Omelia in occasione del Pellegrinaggio Diocesano Giubilare (1 ottobre 2016)

Pellegrinaggio Roma
1 ottobre 2016

“Sia benedetto Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce.”

Così ci ha detto poco fa l’apostolo Pietro. Sì. Sia benedetto Dio per il suo amore senza confini e limiti. Sia benedetto Dio perché siamo qui, così tanti, chiesa di Pistoia, raccolta nell’unità, con me vostro vescovo, coi presbiteri e i diaconi, attorno all’altare della cattedra di S.Pietro e del suo successore il Papa.

È un segno della Misericordia di Dio, il nostro essere qui a manifestare la nostra fede, esprimere la nostra speranza, animarci alla carità più generosa. Sia benedetto davvero Dio, ora e sempre. Dalle nostre bocche oggi esca un canto di gratitudine, di riconoscenza, di lode per aver fatto di noi il suo Popolo santo. È una vera grazia, fratelli e sorelle carissimi, credetemi, essere parte della Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica; un solo gregge sotto un solo pastore, col Papa e i vescovi, coi laici, i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose. Godiamo fratelli e sorelle, di essere la chiesa del Signore. Quella fondata da Gesù Cristo, quella che ha attraversato i secoli, quella che nei suoi figli peccatori è stata imbrattata di sporcizia, ma anche quella che ha brillato e brilla per la sfolgorante candida schiera dei martiri, dei confessori della fede, dei santi e delle sante di ogni tempo. Quella di sempre e quella sempre nuova che si rinnova oggi sotto la guida di Papa Francesco.

Assaporiamo, fratelli e sorelle la gioia di sentirci corpo del Signore, sua famiglia, suo popolo! Troppe volte noi pensiamo alla chiesa come a qualcosa che ci sta di fronte, dimenticando che la chiesa siamo noi, tutti noi. Troppe volte ci lamentiamo della chiesa o di alcune sue vicende storiche o sue mancanze, senza considerare che è comunque una grazia incommensurabile appartenere a questo popolo di peccatori e santi. Troppe volte vorremo una chiesa come pare a noi, mentre la chiesa non può essere altro che come l’ha voluta il Signore Gesù, posta cioè sul fondamento degli apostoli.

Quest’oggi, alle critiche, ai distinguo, alle prese di distanza e alle riserve, deve far posto la gioia e la gratitudine di essere chiesa, di essere popolo di Dio, nel modo che Cristo ha voluto. E di esserlo inoltre nelle nostre terre pistoiesi, pratesi, fiorentine, chiesa particolare riunita intorno al successore degli apostoli che è il vescovo.

Ma perché la gioia continui e si approfondisca e non tornino sempre fuori le lamentele dell’uomo vecchio e triste, carissimi amici, il Signore Gesù ci ha dato una indicazione chiara. L’abbiamo ascoltata nel vangelo secondo Giovanni: “Rimanete nel mio amore. Osservate i miei comandamenti e amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi.”
Il segreto della gioia sta nel rimanere dentro il Signore, nel fare dimora nella sua vita, nello stare con Lui ad ascoltare la sua voce, a commuoversi alle sue parole, a cibarci di Lui e a rimanere in adorazione del suo amore. E nello stesso tempo sta nel mettere in pratica i suoi comandamenti, primo fra tutti quello dell’amore fraterno.

Come potrà essere la nostra, una chiesa della gioia, una chiesa che trasmette gioia, la gioia del Vangelo, come dice Papa Francesco; come potranno essere le nostre parrocchie, le nostre comunità, i nostri gruppi, testimonianza di gioia, irradiazione di gioia vera, non quella artificiale e artefatta che da il mondo, se non rimaniamo nel Signore, se non sostiamo in Lui, se Lui non è al centro della nostra vita, delle nostre iniziative, dei nostri impegni e se non ci mettiamo seriamente a praticare il suo comandamento che ci dice di amarci esattamente come Lui ha amato e ama noi? Perciò, cercare di rimanere con tutto noi stessi nel Signore, amandoci come veri fratelli e quindi irradiando nel mondo la gioia del Vangelo, dev’esser l’intendimento di ogni programma o progetto pastorale, di ogni iniziativa e azione pastorale. Se così non fosse, sarebbero tutte chiacchiere inutili.

Tra poco sarò ben felice di dare un mandato ufficiale in primo luogo ai catechisti e poi anche a tutti i responsabili e operatori pastorale presenti. È particolarmente bello che questo gesto si ponga proprio qui, al centro della cristianità, sulla tomba dell’apostolo Pietro, nel luogo dove egli fu martirizzato e rese la sua testimonianza. Ma anche in questo caso, abbiatelo a mente voi che ricevete il mandato, il succo del vostro servizio è trasmettere la gioia dell’incontro con Cristo, la gioia di Colui che è la via, la verità e la vita, l’unico Salvatore. Il vostro servizio nasce perciò dal rimanere in preghiera con il Signore ad ascoltare la sua parola, sotto la guida del magistero; mira a comunicare questo invito del Signore a tutti e si testimonia con l’amore verso i fratelli, con l’impegno a far comunione con loro.

