Messa Crismale – Cattedrale di San Zeno (12 aprile 2017)

S. Messa crismale 2017
Cattedrale

 

Carissimi presbiteri, diaconi, religiosi, religiose e laici, tutti uniti nel Battesimo che ci fa un popolo di sacerdoti, re e profeti, l’Eucaristia di questa sera manifesta mirabilmente la chiesa pistoiese ed è come un’anticipazione della Pasqua di risurrezione. La celebrazione festosa degli oli santi brilla della luce mattinale del giorno del risorto e ci mostra l’abbondanza dei doni pasquali che sono i sacramenti della Grazia. Anche se ancora dobbiamo attraversare il giorni della passione e della morte, la Risurrezione di Cristo è già presente e operante, come attuale è l’effusione del Santo Spirito che rinnova la faccia della terra. Il crocifisso risorto è in mezzo a noi ed effonde su di noi il suo Spirito che è anche lo Spirito del Padre e ci riunisce, non perchè restiamo nel chiuso del cenacolo ma per essere lievito di speranza dentro la società.

Tre segni vorrei cogliere in questa nostra celebrazione stasera. Tre segni evidenti che ci dicono molto di quello che siamo e che siamo chiamati ad essere: l’olio versato, il profumo del Crisma, la variegata composizione della nostra assemblea.

L’olio versato è il primo segno. L’olio prodotto dalle olive è stato versato nelle anfore per essere consacrato. Sarà versato poi nei vasetti di ogni parrocchia e da lì, ancora, sarà in qualche modo versato sul petto dei battezzandi, sulla fronte dei cresimandi, sul palmo delle mani dei presbiteri e infine sulle mani di coloro che sono nella malattia. Questo sacro olio è destinato a essere versato e a raggiungere molte persone. E’ il suo scopo, il suo compito. Gli olivi sono stati piantati e coltivati, le olive raccolte e frante perché l’olio fosse versato e consumato. Ebbene, non è lontana da questa vicenda dell’olio la nostra stessa vita! Nel segno dell’olio versato possiamo anzi ben individuare la nostra chiamata, quella del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi ma anche di tutto il popolo di Dio. Noi esistiamo per essere versati. Siamo stati raccolti nel grembo di una madre, generati dall’amore di un uomo e di una donna, cresciuti ed educati ma sempre per essere versati nella vita dei nostri fratelli, nella vita dell’umanità. Sappiamo bene di non essere sempre di ottima qualità; ciononostante siamo destinati dal Signore a farci vicini ai nostri fratelli con l’olio della consolazione e dell’amore, quello della speranza e della verità, quello della gioia e della letizia. Noi esistiamo per questo, carissimi fratelli e amici. Questo è il nostro compito e la nostra missione, ciò che da senso alla nostra vita. Non ci siamo noi e poi la nostra missione. La missione siamo noi, come ci ricorda Papa Francesco nella Evangelii Gaudium. E se questa attitudine deve caratterizzare tutta la nostra esistenza senza tristezze, malinconie o rimpianti e ci deve porre in atteggiamento di servizio nei confronti di ogni uomo in tutte le sue necessità, gli oli santi che significano la grazia santificante, ci rammentano che la missione delle missioni, quella per cui soprattutto dobbiamo versare la nostra vita, è la santificazione dei fratelli; è per dischiudere ad ognuno le porte del paradiso; perchè ogni uomo abbandoni la via del peccato e si apra nella fede all’amore di Dio e dei fratelli e sia salvo. Ciò include ogni tipo di attenzione e di premura anche per gli aspetti più materiali e sociali della vita delle persone, ma non può trascurare il punto di arrivo. E per quest’opera di Dio, carissimi amici, ci dobbiamo consumare e spendere con generosità.
Siamo troppo stanchi e fiacchi a volte. Diamo la colpa alle molte cose da fare, alla complessità delle situazioni, alle angustie del tempo presente. E c’è del vero in tutto ciò, ma come ancora Papa Francesco nella citata esortazione apostolica ci dice, spesso è che son venute meno le nostre motivazioni interiori; si sono affievoliti i motivi che stanno dentro la nostra anima; quella convinzione profonda che il senso della nostra vita sta soltanto nell’adempimento generoso e gioioso della nostra missione. E son queste motivazioni interiori e profonde che ognuno di noi è chiamato urgentemente a recuperare.

Il profumo del Crisma è il secondo segno. L’olio diventa Crisma per l’invocazione dello Spirito Santo e l’aggiunta di profumo. E il buon odore del Crisma tra poco si spanderà in questa cattedrale come ogni volta che verrà versato sulle persone. Il profumo è piacevole, ci sentiamo attratti da esso. Le varie fragranze possono essere più o meno gradite, ma il profumo comunque ci da piacere e rende piacevole anche l’incontro tra le persone. Credo che il segno del profumo del Crisma ci faccia capire che le cose di Dio non sono mai asettiche e disincarnate, inodori e insapori; sono invece vere, vive, pulsanti. Le cose dello spirito non si esauriscono nel pensiero, non sono solo concetti. Nel rapporto con Dio è implicato tutto il nostro essere e tutto di noi, anima e corpo, è chiamato a esprimere la lode di Dio, l’amore verso di Lui e l’amore verso i fratelli. Vorrei richiamare allora tutti noi a vivere con gioia tutta la vita. O la fede ha il sapore della vita oppure non è fede. Vivere la vita in pienezza significa saper assaporare tutta la realtà, le nostre passioni, i nostri sentimenti e le varie espressioni e momenti del vivere; fuorché il peccato, naturalmente, e mettendo sempre in conto una diuturna lotta contro di esso perchè il peccato non è in realtà vita, bensì la sua negazione. Noi siamo amanti della vita e ci si deve leggere in volto. Noi la vita la vogliamo gustare fino in fondo. Con la consapevolezza che la nostra credibilità si gioca nello spessore caldo di umanità che sappiamo esprimere nelle relazioni, dall’amore cioè che abbiamo alla vita nostra e altrui. Ciò infatti dimostra inequivocabilmente che con Cristo e in Cristo la vita non si rattrappisce e soffoca ma si dilata e si fa più intensa; che con Lui e in Lui siamo capaci di apprezzare le cose belle e buone dell’esistenza; capaci di piangere lacrime ma anche di ridere; capaci di cercare seriamente la volontà di Dio ma sempre con un po’ di senso dell’umorismo; capaci ancora di dire con schiettezza pane al pane e vino al vino, e quindi anche verità che non sono di moda e sono piuttosto scomode al mondo, non però come acidi e invidiosi ma come persone che proprio perchè amano la vita, sanno vedere ciò che la impoverisce e la intristisce.
Ha ragione il Papa a dire che tra noi ci sono troppe facce da funerale! Ciò testimonia contro di noi e il vangelo che annunziamo. Sempre a lamentarci, con una lista infinita di critiche che dimostrano non tanto lucidità di analisi, quanto piuttosto che non si riesce più a sentire il profumo bello della vita, quello dell’amore di Dio che non viene meno e quello dei doni che il Signore continuamente ci fa, primo fra tutti quello delle tante persone che ci vogliono bene nonostante noi.

La variegata composizione della nostra assemblea è l’ultimo segno di cui vorrei parlarvi. E’ un fatto. Siamo qui provenienti da tante parti del mondo. Siamo qui preti, diaconi, laici, religiosi e religiose di ogni razza e colore. Giovani e anziani. Poveri e ricchi, semplici e dotti. La celebrazione di questa sera raduna esemplarmente e rappresentativamente la santa e peccatrice chiesa di Pistoia. Siamo quello che siamo, con tutti i nostri peccati, le nostre lentezze, le nostre povertà. Ma siamo anche una realtà bella. Bella perchè amata dal Signore; perchè edificata dal Santo Spirito; bella perché attraversata da flussi sinceri di carità e di fede; bella perchè alla fine siamo capaci di ritrovarci qui attorno a questa mensa, nella Cattedrale che è il volto di pietra della chiesa locale. Insieme a condividere gli stessi doni, la stessa parola di Dio, lo stesso Pane della vita, la stessa missione. E siamo qui veramente diversi per carattere, sensibilità, estrazione sociale, razze e culture. E’ un miracolo dello Spirito questa nostra unità. Questa variegata realtà della nostra chiesa non è un limite, un handicap, quasi fosse meglio esser tutti uguali, con la medesima testa, lo stesso modo di ragionare, la stessa storia personale e di chiesa alle spalle. No. E’ bene così. Anche se ci possono essere problemi, è sempre meglio una chiesa così che una chiesa piatta e amorfa. E’ bene che essa sia multietnica e multi razziale, quindi pronta ad accogliere ogni uomo e donna che bussi alla sua porta. Certo abbiamo anche da crescere in questa capacità di comunione reciproca e di accoglienza anche del forestiero. Siamo troppo spesso tentati di chiuderci agli altri e di andare ognuno per la sua strada, magari anche facendo cose buone, ma procedendo senza sentire niente e nessuno; senza l’umiltà di condividere e accogliere il consiglio degli altri. Quanta fatica a camminare insieme! Quanta fatica a sentirci parte l’uno dell’altro, dentro l’unica chiesa di Cristo! Quanta fatica proviamo ancora a collaborare, sottoponendoci tutti al giudizio del vangelo e al magistero della chiesa di ieri e di oggi! O nell’accettare la disciplina della comunione ecclesiale nella pastorale parrocchiale, nella vita personale, nell’amministrazione dei sacramenti, nell’impostazione della catechesi o nel servizio della carità! Eppure, più fondo di ogni nostro individualismo e di ogni nostro rifiuto della comunione o anche più semplicemente della difficoltà di collaborare, c’è lo Spirito Santo di Dio su di noi, come ci ha detto il vangelo. C’è lo Spirito del Signore che soffia senza stancarsi e ci spinge verso la comunione. L’unità ci è donata prima ancora di potercela meritare, come dimostra questa bellissima Eucaristia di stasera che significa la nostra comunione in Cristo ancora prima che noi la realizziamo pienamente.

Olio versato, dunque, profumo del Crisma e variegata composizione della nostra assemblea: tre segni mirabili che stasera risplendono in questa nostra cattedrale per dare pace al nostro cuore e spronarci ad attraversare senza indugi i giorni della passione e delle tenebre, perchè già illuminati dai riflessi della luce del mattino di Pasqua.

