio continuerà ad abitare persino dentro le nostre case.

Forse mi direte: ma come, anche a Pasqua dobbiamo sentire questa memoria dolorosa di sangue? Non celebriamo forse la risurrezione di Cristo? La sua vittoria sulla morte e sull’odio del mondo? Egli non ha pagato per tutti noi col suo sangue il prezzo del nostro riscatto? Perché tormentarci con pensieri di morte pure oggi; perché guastarci anche questo giorno di festa? Almeno oggi, facciamo si che la più grossa preoccupazione sia se domani che è pasquetta pioverà o meno. Che guastafeste, questo vescovo!

E’ vero, carissimi amici e fratelli. Oggi noi siamo realmente nella gioia. Come lo furono le donne e i discepoli che rividero vivo Gesù. Lui che avevano ormai considerato perduto. Lo riabbracciarono, parlarono di nuovo con Lui. Egli li rincuorò e dette loro il suo Spirito. Noi, proprio come le donne e gli apostoli e i discepoli, siamo felici perché il Signore è risorto per mai più morire. Effettivamente, la vita e la morte si sono scontrate in un prodigioso duello. Gesù parve sconfitto mentre in realtà fu lui il vincitore. E’ tutto vero, fratelli. E’ veramente così. Cristo è risorto. E’ veramente risorto.

Ma ciò non toglie che nel mondo resti la violenza e si continui a versare sangue innocente. La risurrezione di Cristo non cambia le cose del mondo, non trasforma la terra in un giardino, non risolve i nostri problemi, non realizza un mondo di pace. No. La risurrezione di Cristo agisce nel cuore di chi crede, di chi si lascia incontrare da Lui, crocifisso e risorto. La risurrezione di Cristo mostra la sua potenza soltanto dentro l’anima che è disposta ad affidarsi. Allora, anche chi piange diviene beato; anche chi ha fame e sete può esser felice; anche i mansueti, i deboli, gli operatori di pace, gli assetati di giustizia, sono beati. Il loro cuore cambia e si trasformano in uomini e donne nuovi. Agli occhi del mondo restano degli illusi e dei perdenti e verranno sempre schiacciati ma in essi la fede nel Cristo risorto da forza e coraggio e li fa attraversare la morte come vincitori, senza perdere mai la speranza.
In questa prospettiva, che è quella del crocifisso – risorto, di Colui cioè che resta crocifisso anche da risorto e che è risorto anche se crocifisso, proviamo allora a vedere chi davvero oggi può festeggiare e fa effettivamente festa: ed ecco allora primi fra tutti la schiera dei martiri di ogni razza e colore, accumunati dal sangue versato per Cristo come pochi giorni fa, quei cristiani uccisi mentre celebravano l’ingresso del Signore in Gerusalemme. Oggi loro festeggiano per davvero nel cielo la Pasqua del Signore. Ecco poi coloro che hanno lasciato ogni cosa per servire il Signore, che hanno abbandonato onori e potere, ricchezze e gloria per essere solo di Dio, per consumarsi nel suo amore e contribuire alla salvezza dei fratelli. Uomini e donne, sconosciuti, morti al mondo che consumano la loro esistenza nella solitudine di un eremo o nel chiuso di un monastero. Oggi per loro è festa, festa perché morti al mondo sono diventati più vivi che mai in Cristo. Ma oggi festeggia la Pasqua anche tutta la moltitudine di coloro che si sono dati al servizio del prossimo, che si fanno in quattro per gli altri, che non misurano fatica e stanchezza per soccorrere chi è nel bisogno; che condividono ciò che hanno e sono: beni, conoscenze, talenti. Quelli che si fanno incontro a chi è affamato o assetato, nudo o malato o carcerato, levandosi magari il pane di bocca perché non ne manchi agli altri. Ed ecco infine la schiera di coloro che pur di restare fedeli al Signore accettano umiliazione, persecuzione, calunnia, offese; coloro che pur di non fare peccato, preferiscono passare da sciocchi e sopportano ogni cosa con pazienza, perdonando le offese ricevute e continuando ad amare anche i propri nemici. Oggi per loro è davvero Pasqua di risurrezione.

E per noi allora, carissimi fratelli e amici? Come possiamo anche noi festeggiare e fare Pasqua in verità, cantando con gioia sincera l’alleluia pasquale? Non abbiamo altra strada che imitare questi nostri fratelli; cambiando cioè il nostro cuore; accogliendo il Signore vivo in noi; credendo in lui. Solo se accettiamo di essere trasformati dalla grazia del Risorto, per noi sarà veramente festa di Pasqua. Solo se siamo disposti a camminare per le strade del mondo, confidando unicamente nella sua potenza; soltanto se siamo disposti ad andare contro corrente e a essere disprezzati per Cristo, abbracciando e servendo chi è all’ultimo posto nel mondo; solamente percorrendo questa strada, incontreremo il Risorto e avremo la sua consolazione; sentiremo le sue parole piene di amore che ci dicono: non temere, io ho vinto il mondo; non avere paura. Sono andato a preparati un posto perché là dove sono io possa essere anche tu.

Ma il mondo? Tutto resterà per sempre così, in balia del maligno, del nemico di Dio e dell’uomo? Ancora e per sempre dovremo vedere soprusi e violenza? No. Verrà il tempo, quello che solo Dio conosce, in cui sorgeranno cieli nuovi e terra nuova. Non dubitiamo. Verrà il tempo in cui il tentatore, il rosso drago di cui parla l’apocalisse, sarà gettato per sempre nello stagno di fuoco. Verrà un giorno in cui i morti risorgeranno e si stabilirà per sempre il Regno della giustizia e dell’amore. Quel giorno verrà. Ne siamo certi.

Ora però è il tempo dell’attesa nella fede, nella speranza e nell’amore. Ora sono i giorni in cui la risurrezione convive con la morte. I giorni in cui il Risorto appare soltanto a coloro che si aprono a lui e si sforzano di amare i fratelli. Oggi è il tempo di edificare ancora nelle lacrime pezzi di Regno di Dio, lavorando e faticando perché le nostre società siano più aperte a Dio e più rispettose della dignità di ogni uomo. Oggi sono i giorni in cui, per dirla con Sant’Agostino, cantiamo l’alleluia pasquale e lo cantiamo a squarciagola, ricolmi di gioia, sapendo però che non è l’alleluia del pieno possesso, ma invece l’alleluia della strada, l’alleluia del viandante. Oggi ci è dato di cantare si, ma di cantare ancora camminando nel tempo tra le consolazioni di Dio e le prove della vita, mentre crescono insieme nel campo del mondo la zizzania e il buon grano. Per questo stamani ripeto a me stesso e a ciascuno: canta e cammina; canta ma non fermare il tuo passo; canta nella gioia ma cammina nella carità. Questa è la Pasqua che ci è dato di vivere quaggiù.

+ Fausto Tardelli, vescovo