+ Fausto Tardelli, vescovo




VI° venerdì di Quaresima 2017 anno A – San Paolo (7 aprile 2017)

VI° venerdì di Quaresima 2017 anno A
San Paolo

Come dicevamo venerdì scorso, dal testo evangelico appare del tutto evidente che il contrasto fondamentale da cui nasce la decisione di eliminare Gesù, verte sul fatto che egli, pur essendo un uomo si fa Dio. “Non ti lapidiamo per un’opera buona – dicono i giudei ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”. La stessa risposta di Gesù si rifà a tale questione.

Il Signore Gesù dunque viene messo a morte perché, pur essendo uomo, si è fatto Dio. A ben vedere, il motivo non è campato in aria. Non è falso. In effetti l’uomo Gesù si è fatto Dio, anzi, di più, si è rivelato come Figlio di Dio; Dio lui stesso. L’accusa coglie dunque nel segno. Ciò che risulta insopportabile per gli accusatori di Gesù, è la pura e semplice verità. Sta qui la motivazione del rifiuto: che un uomo possa essere Dio. Ecco lo scandalo per i giudei e la stoltezza per i pagani dice San Paolo ai Corinti. E’ proprio così: il Verbo si è fatto uomo ma è rimasto Dio. L’umanità con Lui è diventata “capace” di Dio. Dio è in quell’uomo; è quell’uomo. Non solo. Ciò per cui Cristo è stato consacrato e mandato dal Padre ha a che vedere proprio con il fatto che l’uomo sia Dio: essere presente in un uomo così che l’uomo possa ricongiungersi con Dio. Comprendiamo allora quale sia in verità la missione del Figlio, il perché dell’incarnazione, come della sua morte e risurrezione: condurre gli uomini a Dio, riappacificarli con Lui, farli diventare Dio. E’ questa la sua missione nel mondo, la redenzione dell’uomo. E’ questa l’opera del Padre che Egli compie sulla terra. Ad essa si può rispondere solo con la fede, come ci ricorda ancora il vangelo al termine, quando si annota che molti credettero in Lui.

Il Signore Gesù Cristo è venuto in mezzo a noi per far si che l’uomo diventasse Dio. Perché le porte della comunione piena con Dio finalmente si aprissero. A tal fine Egli ha predicato e compiuto i segni del Regno; ha accettato passione e croce; è risorto il terzo giorno e si è assiso alla destra del Padre; per questo è stato effuso lo Spirito Santo. Conseguentemente, si delinea con molta precisione anche la missione della chiesa nel mondo: aiutare gli uomini a diventare Dio; ad aprirsi alla grazia dello Spirito Santo che guarisce, trasforma ed eleva la nostra umanità alla vita divina nella piena comunione con Dio.

Nell’avvicinarsi ormai prossimo alla Pasqua, credo non ci faccia per niente male richiamare questa verità fondamentale che svela il senso della Missione del Verbo e della sua Chiesa. Anche il cammino compiuto attraverso le stazioni quaresimali, cammino che avevamo aperto – vi ricordate – con l’invito del Signore a superare la giustizia degli scribi e dei farisei e che è poi proseguito facendoci comprendere che questa giustizia “superiore” è quella dell’amore pieno, di cui Gesù ci ha dato l’esempio, ebbene anche questo cammino mira dritto a farci vivere di Dio e in Dio, perchè l’amore è la vita il Dio: Dio è amore, ci dice l’apostolo San Giovanni e chi abita nell’amore, abita in Dio. E la nostra conversione punta esattamente qui.

Ecco dunque che abbiamo da renderci conto che il nostro destino, la nostra chiamata, il nostro compito e la nostra missione è di diventare Dio, essere assorbiti in Lui, trasfigurati nel suo amore, per cui si possa dire con San Paolo, non son più io che vivo ma è Cristo che vive in me. Ed è questa l’opera dello Spirito Santo: renderci conformi al Figlio unigenito in modo da poter partecipare al suo amore per il Padre e all’amore del Padre per il Figlio.
Queste cose è bene ribadirle proprio quando si da a volte della missione di Cristo e, conseguentemente di quella della chiesa, una visione ristretta e molto umana, troppo umana. Quasi che il Signore Gesù fosse venuto in mezzo a noi semplicemente per risolvere i nostri problemi umani, di salute, di qualità della vita, di benessere, di vita terrena insomma. La concreta vita dell’uomo entra certamente nel progetto dell’amore di Dio, perchè è l’uomo nella sua interezza di corpo e anima ad essere chiamato a diventare Dio, ma l’obiettivo di Cristo resta questo: che diventiamo per mezzo suo Dio, vivendo in Lui e con Lui; inabissandoci nelle profondità del suo amore, in modo che la nostra esistenza umana trabocchi di amore divino.

Certe volte si afferma con davvero poca attenzione che l’obiettivo di Cristo è il Regno di Dio intendendolo però come staccato da Cristo stesso, quasi fosse qualcosa di diverso da Lui e dal mistero dell’unione ipostatica della natura umana e divina in un’unica persona. Aggiungendo poi con discutibile recezione della parola di Dio, che questo Regno di Dio è qualcosa che si concretizza principalmente in una giustizia e pace intramondana, attraverso l’istituzione di sistemi politici pienamente democratici e la realizzazione di sistemi economici equi. Ancora una volta si deve dire che tutto questo rientra certamente nel progetto di trasfigurazione divina dell’uomo e della sua umanità, ma occorre sempre ricordare le parole di Gesù di fronte a Pilato: il mio regno non è di questo mondo. Nel senso che il Regno di Dio è Cristo stesso, presente mediante lo Spirito nei nostri cuori, per cui siamo “figli nel figlio”, partecipi della natura divina attraverso di Lui che è il mediatore unico di salvezza, l’accesso pieno alla divinità. Il Regno di Dio che Cristo inaugura e a cui è già fin d’ora possibile l’accesso mediante la fede, consiste nella liberazione e purificazione dal peccato e nella partecipazione alla comunione col Padre, mediante il Figlio, nello Spirito Santo. Ciò che esattamente realizzano i sacramenti della fede.

Il Figlio di Dio incarnato ci fa conoscere il Padre, ci manifesta il suo amore senza limiti, ci conduce a un rapporto filiale fatto di obbedienza e riconoscenza; ci fa entrare dentro il suo stesso rapporto col Padre attraverso il dono dello Spirito. Ci fa conoscere la fiducia che Egli nutre nei confronti del Padre e l’abbandono fiducioso di cui Egli vive, ben espresso nelle parole riportate dal profeta Geremia nella prima lettura di stasera: “il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;…. a te ho affidato la mia causa!”.. Perché diventiamo Dio, liberi dalle pastoie dei peccati e dai lacci della morte, Egli subisce ingiurie e calunnie, torture e crocifissione ma nella risurrezione Egli ci mostra come la nostra stessa carne, la nostra stessa umanità possa essere trasfigurata, essere resa gloriosa e pienamente partecipe, come già è accaduto a Maria Santissima, della gloria di Dio, della vita divina.

A questo siamo chiamati, fratelli e sorelle carissimi; questa è la nostra santificazione; la meta piena alla nostra vocazione; questo il senso della nostra vita sulla terra. E come Chiesa del Signore, siamo invitati a lavorare e affaticarci perchè ogni uomo conosca di essere invitato al banchetto di Dio e vi entri, abbandonando l’abito vecchio del peccato e lasciando che la propria umanità sia assunta in Dio e viva di Dio.

Missione quanto mai ardua e difficile in un mondo che sembra non conoscere altro che il rumore delle armi, che sembra essere sul baratro di una guerra mondiale che il Santo Padre giustamente ha più volte detto essere già presente a pezzi. In un mondo di rabbia e violenza, di terrorismo, sopraffazioni e ingiustizie, di corruzione e varie idolatrie, annunciare e testimoniare la necessità per l’uomo, per ogni uomo, di lasciarsi conquistare dal Dio dell’amore e della verità, di riconoscere il proprio peccato per farsi riempire dalla misericordia del Padre, abbandonando le vie della menzogna per vivere in Dio come figli suoi; annunciare e testimoniare tutto, questo sembra davvero qualcosa fuori dal mondo, sembra di essere degli ingenui sognatori di un mondo assolutamente impossibile. Ma è la strada percorsa da Gesù Cristo prima di noi e che ancora Egli continua a percorrere con noi per le strade polverose e insanguinate del mondo.

+ Fausto Tardelli, vescovo




V° venerdì di Quaresima 2017 anno A – San Giovanni Fuorcivitas (31 marzo 2017)

V° venerdì di Quaresima 2017 anno A
San Giovanni Fuorcivitas

 

Ancora una volta la parola di Dio ci mette di fronte al dramma del rifiuto di Cristo da parte dei suoi. Questo dramma l’avevamo già avuto davanti agli occhi quando qualche settimana fa ci è stata raccontata la vicenda di Giuseppe venduto dai fratelli e la parabola dei contadini assassini. Indubbiamente, il mistero della Pasqua che è evento di vita e di gioia, non lo è però a buon mercato. E’ piuttosto il frutto del sacrificio di Cristo, pagato duramente dal Signore attraverso il rifiuto e il tradimento.

Come ci vien detto nel vangelo di oggi, i Giudei cercavano di uccidere Gesù; aspettavano soltanto l’occasione propizia, ma la decisione l’avevano già presa. Costui sappiamo di dove è – dicono alcuni abitanti di Gerusalemme – mentre il vero Cristo nessuno sa di dov’è. Dunque Gesù, agli occhi di molti è un impostore, un ingannatore del popolo che per giunta ritiene di avere la verità in tasca, di essere addirittura la verità e di venire direttamente da Dio.

La lettura dal libro della Sapienza è straordinaria nell’individuare e descrivere i pensieri di coloro che vogliono catturare e uccidere Gesù. Se la prendono con lui perchè proclama di possedere “la conoscenza di Dio e chiama se stesso figlio di Dio”. Si vanta di avere Dio come Padre e condanna i loro pensieri, le loro colpe; la sua vita non è uguale a quella degli altri.

Come si può ben vedere, ciò che è in discussione è la pretesa di assolutezza e di verità che il Signore Gesù avanza; il suo farsi Dio, con l’autorevolezza di Dio; addirittura figlio di Dio. Egli ha parole di vita eterna. Chi segue lui raggiunge la pienezza della vita. A chi lo accoglie, egli apre i tesori dell’infinito amore di Dio e della sua infinita misericordia. In Lui e in Lui solo c’è salvezza perchè Lui è l’acqua viva che disseta per la vita eterna; è la luce che illumina le tenebre del mondo; è la via, la verità e la vita. Senza se e senza ma. Egli non si presenta ai suoi e agli uomini in forma dubitativa bensì assertiva. Egli pone se stesso come la perfetta rivelazione del Padre e chiede agli uomini di seguirlo caricandosi sulle spalle la propria croce, vendendo tutto e dandolo ai poveri, perchè egli è il tesoro assoluto nascosto nel campo per acquistare il quale conviene dar via tutto; egli è la perla preziosa, la più preziosa dell’universo, che merita tutte le ricchezze del mondo. Egli solo – inaudito – è colui che ha vinto la morte e da agli uomini la possibilità di vincere la morte.

E’ indubbiamente questo presentarsi assoluto di Gesù che suscita irritazione e violenza, reazione scomposta fino alla decisione di toglierlo di mezzo. Anche il suo insegnamento sull’amore verso il prossimo, la concreta pratica di guarigione e vicinanza alla sofferenza e al peccato degli uomini, con la spesso conseguente polemica sul sabato, non avrebbe creato in definitiva una grande reazione se fosse stata letta semplicemente come segno di bontà nei confronti degli altri. Quante volte i profeti avevano richiamato alla giustizia e all’amore verso l’orfano, la vedova, il povero! Ciò che invece creò scandalo e suscitò una violenta reazione fu piuttosto l’autorevolezza con cui Gesù pretendeva di interpretare autenticamente la legge indicandone il centro e il senso nell’amore, rivendicando a sé il ruolo di legislatore; fu piuttosto perché affermava di essere l’unico a manifestare e a esprimere in pienezza la volontà del Padre, volontà di salvezza e di perdono, compiendo lui stesso ciò che solo Dio poteva compiere: la remissione dei peccati, la salvezza dell’uomo. Così facendo Egli contestava radicalmente tutti i poteri mondani, sia civili che religiosi che prendono il posto di Dio al fine di dominare sugli uomini e nello stesso tempo contestava radicalmente anche il potere peccaminoso che ognuno di noi si arroga: quello di essere Dio e di ergersi a misura di tutte le cose. E’ sicuramente per questa apoditticità dell’insegnamento di Cristo, per l’assolutezza con cui rivendicava la sua origine divina, per l’autorità con cui si presentava quale re seppur non al modo del mondo e si proponeva come unica via di salvezza, che Egli ha subito ostilità, giudizio, passione e morte. Se si fosse presentato con forse, può darsi, vedete voi, la mia è solo una proposta fra tante e così via, il Signore Gesù sarebbe ancora vivo – lo dico come battuta – nel senso che nessuno l’avrebbe certamente ammazzato.

Allora come oggi, forse oggi più che mai, Gesù con le sue “pretese” risulta abbastanza indigesto. Ciascuno di noi è abbarbicato al proprio io. Ognuno di noi si sente Dio, arbitro del bene e del male. Ognuno di noi ha i suoi “ma” e suoi “però” di fronte alla radicalità che ci propone il Signore. Quante volte noi accogliamo a parole o col sentimento il Signore nella nostra vita, ma ponendolo accanto a tante altre cose che di fatto sono ben più importanti per noi e fintantoché non ci disturba molto. C’è Lui, ma poi ci sono le nostre cose, i nostri affari, le nostre preoccupazioni, la nostra vita da salvare e da custodire. Se proprio non lo espungiamo dalla nostra esistenza, però tante volte lo marginalizziamo e con il Signore marginalizziamo ogni nostro fratello che finisce sempre per scomodarci, chiedendoci attenzione e rispetto, quale volto concreto di Cristo. Spesso la nostra scelta è di voltarci da un’altra parte, lontano dagli occhi di Cristo e da quelli dei poveri.

Ma questo Signore Gesù che pretende di essere la via, la verità e la vita, che pretende di essere la risurrezione e la vera libertà, scomoda enormemente anche questa nostra società contemporanea che ha fatto della negazione della possibilità stessa della verità il suo assunto fondamentale. Laddove si vive nel relativismo radicale conclamato ed esaltato; dove il buio e il nulla sono accettati senza sentirne la drammaticità e l’angoscia, anzi, affogando questa angoscia in un mare di droghe. Dove la libertà è intesa come soddisfazione di ogni desiderio soggettivo; dove la tolleranza è concepita come indifferenza di fronte al male o alla questione della verità; dove anzi ogni affermazione di verità è bollata come intolleranza e sopraffazione, dogmatismo che attenta alla libertà dell’uomo, inceppo allo sviluppo e alla felicità umana; ecco, in una società così, il Signore Gesù sarebbe ancora irrimediabilmente messo in croce, quale fanatico e presuntuoso, dogmatico, intollerante e oltretutto impostore. Forse se ne apprezzerebbe il suo altruismo, i suoi gesti di attenzione nei confronti degli emarginati e degli esclusi ma non certo nei confronti dei peccatori, perché noi uomini di oggi non facciamo peccati. Non siamo peccatori, non ci sentiamo tali e non riteniamo di doverci pentire proprio di niente. Per cui chiunque si presentasse a offrirci riscatto dai nostri peccati, lo prenderemmo subito come un odioso giudicatore degli altri, uno che fa discriminazioni e che alla fine offende perché con la sua stessa mano tesa, ricorda inevitabilmente i nostri comportamenti sbagliati “e si oppone alle nostre azioni”, come ci diceva il libro della Sapienza.

E’ così dunque. Come allora anche oggi. Ma è in questo contesto che si compie la redenzione dell’uomo. C’è poco da farci, allora come oggi. La redenzione passa attraverso la croce di Cristo e si compie perché il Signore Gesù continua ad andare dritto per la sua strada senza fermarsi davanti agli ostacoli. Egli va avanti perchè ci vuole bene nonostante noi. E la sua strada porta alla Pasqua di morte e di risurrezione. Non si stanca di amarci e proprio per questo, continua a dirci la verità sia pure a noi più o meno gradita, perché la prima e fondamentale carità è la verità nella carità. Egli continua a morire sulla croce a causa nostra e per noi ma continua anche a risorgere perché sa che prima o poi non potremo fare a meno di rivolgerci a Colui che abbiamo trafitto per trovare in Lui la nostra salvezza.

+ Fausto Tardelli




Solennità di San Giuseppe – Cecina, Livorno (20 marzo 2017)

Solennità di San Giuseppe
Cecina, Livorno (20 marzo 2017)

Un uomo silenzioso, Giuseppe. Nei vangeli non ci vengono mai riferite sue parole. Sembra non ne usasse molte. Di poche parole, egli è però concreto, attento ascoltatore di Dio, facitore della sua Parola. Nemmeno ci vien raccontato molto di lui nei vangeli.

Quello che però ci vien detto è estremamente significativo. I vangeli ci parlano della sua fede quando dovette affrontare la sorpresa di Maria, sua promessa sposa incinta. Lo troviamo acconto a Maria nel viaggio a Betlemme e al momento della nascita del bambino. I vangeli ci narrano ancora che per volere di Dio, Giuseppe condusse in Egitto con la sua sposa Gesù per proteggerlo dalla furia di Erode. Lo vediamo portare il bambino al tempio per la circoncisione. Poi ci vien detto che il bambino Gesù cresceva con lui e Maria a Nazaret, dove faceva il falegname. Quando Gesù ebbe 12 anni e si perse a Gerusalemme, con Maria lo cercò con grande dolore e lo ritrovò nel tempio tra i dottori. Poi più niente. Giuseppe sembra sparire del tutto dalla scena dei vangeli. Di lui non si parlerà più. Non sappiamo che cosa ne sia stato di lui, quando sia morto, per quale ragione, se abbia lasciato detto qualcosa a Maria e a Gesù.
Per questo sembrerebbe quasi una figura secondaria nel vangelo. Ma non è affatto così. Giuseppe è un grande, grandissimo uomo e uno straordinario santo.

Giustamente la Chiesa ha introdotto in ogni Messa, nella preghiera eucaristica, il ricordo di lui. Perché egli è un veramente un gigante della fede, della speranza e della carità. Il padre di cui tutti i figli avrebbero bisogno, lo sposo che ogni donna potrebbe augurarsi, il custode amoroso di ogni buona causa, il maestro da cui ogni discepolo del Signore dovrebbe imparare.

Vogliamo una chiara dimostrazione del valore di quest’uomo? Non occorrono molte parole. Giuseppe fu amato da Maria SS. che accettò di diventare sua sposa! Forse tante volte non ci pensiamo a questo fatto. Non ci facciamo debito caso. Pensiamo a Maria SS. e ne contempliamo la bellezza, la santità. La onoriamo come regina del cielo, Madre Immacolata di Gesù; assunta in cielo nella gloria; specchio di ogni virtù, la più alta, la più sublime, la più santa di tutte le creature. Non pensiamo però che la Madonna si è innamorata di Giuseppe; lo ha amato di un amore tenerissimo; ne è diventata la sposa; si è unita in matrimonio con Lui! Poteva forse Maria innamorarsi di un uomo senza valore? Avrebbe potuto la “piena di grazia” accettare di diventare la sposa di un uomo senza virtù? Se l’amore è fatto di stima, di apprezzamento, di trasporto, di fascino, ciò vuol dire che Maria SS.ma ha trovato in Giuseppe tutto questo ma soprattutto ha trovato in lui ciò che più conta in una persona e cioè la disponibilità a compiere la volontà del Signore; la fede e l’obbedienza al disegno d’amore di Dio sulla propria vita; la capacità di rinunciare al proprio io per mettersi al servizio dell’altro. Ecco dunque la dimostrazione più chiara della grandezza umana e di fede di San Giuseppe: essere stato scelto da Maria quale suo compagno di vita.

Allora, carissimi fratelli, amiamo anche noi quest’uomo e mostriamogli anche tutta la nostra riconoscenza. Si. Credo che gli dobbiamo anche tanta, tanta riconoscenza. Perché ha custodito con infinito amore, con grandissima premura, Maria e Gesù. Che avrebbe fatto Maria da sola? Come avrebbe potuto affrontare il disagio della nascita di Gesù, della fuga in Egitto, della vita di Nazaret. E cosa avrebbe potuto fare lo stesso Dio incarnato Gesù, piccolino e indifeso, bisognoso di tutto, se non avesse trovato un babbo che lo custodisse, lo crescesse nella fede di Israele, gli insegnasse un mestiere, lo istruisse sulle cose della vita.

Sì, dobbiamo essere grati infinitamente a Giuseppe perché ha custodito con tanta premura Maria e Gesù. E lo ha fatto anche per noi, perché noi tutti potessimo godere della presenza di Maria e in particolare del figlio unigenito del Padre Gesù.

Carissimi amici, davvero ringraziamo San Giuseppe ma cerchiamo anche di imparare da lui. Soprattutto due cose, direi: a obbedire con fede alla volontà di Dio e a operare il bene in concreto e nel silenzio. Sono le caratteristiche più belle di Giuseppe: un uomo di fede, che si fida di Dio, innanzitutto. Che non capisce a volte come stanno le cose, che a volte si tormenta perché non comprende. Non tutto gli è chiaro. Non tutto va come forse aveva pensato. Anche il suo matrimonio con Maria, il rapporto con questa giovane donna, forse nella sua testa non se l’era immaginato come poi si è realizzato. Eppure si fida di Dio. Si abbandona alla sua volontà. Con la stessa fede di Abramo va dove Dio gli indica e fa ciò che Dio gli chiede. Non recrimina. Non si lamenta. Accetta nella fede con gioia il suo compito e cammina nell’adempimento della sua missione. E poi, in secondo luogo, eccolo operare il bene in concreto e nel silenzio. Opera, agisce. Non chiacchiera. Mette in pratica, lavora, realizza. Sistema le cose, provvede alle necessità della famiglia di Nazaret. Custodisce con cura chi gli è stato affidato. E soprattutto, il bene lo fa nel silenzio. Non per essere ammirato. Non per destare ammirazione negli uomini. Lo fa e basta. Perché è bene. Perché è ciò che il Signore gli chiede. Non suona la grancasse e, terminato il suo compito, se ne va in punta di piedi. Lasciò questa terra sommessamente appena adempiuto il suo compito, accompagnato nella morte da una grande consolazione: la compagnia di Maria SS. e di Gesù, morendo tra le loro braccia.

Permettetemi ora che termini questa mia breve riflessione ricordando un uomo che di San Giuseppe ha portato sicuramente i tratti e che in qualche modo ne ha ripreso le sembianze: il Vescovo Mansueto, vostro indimenticato pastore per alcuni anni. Non ebbe una sua propria famiglia ma fu sposo premuroso e custode sapiente e fedele della chiesa volterrana che amò di un amore tenerissimo e appassionato; come amò e custodì nella prova, anche la chiesa pistoiese e infine la famiglia dell’Azione Cattolica.

Generato e cresciuto nella chiesa madre di Lucca dove respirò a pieni polmoni la fede di un popolo davvero credente, ha però ha affinato doti, capacità e senso ecclesiale innanzitutto nella chiesa volterrana, di cui divenne vescovo durante l’anno giubilare del 2000. Volterra rimarrà sempre nel suo cuore – e lo posso testimoniare personalmente –il suo primo dolcissimo amore: la chiesa dove imparò a essere padre e comprese per la prima volta che cosa significhi “custodire” la sposa di Cristo, la chiesa, attraverso l’esercizio del ministero episcopale. Volterra che era a lui carissima anche perché lì ha vissuto i suoi ultimi anni terreni la mamma Bruna.

Il vescovo Mansueto, pur dotato di una vivace intelligenza, del dono dello scrivere e del parlare, di un’ottima preparazione culturale e di un grande gusto per il bello, con la possibilità perciò di innalzarsi sopra la massa, ha voluto restare sempre un figlio del popolo, schivo e semplice, fino al termine della sua esistenza. La sua fede è stata sempre popolare e si è trovato perfettamente a suo agio con le espressioni della pietà della gente semplice. Persona estremamente sensibile, ha conosciuto il tormento dell’intelligenza, le domande che inquietano e il senso della caducità di tutte le cose, acutamente consapevole della nostra condizione di viandanti e pellegrini, del grigiore che avvolge normalmente la vita. Ma sapeva trasformare tutto questo in gioia piena di umanità, in bonaria e acuta ironia, nell’allegria dell’amicizia ricercata e coltivata. E chi lo incontrava percepiva lo spessore profondo della sua fede autentica, non sbandierata, sofferta e serena a un tempo e dava pace e sostegno.
Egli ha amato profondamente la Chiesa – lo voglio sottolineare – Una Chiesa che ha sognato bella e senza rughe ma che ha accettato pur nelle sue debolezze, miserie e contraddizioni. Ha continuato ad amarla senza riserve tutta la vita, questa Chiesa, così com’era e come gli si presentava di volta in volta; ha continuato ad amarla e ha insegnato ad amarla com’è non come la si vorrebbe, perché sempre comunque sposa di Cristo.

La malattia e la morte lo hanno trovato pronto, anche se i giorni del male che lo ha ghermito sono stati per lui una dura scuola che ha perfezionato la sua preparazione al dono della vita nel momento della morte. Posso testimoniare personalmente che ha affrontato nella luce della fede, i primi sintomi, poi la diagnosi terribile della malattia, poi l’operazione, la degenza in ospedale, l’affievolirsi delle forze, lo spegnersi di ogni speranza umana e infine la morte. Sempre ben consapevole della sua situazione, ha confidato nel Signore e il Signore lo ha sostenuto. E’ stato duramente provato, tra alti e bassi, piccole riprese e ricadute. Sempre sereno e con una grande pace nel cuore, affidato completamente a Gesù, pieno di amore per Lui e per le persone che sono passate attraverso la sua esistenza e che ha portato sempre con sé. Posso attestare di persona la sua fede rocciosa, la sua delicatezza d’animo, l’abbandono fiducioso e gioioso nelle mani del Signore. Credo e concludo che il vescovo Mansueto non solo sia stato ma sia ancora oggi per tutti noi, davvero un grande amico, un maestro e un testimone della gioia vera, quella del Vangelo.

+ Fausto Tardelli, vescovo




IV° venerdì di Quaresima 2017 anno A – Cattedrale (24 marzo 2017)

IV° venerdì di Quaresima 2017 anno A
Cattedrale

“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza e amerai il prossimo come te stesso”

Dopo che il Signore nel venerdì della prima stazione quaresimale ci aveva invitato a una giustizia superiore a quella dei farisei e degli scribi e dopo che nella scorsa stazione quaresimale in Sant’Andrea ci ha dato l’esempio di cosa intendesse con l’invito a superare la giustizia nell’amore anche verso i nemici, questa sera ce lo dice chiaramente anche a parole che cosa ci chiede: amare Dio con tutto il cuore e amare il prossimo come noi stessi. Non c’è comandamento più grande di questo.

L’insegnamento di Gesù viene a seguito dell’interrogazione da parte di uno scriba. Gesù risponde in modo singolare. Riporta in effetti qualcosa che è già presente nell’antica alleanza. Lo riconosce anche lo scriba. Non solo. Gesù inizia riportando quello che era in effetti il ben conosciuto comandamento fondamentale in Israele: quello shemà israel – ascolta Israele – col richiamo al Dio unico, che era ed è il ritornello giornaliero di ogni israelita. Gesù però mette insieme quasi a identificarli, il comandamento dell’amore verso Dio e quello verso il prossimo. E qui troviamo in fondo l’originalità dell’insegnamento di Gesù, che come saggio scriba sa tirar furi dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, trasmettendoci la sapienza di Dio.

Messi insieme dal Signore Gesù, noi non possiamo perciò separare i due amori che sono un solo comandamento. Sembrerebbe ovvio ma purtroppo non è così e quindi dobbiamo convertirci, tutti, alla sapienza di Dio.

Troppe volte – forse poteva esser più vero nel passato che oggi – comunque troppe volte amare Dio ha voluto dire estraniarsi dalla storia, dimenticare i fratelli nel bisogno, non sporcarsi le mani nel soccorrere l’oppresso e lo scartato della società. Come è accaduto all’antico popolo di Israele, anche noi, nuovo popolo di Dio abbiamo a volte ridotto il culto a pratica religiosa alienante; abbiamo pensato di poter dare gloria a Dio senza la conversione del cuore che si apre al fratello. Pur trattando le cose sante che sono la verità dell’amore di Cristo per la salvezza degli uomini, le abbiamo però ridotte a “cose sacre”, vuoto ritualismo, sceneggiata senza anima, lode che diventa bestemmia del nome santo di Dio. Preghiera cioè che non ci cambia il cuore e la mente, che appaga soltanto i nostri sentimenti o la nostra sete di rassicurazione. Di Dio, tante volte abbiamo fatto un idolo a nostra misura, configurato sulle nostre sembianze. Sulla base dei presunti diritti di Dio, abbiamo finito per sacrificare le persone, schiacciandole sotto il peso di un Dio autoritario e vendicativo. Ci siamo mostrati pii e devoti, ma con le orecchie e gli occhi chiusi per non assumere le nostre responsabilità nella storia; per non vedere il volto concreto di Dio che si manifesta nei poveri e nei derelitti, come in ogni nostro fratello e sorella, qualsiasi sia la sua lingua, cultura o razza. Così è accaduto che le nostre chiese diventassero a volte come lo spazio del tempio antico che il Signore Gesù ha invece distrutto per identificarlo con se stesso, la sua carne, il suo cuore pieno d’amore. Da luogo dove sperimentare l’amore del Signore nella memoria del suo sacrificio che redime l’umanità, perchè tutta sia lode al Padre, abbiamo trasformate le nostre chiese in luoghi che esauriscono l’esperienza cristiana, appagano il nostro gusto estetico, detengono l’esclusività di un culto a Dio ridotto a cerimonia.

Ecco dunque: di fronte a tutto questo sta la parola del Signore che ci ricorda come il comandamento unico comprenda in se stesso anche l’amore del prossimo; la piena dedizione al fratello fino al dono stesso della vita, a partire da un ascolto attento e premuroso che è l’anima e la sostanza dell’autentico amore del prossimo; l’impegno per la trasformazione del mondo nel segno della giustizia e della pace.

Prendendo però con serietà l’insegnamento di Gesù, dobbiamo altresì parlare dell’altra, grossa tentazione che – forse oggi più di ieri – si fa costume e abitudine mentale. Quella cioè di dimenticarsi dell’amore verso Dio e di pensare che si possa amare il prossimo senza amare Dio, scordandosi di Lui o trascurandolo o addirittura negandolo. E allora dobbiamo riconoscere con lucidità che tante volte abbiamo ridotto il cristianesimo a messaggio puramente sociale, per niente diverso dalle tante prospettive sociali e politiche presenti nel mondo. E’ accaduto e accade purtroppo tante volte che si ritenga inutile la preghiera, il rapporto vivo col Signore, l’esperienza del suo amore attraverso i sacramenti. Che importa andare a Messa, si sente dire spesso: basta aiutare il prossimo! Ma non è così: se tu non vai a Messa, cioè se tu non partecipi – naturalmente con fede e convinzione – al Mistero dell’amore di Cristo; se tu non ti lasci trasformare dalla Grazia; se tu non fai quotidiano riferimento a Dio, tu non puoi amare veramente il tuo prossimo. Non solo non ce la farai mai ma quando penserai di aver aiutato il tuo prossimo, lo avrai reso in realtà più schiavo di prima, dipendente da te e avrai soffocato in lui la speranza.

Oggi si fanno tante cose per gli altri. E’ vero, pur se a volte si raccontano più che farle o si ingigantiscono magari anche solo per apparire. Le nostre stesse società avanzate promuovono leggi e comportamenti che vorrebbero realizzare un mondo più giusto e fraterno. Spesso però ci si dimentica di Dio. Anzi, lo si esclude deliberatamente dalla vita personale, dalle famiglie, dalle istituzioni educative, dalla società in genere. Così facendo si viene però a togliere fondamento alla stessa inalienabile dignità di ogni essere umano e si produce una radicale impossibilità di amarci e di amare veramente il prossimo.

Il Signore Gesù è stato molto chiaro, ricordiamocelo: “Il primo comandamento è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. La memoria dei missionari martiri morti nel 2016 che facciamo questa sera è ricordo di chi, sulle orme di Gesù, ha dato fino al dono della vita l’esempio proprio di questo unico, inscindibile amore verso Dio e verso il prossimo.

Accogliendo le parole di Gesù e la testimonianza dei missionari martiri, sentiamo allora stasera tutta la nostra debolezza. Ci accorgiamo di quanto siamo ancora distanti dall’amore che dovremmo vivere con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutto noi stessi.
Ecco perchè, consapevoli della nostra misera realtà, non celebriamo ora l’Eucaristia ma compiamo un gesto penitenziale. Insieme vogliamo supplicare il Signore con le parole che ci ha suggerito il profeta Osea nella prima lettura: “Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene; non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra.” Unitamente alla supplica accorata, vogliamo anche esprimere tutta la nostra fiducia nel Signore che, come abbiamo ascoltato sempre in Osea, così manifesta le sue intenzioni nei confronti del suo popolo peccatore: “Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano.”

Si, il Signore Dio può fare questo di noi, e noi, nonostante le nostre innumerevoli inadempienze, gli chiediamo che ci converta, che ci cambi il cuore e ci liberi dalle nostre cattive abitudini, dando forza alla nostra volontà di bene. Noi ci affidiamo completamente a Lui che, solo, ha parole di vita eterna, e chiediamo anche la preziosa intercessione dei missionari martiri che hanno dato la vita per il vangelo.

+ Fausto Tardelli, vescovo




III° venerdì di Quaresima 2017 – Sant’Andrea (17 marzo 2017)

III° venerdì di Quaresima 2017 anno A
Pieve di Sant’Andrea

Eccolo lì il nostro Signore Gesù Cristo. L’abbiamo sentito nelle letture: venduto dai suoi fratelli come Giuseppe; ucciso come l’erede della parabola evangelica! Scartato, però causa della nostra salvezza. “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”. Si. La pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra d’angolo. Eccolo dunque qui il nostro Dio e Signore. Eccola qui la “misura alta” dell’amore che supera la giustizia degli scribi e dei farisei di cui parlavo l’altro venerdì. Davanti ai nostri occhi è ben spiegata, evidente. A questo vertice siamo chiamati, ognuno di noi. E’ la meta della conversione pasquale. Questo vuol dire avere il cuore di Dio.

Le Scritture di oggi ci parlano della storia di Giuseppe. I fratelli lo vendono. E’ insopportabile ai loro occhi. E’ inaccettabile l’amore che l’anziano padre nutre per lui. E’ inaccettabile che questo Giuseppe sia un sognatore. “Arriva quello dei sogni”, dicono sprezzanti i suoi fratelli. Forse son sogni di un mondo diverso, fatto di giustizie e di amore. Ma i suoi fratelli invece hanno i piedi per terra e non hanno pietà. Come non ne hanno i contadini della parabola evangelica ai quali il padrone della vigna l’aveva data in affitto, dopo averla curata amorevolmente. Non hanno rispetto dei servi che ripetutamente il padrone della vigna invia. Non hanno rispetto nemmeno del suo figlio.
Che Gesù parli di se stesso in questa parabola è evidente. Come del resto Giuseppe è chiaramente immagine di Cristo. Cristo venduto e ucciso ma che vince col suo amore. Giuseppe continuerà infatti a voler bene ai suoi fratelli e verrà loro incontro perdonando la loro colpa quando si presenteranno a lui per cercare grano a motivo della carestia. Così il Figlio di Dio, pur scartato dagli uomini, continuerà a voler loro bene fino a diventare la pietra sulla quale fondare la loro vita, sulla quale rifondare l’edificio dell’immagine di Dio che è l’uomo. Edificio sgretolato a causa del peccato.

Ma perché i fratelli vogliono uccidere Giuseppe e poi lo vendono? Perché i contadini della parabola fanno lo stesso con l’erede e perché Gesù Cristo è disprezzato, umiliato e ucciso? Ma non solo dagli “altri”; anche da noi, laici, religiosi, preti, vescovi e Papi. Perché? C’è una qualche risposta a questo interrogativo?

Le letture ci dicono qualcosa. Nella prima, i motivi sembrano essere l’invidia per l’amore speciale del padre verso Giuseppe e, come dicevo, il forte disagio per il carattere “sognatore” di Giuseppe. Nella parabola evangelica sembra che anche qui i motivi siano due: il voler trattenere per sé ciò che i contadini avrebbero dovuto dare al padrone della vigna e il desiderio addirittura di impossessarsi dell’eredità del figlio.

In ambedue i casi, la violenza nei confronti dell’innocente sembra dunque nascere dalla sensazione di non avere quello che si vorrebbe oppure dal desiderio di avere quello che si ritiene importante per sé. L’accenno all’insopportabilità del sognatore sta direi a indicare la rabbia nei confronti di chi è causa di una privazione – i fratelli si sentono in qualche modo depauperati da Giuseppe – e neanche se ne accorge. Sogna appunto, come se irridesse chi sta soffrendo rodendosi l’animo. E qui sta il punto. Possiamo infatti senz’altro dire che sia i fratelli di Giuseppe che i contadini della parabola, come del resto i capi dei sacerdoti e dei farisei del vangelo sono persone che soffrono. E’ innegabile. Patiscono, rosi dalla invidia, dalla paura, dalla brama di avere. E’ però una sofferenza maligna, che Dio non può togliere. Non può essere lenita con la consolazione della sua misericordia. Non può essere eliminata dal Signore. E’ una sofferenza inevitabile, assolutamente inevitabile, perché ne è Lui la causa. Nel senso cioè che Egli, con la sua sola presenza, brucia come alcool su una ferita, svelando la vera causa di quella maligna sofferenza: essa sta dentro di loro, nel loro modo di pensare e di sentire, nelle loro patologie, nel loro cuore indurito. Ma anche nel nostro cuore indurito.

Possiamo allora concludere che si, il Signore Gesù è il salvatore dell’uomo; è l’amico degli uomini. Colui che da pienezza di vita all’uomo. In lui è il perdono e la misericordia del Padre. Ma tutto questo non lenisce il disagio, la sofferenza di chi lo vende e lo uccide. Anzi, l’acuisce. La rabbia sale ancora di più, come cresce il desiderio di eliminarlo.

Il Signore Gesù non può farci niente. E’ impotente di fronte a questo tormento, a questo soffrire. O meglio, fa una sola cosa ma che è davvero straordinaria: continua a voler bene. Così accade nella storia, allora come oggi. Il Signore Gesù ama profondamente gli uomini, ma a qualcuno e a noi stessi tante volte sembrerà sempre che Egli sia nemico dell’uomo, che egli ci rubi qualcosa, si frapponga alla nostra libertà, ai nostri desideri. Cristo vuol bene a ognuno, ma a qualcuno e a noi pure, apparirà sempre come un sognatore che non risolve la concreta sofferenza degli esseri umani.

Il Signore è venuto a donarci la vita piena, ma a qualcuno, come a noi certe volte, sembrerà che questa, lui se la voglia tenere per sé e che non riusciamo a entrarne in possesso se non rubandola o conquistandocela con le nostre stesse mani. Il Signore Gesù sarà sempre segno di contraddizione. E sempre ci sarà qualcuno, anche noi in tanti casi, che questo segno di contraddizione vorrà eliminarlo, toglierlo di mezzo, dimenticarsene. Ma nonostante tutto, Egli non smetterà di amarci, di dire quello che dice, di proporre quello che propone, di richiedere quello che richiede, di sognare un mondo senza peccato. E continuerà anche se sa di generare spesso nel cuore dell’uomo rabbia, risentimento, il tormento dell’invidia, della gelosia, della paura, la violenza che nasce dal desiderio smisurato di avere ed essere dio. Egli sempre continuerà a voler bene a ogni uomo, sempre. Continuerà sempre su questa strada e insegnerà ai suoi discepoli a fare altrettanto. senza spaventarsi se essi stessi susciteranno risentimento, rabbia, invidia e in molti la voglia e la decisione di toglierli di mezzo.

Carissimi fratelli e sorelle, in questo III venerdì di quaresima, siamo dunque invitati a guardare a Colui che è stato venduto e ucciso per noi e all’amore con cui egli risponde a chi lo rifiuta. Siamo invitati a contemplare la pietra che i costruttori hanno scartato e che è diventata la pietra d’angolo. Siamo chiamati a domandarci poi se, magari non a parole ma coi fatti, non abbiamo anche noi contribuito e non contribuiamo a venderlo e ucciderlo ogni giorno.

Dal Signore Gesù apprendiamo poi quale sia l’atteggiamento che dobbiamo maturare qualsiasi siano le contrarietà che incontriamo in mezzo agli uomini: quello dell’amore che non tien conto del rifiuto; quello del perdono che sempre rinnova la sua fiducia nei confronti dell’altro. Apprendiamo infine il necessario coraggio per essere nel mondo non timorosi e vergognosi araldi del vangelo, bensì fermi e saldi testimoni della verità di Dio e dell’uomo, con la consapevolezza chiara di dover andare spesso contro corrente, in compagnia di Gesù.

+ Fausto Tardelli, vescovo




II° venerdì di Quaresima 2017 – San Bartolomeo in pantano (10 marzo 2017)

II° venerdì di Quaresima 2017 anno A

San Bartolomeo in pantano

 

“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”.

All’inizio del cammino delle stazioni quaresimali ci vogliamo soffermare proprio su questa affermazione di Gesù contenuta nel vangelo che abbiamo appena ascoltato.

Di che giustizia si parla? Di quella degli scribi e dei farisei. Essi consideravano il comportamento di una persona soltanto dal punto di vista della legge. La legge era per loro il punto di riferimento; adempiere alla legge li faceva sentire giusti. A posto cioè. Magari discutevano a lungo su che cosa la legge di Mosè volesse nei casi concreti ma l’obiettivo era quello di adempiere a dei comandi. E con l’adempimento dei comandi, essi nutrivano l’orgoglioso compiacimento di essere bravi, giungendo persino a disprezzare coloro che non riuscivano ad osservare la legge, si ponevano quindi su di un piedistallo di superiorità. Accadeva poi anche spesso che l’osservanza della legge fosse sbandierata per essere ammirati dagli uomini e a volte, osservando scrupolosamente la lettera della legge, nella vita agivano però contro lo spirito autentico di essa, risultando così degli ipocriti. In diverse occasioni il Signore Gesù ha polemizzato con gli scribi e i farisei.

Scribi e farisei c’erano allora, ai tempi di Gesù, ma ci sono anche oggi, quando ci si riempie la bocca di belle parole magari di moda, si ama apparire e si ricerca la visibilità dell’applauso e degli onori del mondo ma poi nella vita personale non si pratica la virtù, non ci si impegna in una vita personale coerente; oppure ancora quando ci si indigna e si protesta per le malefatte degli altri, ci si erge a giudici inflessibili rivendicando per sé una moralità che gli altri invece non avrebbero; oppure ancora, quando si riduce il cristianesimo a pratiche religiose, a consuetudini o a moralismi bigotti magari pieni di pregiudizi nei confronti degli altri.

Il Signore Gesù ci invita piuttosto a superare decisamente questa giustizia. Ci invita a fare molta attenzione a non cadere in una interpretazione di tal genere della vita cristiana. Altrimenti, dice Gesù, “non si entra nel Regno dei cieli”. Non perché Lui ce lo impedirà per punizione ma perché non saremo adatti al Regno, non ne saremo capaci, non avremo le caratteristiche del Regno di Dio.

Osserviamo però con particolare attenzione ciò che ci chiede il Signore. Egli non ci invita ad aggiungere qualche altro comandamento a quelli della legge o ad alzare semplicemente l’asticella delle obbligazioni di legge. Ci invita piuttosto ad andare oltre, verso una qualità diversa, qualcosa di nuovo: ci invita cioè in definitiva, se ci pensiamo bene, ad avere il cuore stesso di Dio.

Questa è la giustizia che Gesù ci domanda: avere il cuore misericordioso di Dio. Questa è l’autentica conversione a cui siamo chiamati. Ricordiamoci delle parole di Gesù in altra parte del vangelo: siate misericordiosi come è misericordioso il padre vostro che è nei cieli; siate perfetti come è perfetto il padre vostro che nei cieli. Questo invito di Gesù l’abbiamo sentito anche nel vangelo proclamato poco fa: non basta non far del male, non basta nemmeno fare un po’ di bene agli altri; ci vuole qualcosa di più, occorre andare a riconciliarsi addirittura quando non noi, ma l’altro ha qualcosa contro di noi; dobbiamo amare anche i nemici. Pure la minima offesa è inaccettabile. In definitiva ci è chiesto di avere il cuore grande, infinito, di Dio per amare come lui ama ogni creatura. Lui che come abbiamo sentito nella prima lettura, non ha piacere della morte del malvagio ma piuttosto che desista dalla sua condotta e viva. Lui che offre a tutti, sempre, in qualsiasi momento dell’esistenza – fosse anche l’ultimo respiro come la storia del buon ladrone ci insegna – e qualsiasi cosa uno abbia commesso, la possibilità di pentirsi e trovare la vita.

Una giustizia così intesa, l’avere cioè il cuore di Dio, capite bene fratelli e sorelle carissimi, è impresa che non avrà mai fine per tutta la nostra vita terrena e forse ci vorrà anche un po’ di vita oltre la stessa morte. E’ un cammino profondo di trasformazione interiore, di cambiamento del cuore, che non si arresta fintanto che Cristo non sia tutto in noi. Di questo cammino, quello quaresimale che abbiamo intrapreso col mercoledì delle ceneri non è che un piccolo segno e un aiuto. Ogni giorno della nostra vita dunque sarà sempre poco; ogni giorno la misura non potrà mai essere colma. Sempre di più, sempre più intensamente; così è la vita dietro a Cristo, la vita alla sua sequela: occorre avere il cuore di Dio, essere nel cuore di Dio per amare come Lui e con Lui. Solo così si entra nel suo Regno e già fin d’ora se ne può gustare il sapore.

Ma questa meta altissima non è raggiungibile con il semplice esercizio della volontà, anche se è necessaria la decisione della nostra volontà e la nostra attiva collaborazione. Avere il cuore di Dio è frutto della Grazia. E’ opera dello Spirito Santo in noi. E’ dono che è dato a chi lo chiede con insistenza, con umiltà, con costanza; a chi cerca, a chi bussa, a chi domanda e supplica. E’ dono che viene dall’alto.

Allora carissimi fratelli e sorelle, chiediamo questa sera a Dio il dono di un cuore nuovo; domandiamo di avere il suo cuore in noi, di amare dunque nella misura di Dio e al modo di Dio e cerchiamo di vedere il nostro cammino quaresimale sotto questa luce; cioè come un desiderio struggente e ardente che si fa preghiera e disponibilità affinchè il nostro cuore batta all’unisono col cuore di Cristo e tutti, ma proprio tutti coloro che incontriamo, in specie i più poveri e derelitti possano trovare spazio dentro di noi, in un cuore che si sforza di amare al modo di Dio.

+ Fausto Tardelli, vescovo

 

 




Solennità del Natale – Messa della notte (25 dicembre 2016)

CATTEDRALE DI S. ZENO – MESSA DELLA NOTTE

Un bambino da accogliere; un bambino da rispettare e da amare; un bambino da cui imparare: questo è il Natale del Signore. Il nome di questo bambino è Gesù. Ma questo bambino porta anche il nome di ogni bambino del mondo.

La lettura del profeta Isaia proclama che “Un bambino è nato per noi, che ci è stato dato un figlio”. E in effetti, nella grotta di Betlemme è nato un bambino. Figlio di Maria ma non di Giuseppe. Figlio invece di Dio, secondo le parole con le quali l’angelo parlò a Maria. Quel bambino è Dio. Dio con noi. “Oggi – dicono gli angeli ai pastori – è nato un Salvatore che è Cristo Signore”.

Quel bambino che è Dio aspetta di essere accolto, carissimi fratelli ed amici. E’ dunque innanzitutto un bambino da accogliere. Allora chiese di essere accolto da Maria e Giuseppe, dai pastori e da tutti gli altri che poi lo incontrarono in cammino per le terre di Palestina. Oggi, il Dio bambino attende di essere accolto da ciascuno di noi. Questa è la questione seria dell’uomo! Non ce n’è un’altra di così seria, così importante, di così decisiva: accogliere Dio nella nostra vita e nella vita del mondo, come nelle nostre società. Tutti gli altri problemi vengono dopo perché sono la conseguenza di questo fondamentale atto che è richiesto a ciascuno: accogliere Dio in noi; accogliere il bambino Gesù nella nostra vita; lasciarci spezzare il cuore da lui e fargli spazio; non solo col sentimento ma con la nostra intelligenza, la nostra volontà, il nostro corpo, in definitiva con tutta la nostra persona. Una vita che non si apre a Dio, a quel bambino che è Dio, è una vita che si perde e si smarrisce nei meandri oscuri del labirinto del proprio io. Una società che non apre le porte a Cristo, al bambino di Betlemme, è una società che ipoteca il suo autentico sviluppo.

Ma questo Dio da accogliere è presente anche in ogni bambino del mondo a partire dal concepimento nel seno materno. E allora il Natale ci domanda impertinente se noi i bambini li accogliamo veramente; se sappiamo fargli posto; se sappiamo aprirci alla loro novità oppure se lo facciamo solo a parole. Domanda per niente scontata nella nostra società e nella nostra Italia in particolare dove di bambini ne nascono davvero pochi e le morti superano le nascite. Domanda per niente scontata, anche di fronte al numero incredibilmente alto di aborti (56 milioni ogni anno) che si fanno nel mondo e spesso proprio nelle società cosiddette più avanzate.

Ma se il bambino di Betlemme va innanzitutto accolto a braccia aperte, ciò non basta. Ed è questa la seconda considerazione che voglio fare stanotte. Il bambino Gesù va cioè anche accudito e amato. Egli attende che ci prendiamo cura di Lui e che lo facciamo crescere in noi, dentro di noi; crescere d’importanza, crescere di valore, crescere di influenza sulla nostra vita. Il Bambino Gesù attende di essere custodito nel cuore, nutrito con la nostra dedizione, amato sopra ogni cosa; messo al centro della nostra attenzione, delle nostre preoccupazioni. Diciamo la verità, carissimi amici e fratelli, è proprio così?  Nella nostra vita, il Signore Gesù è davvero importante? È davvero al centro e tutto ruota intorno a Lui? La sua parola è luce per le nostre scelte, i nostri giudizi, i nostri comportamenti?

Esaminiamoci attentamente e guardiamo il presepe. Gesù bambino è lì, piccolino. Ha bisogno di tutto. Ha bisogno del calore del nostro affetto, delle nostre mani calde d’amore. Non possiamo voltarci dall’altra parte. Non lo possiamo ignorare. Bisogna abbracciarlo, prenderlo in braccio, cullarlo, cantargli dolcemente una nenia per addormentarlo; dobbiamo saperlo accarezzare e fare attenzione al suo respiro, che non abbia a soffocare; fare attenzione perchè non s’abbia a far male, cadere, ferirsi. Certo, alle nostre mani – dobbiamo pur dirlo – il bambino Gesù rischia grosso. Eppure, sembrerà strano, ma Egli, nonostante tutto, continua a fidarsi di me, di te, di noi; continua ancora a voler venire nelle nostre braccia.

Facciamo allora attenzione. Mettiamocela tutta. Non trascuriamolo, riempendo la nostra vita di un sacco di cose che non sono Lui. Per alimentare la presenza del Signore Gesù nella nostra vita non c’è che da pregare e pregare molto, affidandoci alla sua Parola e a quei mezzi divini, i sacramenti, che la santa chiesa ci mette a disposizione.

Ma il bambino Gesù – come dicevamo – è anche presente, realmente presente in ogni bambino del mondo. Che sono quindi da rispettare, da salvaguardare, da custodire. E allora il pensiero va a quei bambini che muoiono ancora per fame e per guerre, vittime di abusi e di ingiustizie, maltrattati e schiavizzati, e proviamo angoscia e dolore. Proviamo sgomento questa notte, davanti alla grotta di Betlemme, perché in ogni bambino maltrattato, è Dio che viene nuovamente calpestato e ancora si conficcano atroci i chiodi nella carne di Cristo. E se i bambini sono maltrattati e offesi, se sono vittime innocenti, ciò è segno che questo mondo ancora non ha accolto Dio, non lo ha accettato. E’ il segno più evidente di un mondo che rifiuta il vero Dio e pensa di sostituirsi a Lui.

Infine, ed è il mio terzo pensiero questa notte, il santo bambino di Betlemme ci insegna. Si, ci insegna e noi dobbiamo imparare da Lui, come del resto da ogni bambino. Il Natale ci ricorda infatti che occorre diventare come bambini, se vogliamo entrare nel regno della luce e della pace. “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”(Mt 18,3). Lo ha detto chiaramente Gesù e ogni bambino del mondo ci è maestro e ci insegna la via della piccolezza e dell’umiltà e quindi del Regno.

Com’è difficile per noi adulti cosiddetti “maturi” diventare bambini! E’ difficile; eppure è necessario. Altrimenti non si entra nella vita. Occorre diventare bambini. Non ritornare bambini. Questa è un’altra cosa e sa di infantilismo. Diventare bambini invece significa farsi piccoli e poveri; accettare di svuotarsi del proprio io; è aver bisogno di tutto e di tutti. Significa esser contenti di contare niente o poco; non cercare potere, forza o rivalse; riconoscerci fragili e deboli. Significa essere sinceramente umili, vincendo la nostra prepotenza, la nostra presunzione, il nostro orgoglio. L’umiltà dell’Onnipotente Dio che si è manifestata a Betlemme e di cui San Francesco rimase affascinato, commuova anche noi questa notte e ci renda semplici e poveri.

Accogliamo allora carissimi fratelli ed amici, il bambino Gesù, prendiamoci cura di Lui ed amiamolo con tutte le nostre capacità. Impariamo infine dal divino bambino; andiamo alla sua scuola. Diventati bambini, saremo allora capaci di amare veramente il nostro prossimo e aprirci ai fratelli più deboli e fragili con una condivisione sincera dei loro dolori e angosce, delle loro gioie e speranze.

+ Fausto Tardelli, vescovo




Solennità del Natale – Messa del Giorno (25 dicembre 2016)

Natale 2016

CATTEDRALE DI S. ZENO – MESSA DEL GIORNO

Che cosa desidera il cuore dell’uomo più di ogni altra cosa? Cosa si affanna a cercare per tutta la vita? Qual è il suo desiderio più profondo che mai si acquieta? Io credo che sia unicamente l’amore. Quello vero. D’essere amato, riconosciuto, voluto e allo stesso tempo di poter amare con gioia sapendo che quell’amore è apprezzato e accettato. Questo cerca ognuno di noi.

E’ la verità profonda del nostro essere. Del resto non potrebbe essere che così, dal momento l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e di un Dio che è Trinità d’amore. Per cui ognuno di noi porta in sé un desiderio profondo d’essere amato e di amare senza paure.

Questo cerca ogni bambino che nasce e ogni uomo che muore. Questo cerca ogni giovane che si innamora e ogni vecchio che sente passare gli anni. Molte volte si cerca nel modo sbagliato o nel posto sbagliato. Ma anche chi sembra cercare solo se stesso, in realtà è assetato d’amore. Pure chi sembra vivere soltanto per il successo, il potere, il denaro, in fondo non lo fa che per avere almeno l’illusione di essere amato e di poter amare. Addirittura chi odia e fa guerra, chi uccide e violenta non è che un accecato mendicante d’amore, un accecato, rabbioso e pericoloso cercatore di essere riconosciuto e valorizzato così come solo l’amore può fare.

Ed ecco allora il Natale del Signore. Dio risponde al desiderio più profondo del nostro cuore facendosi bambino a Betlemme. Diventa bambino per colmare il nostro desiderio di essere amati e di amare. Anzi, fa molto di più: ci dona la possibilità di diventare, in Lui, tutto amore.

La liturgia della Messa di stamani canta che “è nato per noi un bambino, che un figlio ci è stato donato”. Questo è il Natale, carissimi fratelli e amici. Dio si dona a noi come figlio nostro; un figlio da cui essere amati e da amare. Un figlio infatti è frutto di amore, segno di amore e anche fonte di amore. Nel figlio, l’amore dell’altro si concretizza in una persona. Avere un figlio è ricevere un dono dall’altro. E’ ricevere amore. In un figlio si legge l’amore dell’altro per sé e si esprime il proprio amore per l’altro. La sofferenza che proviene dal non poter aver figli, a ben pensarci nasce esattamente da qui: cioè dal fatto che senza figli ci si sente sterili, incapaci cioè di amore verso l’altro e insieme privati di quell’amore. Ci si sente inutili, non amati, non riconosciuti, poveri d’amore.

Ecco perché la gioia del Natale tocca particolarmente nell’intimo la nostra umanità. Con la nascita di Gesù, ogni uomo diventa padre e madre. Ognuno di noi.  Con la nascita di Gesù possiamo amare ed essere amati; abbiamo nella persona del bambino Gesù il segno certo ed evidente dell’amore di Dio per noi e a nostra volta la possibilità stessa di amare. La nostra sterilità è vinta: abbiamo un figlio. Un figlio che ci cerca come un piccolo bambino cerca e si attacca al seno della madre. Pensate: Dio si fa nostro figlio, cercandoci non come un sovrano che incute timore ma come un bambino che cerca il seno della madre e si affida alla nostra tenerezza. Il Verbo eterno di Dio, consostanziale al Padre, nascendo nella carne attraverso il grembo di Maria SS.ma, è diventato veramente figlio nostro secondo la natura umana. Appartiene alla nostra natura; è pienamente e totalmente uomo, anche se rimane pienamente e perfettamente Dio.

Come ci ha detto la lettera agli Ebrei e il vangelo di San Giovanni, Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza. Costui era il Verbo e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, facendosi figlio nostro. Di me, di te, di tutti noi.

Come non commuoverci? Come non sentirci profondamente accolti, stimati, valorizzati? Come non sentirsi oggetto di un amore sorprendente e inaudito che ci permette finalmente di amare con tutto noi stessi senza alcuna paura?  Il nostro cuore è inquieto – direbbe S.Agostino – perché è sempre in cerca d’amore. Cerca l’amore senza fine, l’amore assoluto ed eterno, l’amore assolutamente fedele, l’amore che non viene meno. Ma questo amore non si trova nelle creature se non in piccola parte. Questo amore è invece ciò che si rivela e ci viene donato a Natale nel bambino Gesù che è nostro figlio. Il Natale è la parola d’amore che Dio sussurra al nostro cuore. Una parola, non come quella degli amanti, spesso smentita dai fatti ma Parola fedele per sempre; Parola che si fa carne.

Cosa saremmo noi, se nessuno ci amasse? Se nessuno ci volesse bene? Niente. Ma cosa saremmo anche se non amassimo a nostra volta? Niente. Noi abbiamo bisogno dell’amore, di essere amati e di amare, come dell’aria che respiriamo; ne abbiamo bisogno per nascere, per vivere e anche per morire. Altrimenti piomberemmo nel nulla. Ma col Natale Dio dice a ciascuno di noi: io ti amo; ti voglio bene come unico, totalmente e fedelmente. Il mio amore per te non verrà mai meno. Il tuo nome io lo conosco fin da principio e niente di te mi è indifferente. Io ti amo come un piccolo bambino ama la sua mamma. E mentre Dio ci dice così, Egli si offre al nostro amore, ci da cioè la possibilità di amarlo, di accarezzarlo, di nutrirlo, di stringerlo al nostro petto cullandolo col canto del nostro affetto. Se anche non siamo molto capaci di amare, si offre a noi come piccolo bambino perché il nostro cuore di pietra si sciolga e si trasformi in un cuore di carne. Lui ci trasforma – se lo vogliamo. Lui cambia la nostra vita e ci fa figli di Dio. Dice San Giovanni nel vangelo: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo amore, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.”

Dio dunque a Natale si è fatto uomo perché noi possiamo diventare Dio. E diventare Dio significa imparare ad amare come Lui ci ama e ama ogni uomo. Ecco perché il Natale ci spinge verso gli altri, ad aprirci agli altri. L’essere amati scioglie i nodi del nostro egoismo e ci apre ai fratelli. Nell’esser amati da Dio scopriamo che anche gli altri, uno per uno, sono amati dallo stesso Dio e insieme formiamo la sua famiglia. Il Bambino Gesù dunque ci spinge necessariamente verso gli altri perché anche gli altri, attraverso la nostra personale testimonianza e il nostro impegno, sentano che sono voluti e amati da Dio. Se non amiamo – non si può amare soltanto a parole – l’amore non circola in noi e noi restiamo isolati, soli, tremendamente soli. A poco varrebbe a quel punto celebrare il Natale. Solo renderci disponibili al flusso dell’amore ricevuto e donato ce lo fa vivere in pienezza e in mondo non “mondano”.

Ed è questo allora che auguro a me e a tutti voi che condividete con me la gioia di questo giorno.




Solennità dell’Immacolata (8 dicembre 2016) istituzione di un lettore e di un accolito

Solennità dell’Immacolata

8 dicembre 2016
istituzione di un lettore (Eusebio Farcas)
e di un accolito (Gianni Gasperini)

La lettura dal libro della Genesi che abbiamo ascoltato ci presenta innanzitutto il dramma dl peccato delle origini. L’uomo, al momento della sua origine non si è fidato di Dio. Dio lo ha voluto e creato. Lo ha voluto e creato libero e somigliante a sé per quanto è possibile a una creatura. Dio ha da subito offerto all’uomo un’alleanza, un patto, una relazione di amicizia e amore. L’uomo però ha rifiutato. Ingannato dal diavolo, il serpente antico, l’uomo ha pensato di essere talmente grande, talmente importante, talmente autosufficiente da poter fare a meno di Dio. Il peccato originale è espresso nella Sacra Scrittura come “disobbedienza” ma leggendo più in profondità, questo peccato è innanzitutto un non credere all’amore di Dio, un non volersi fidare di Lui, ritenendolo bugiardo e ingannatore, nemico del vero bene dell’uomo. Conseguenza del peccato delle origini è stata la frantumazione dei rapporti tra gli uomini, prima di tutto fra l’uomo e la donna; la frantumazione della società umana nell’odio omicida; la distruzione di una relazione positiva tra l’uomo e la natura; la scissione interna all’uomo stesso, la sua alienazione. Conseguenze del tutto logiche, perché staccandosi da Dio che è amore e fonte della vita, l’uomo non può che andare incontro all’odio e alla morte.

Il peccato d’origine non è primariamente un peccato sociale. E’ invece colpevole mancanza di fiducia e di accoglienza di Dio. Le conseguenze sono si sociali ed evidenti nella violenza che caratterizza spesso i rapporti tra gli uomini. Ma la radice del peccato è la non accettazione di Dio nella propria vita.

La lettura della genesi si chiude con una grande speranza. Il peccato non ha l’ultima parola sull’uomo. La morte non ha l’ultima parola sulla storia degli uomini. In quello che giustamente è stato chiamato il “protovangelo”, cioè il primo annuncio della Buona Notizia della salvezza per l’uomo, Dio promette che attraverso una donna nascerà qualcuno che schiaccerà definitivamente la testa del serpente antico e quindi darà all’uomo la possibilità di riandare nuovamente nelle braccia di Dio e di vivere nell’amore.

Noi oggi abbiamo questa possibilità, quella di riconciliarci con Dio in Cristo. L’umanità intera ha questa possibilità. Ed è questo il messaggio e l’appello che scaturisce dalla festa dell’Immacolata Concezione: prima ancora di un appello alla riconciliazione tra gli uomini, bisogno reale e urgente ma inefficace se non va all’origine del problema, esso è appello ad accoglie il Dio della misericordia nella propria vita, a ricorrere al suo perdono, ad andare a Lui pieni di fiducia.

Il brano della lettera di San Paolo apostolo agli efesini completa il discorso ricordandoci il nostro destino eterno. Paolo benedice Dio, lo loda perché ci ha scelti in Gesù Cristo e ci ha fatto suoi figli  mediante il suo Figlio unigenito. Poi ci ricorda che siamo stati fatti eredi, predestinati a essere lode della gloria di Dio.

Non abbiamo dunque un destino puramente terreno e il Regno di Dio a cui siamo predestinati non è un regno terreno, anche se inizia su questa terra e su questa terra ci si può decidere per esso. Noi siamo destinati alla lode di Dio. La nostra vita trova il suo senso ultimo nella comunione con Dio. Per questo siamo stati creati, per questo siamo stati redenti, per questo lo Spirito Santo è stato effuso nei nostri cuori. Se perdessimo questa chiara coscienza, il messaggio cristiano si ridurrebbe a ideologia, a messaggio puramente sociale o politico, alla stregua di tanti altri che l’uomo ha elaborato e consumato lungo i secoli. Come dice un famoso detto di Sant’Ireno, citato purtroppo quasi sempre a metà: “Gloria Dei vivens homo”. L’uomo vivente cioè è la gloria di Dio. Ma la vita dell’uomo consiste però nella visione di Dio. “vita autem hominis visio Dei”. Questa è la seconda parte della frase di S.Ireneo che ci dice chiaramente che fuori dalla relazione con il suo creatore, l’uomo è morto, non è più “vivens homo”. (sant’Ireneo di Lione, II secolo, in Adversus haereses, IV, 20,7).

L’immacolata Vergine Maria ce lo dice chiaramente anche lei: lei infatti è la piena di grazia. In lei l’amore di Dio è pieno. E’ questo che fa di lei la tutta santa, la più alta delle creature, la donna, la creatura, pienamente realizzata. E il si che lei pronuncia all’angelo è prima di tutto il si ad essere amata da Dio, ad essere “piena di grazia”; è il si ad accogliere Dio dentro di sé. Conseguentemente è anche il si dell’amore detto a tutti noi, per il nostro soccorso.

E’ esattamente ciò che il Vangelo ci ha annunziato poco fa. La Vergine concepita senza peccato originale per singolare privilegio in vista della sua divina maternità, con una liberazione che è frutto anticipato della croce di Cristo, ci mostra la via della nostra santificazione. La via che è proposta a ogni uomo; quella che la Chiesa di cui Maria è immagine, deve indicare agli uomini di oggi: la via che conduce a Dio, all’accoglienza di Lui, fondamento di ogni autentica accoglienza umana tra fratelli.

Lo Spirito Santo, dice l’angelo a Maria “scenderà̀ su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà̀ con la sua ombra. Perciò̀ colui che nascerà̀ sarà̀ santo e sarà̀ chiamato Figlio di Dio”. Così comprendiamo Chi è colui che può far nuove tutte le cose e renderci santi: lo Spirito di Dio. Con l’opera dello Spirito Santo la vergine partorirà e darà al mondo il Figlio di Dio. Mediante l’opera dello Spirito Santo ciascuno di noi può rinascere a vita nuova e generare vita. Questo è ciò di cui ha bisogno il mondo. Questo è ciò che ogni uomo attende. Solo nella docilità all’azione dello Spirito ogni uomo vedrà la salvezza e sorgeranno cieli nuovi e terre nuove. Ed è questo stesso spirito che suscita carismi e ministeri, arricchendo la chiesa di doni. Come in questo momento con questi due giovani che saranno istituiti lettori e accoliti.

(La seguente monizione è ripresa e riadattata dal Rito della Istituzione dei lettori e degli accoliti)

Carissimi, Eusebio e Gianni che diventerete tra poco l’uno lettore e l’altro accolito, ascoltate ora con attenzione quanto la chiesa ha da dirvi in questo momento.

Dio nostro Padre ha rivelato il mistero della nostra salvezza e lo ha portato a compimento per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo fatto uomo, il quale, dopo averci detto e dato tutto, ha trasmesso alla sua Chiesa il compito di annunziare il Vangelo a ogni creatura. Il lettore è annunziatore della parola di Dio ed è chiamato a collaborare a questo impegno primario nella Chiesa e perciò̀ è investito di un particolare ufficio, che lo mette a servizio della fede, la quale ha la sua radice e il suo fondamento nella parola di Dio. Il lettore proclama la parola di Dio nell’assemblea liturgica; educa alla fede i fanciulli e gli adulti e li guida a ricevere degnamente i Sacramenti; porta l’annunzio missionario del Vangelo di salvezza agli uomini che ancora non lo conoscono. Attraverso questa via e con la sua collaborazione molti potranno giungere alla conoscenza del Padre e del suo Figlio Gesù̀ Cristo, che egli ha mandato, e così otterranno la vita eterna. È quindi necessario che, mentre il lettore annunzia agli altri la parola di Dio, sappia accoglierla in se stesso con piena docilità̀ allo Spirito Santo; la mediti dunque ogni giorno per acquistarne una conoscenza sempre più viva e penetrante, ma soprattutto renda testimonianza con la sua vita al nostro salvatore Gesù̀ Cristo.

L’accolito invece partecipa in modo particolare al ministero della Chiesa. Essa infatti ha il vertice e la fonte della sua vita nell’Eucaristia, mediante la quale si edifica e cresce come popolo di Dio. All’accolito è affidato il compito di aiutare i presbiteri e i diaconi nello svolgimento delle loro funzioni, e come ministri straordinari può distribuire l’Eucaristia a tutti i fedeli, anche infermi. Questo ministero lo impegna a vivere sempre più intensamente il sacrificio del Signore e a conformarvi sempre più̀ il suo essere e il suo operare. Cerchi quindi di comprenderne il profondo significato per offrirsi ogni giorno in Cristo come sacrificio spirituale gradito a Dio. Non dimentichi che, per il fatto di partecipare con i suoi fratelli all’unico pane, forma con essi un unico corpo. Ami di amore sincero il corpo mistico del Cristo, che è il popolo di Dio, soprattutto i poveri e gli infermi. Attuerà così il comandamento nuovo che Gesù̀ diede agli apostoli nell’ultima cena: amatevi l’un l’altro, come io ho amato voi.