A tutte queste considerazioni, vorrei aggiungere, carissimi, ancora un pensiero. Abbiamo attraversato la porta Santa nell’anno che Papa Francesco ha dedicato, con sapiente intuizione, alla misericordia, da ricevere e da donare. Ecco allora che noi siamo qui oggi anche per impegnarci solennemente a essere misericordiosi come il Padre. E lo facciamo partendo da una constatazione: che noi non siamo misericordiosi come dovremmo essere. Lo dobbiamo però diventare. Il fatto è che spesso non ci sopportiamo l’un l’altro, siamo gelosi, invidiosi, ci poniamo davanti al nostro prossimo come quelli che non sbagliano mai, non siamo pronti a comprendere le ragioni dell’altro. Nel nostro cuore tante volte non c’è amore ma rabbia, scontento, cinismo, pregiudizio, indifferenza. E quindi non fioriscono le opere di misericordia, oppure sono solo un passatempo. Così chi ha fame e sete non ha risposte; chi è pellegrino e migrante non trova ospitalità; chi è malato o in carcere rimane solo; chi è nel dubbio, nel pianto, nell’ignoranza o nel peccato non trova chi si prenda cura di lui; le offese non ottengono perdono e non c’è pietà né per i vivi né per i morti.

Noi siamo qui però, carissimi fratelli e sorelle per dire che invece vogliamo essere misericordiosi come il Padre nostro che è nei cieli, non confidando certo nelle nostre forze ma proprio nella sua misericordia. Decisamente vogliamo incamminarci sulla via della misericordia. Ognuno facendo quello che può, ma sicuri che se ci raccomandiamo allo Spirito Santo, il nostro cuore sarà trasformato, a poco a poco cambierà e da cuore di pietra diventerà di carne e saremo in grado di ascoltare il grido dei poveri e di chi è nel bisogno, sia materiale che spirituale, rispondendovi con la fantasia della carità.

Il mondo ha un assoluto bisogno di misericordia. Ha un bisogno estremo di scoprire l’amore di Dio, che è Padre misericordioso pronto a perdonare e abbracciare i suoi figli smarriti. Questo mondo ha bisogno d’amore, oggi più che mai. Di verità e di amore, che sono poi la stessa cosa. Lo vediamo bene in questi nostri giorni segnati da tante menzogne e da violenze di ogni genere. A noi, pur con tutte le nostre fragilità e contraddizioni, il compito di gettare in questo mondo un po’ dell’amore del Signore.

+ Fausto Tardelli, vescovo




Omelia in occasione del passaggio delle reliquie di S. Teresa di Lisieux (Basilica della Madonna dell’Umiltà, 6 settembre 2016)

Omelia di S. E. Mons. Fausto Tardelli in occasione del passaggio delle reliquie di Santa Teresa di Lisieux a Pistoia. Celebrazione presso la Basilica della Madonna dell’Umiltà in data 6 settembre 2016.

File audio: clicca qui per ascoltare l’omelia

(Per il link ringraziamo il sito: http://www.carmelitanicentroitalia.it/ )




Per Mansueto. L’omelia di Mons. Tardelli a Santa Maria a Colle (6 agosto 2016)

LUCCA – S. MARIA A COLLE – 6 AGOSTO 2016 (+3 AGOSTO)

 

Carissimi Collesi, quanta fatica, ve lo potete immaginare, per me a parlare qui stasera davanti a voi e in questa dolorosissima circostanza. E’ una specie di scherzo che mi ha fatto Mansueto, uno di quelli che ti fanno proprio gli amici più cari.

Finalmente è tornato a casa. Possiamo dire così. Lo ha desiderato. Me lo ha detto a voce, me lo ha scritto nel testamento. Del resto, quante volte, anche in passato, mi aveva ripetuto un detto trasmessogli da sua madre – voi la ricordate bene la sua mamma, una donna forte, di quelle di una volta, sigaraia senza peli sulla lingua, con una fede semplice e salda come la roccia – “quando si fa sera – questo era il detto – è l’ora di tornare a casa” Così si è verificato. Solo che la sera forse è venuta un po’ troppo presto. E ora Mansueto è qui, in mezzo a voi, suoi amati collesi, ai piedi di San Cataldo.

In questi ultimi giorni si è compiuto un viaggio a ritroso quanto mai significativo. Siamo partiti da Roma, luogo della sua ultima missione, il luogo della sua passione e morte ma anche della sua risurrezione nella contemplazione del Volto del Padre. Da Roma, come da Gerusalemme, seguendo le indicazioni del nostro amico e fratello, siamo tornati qua a Lucca e a Colle in particolare, come in una ideale Galilea, là dove tutto è cominciato. E’ il cammino che fecero gli apostoli, dopo l’evento della passione, morte e risurrezione del Signore. Siamo tornati a ritroso verso le radici, nel luogo da dove tutto è iniziato. E questo percorso all’indietro ci ricorda almeno tre cose importanti. La prima è che tutto è grazia; tutto proviene dalla libera iniziativa di Dio. Tutto scaturisce dal suo amore misericordioso, dalla sua santa e amorevole volontà. Mansueto, questa cosa l’ha anche scritta a chiare lettere, in rosso, in calce al suo testamento: “Alla fine rimane soltanto la Misericordia di Dio”. Io aggiungo soltanto, che tornando qui dove tutto è cominciato, si capisce che la Misericordia di Dio non è soltanto ciò che rimane ma anche ciò che precede, che fonda e origina tutta la nostra vita.

La seconda cosa che questo ritorno a Colle ci ricorda è che Dio non si fa mai intendere nell’astrattezza di un’idea, di una fantasia, di un pensiero, bensì nel concreto di una storia, di un luogo, di uno spazio, di un tempo preciso, dentro circostanze e situazioni concrete. L’avventura cristiana non è una favola che nasce e si consuma nel mondo delle idee ma storia concreta, incontro di persone, fatti e volti dentro i quali si rivela la presenza e la chiamata di Dio.
Infine, questo ritorno a Colle – in questa ideale Galilea dove tornarono i discepoli dopo gli eventi pasquali – ci ricorda che il ritorno non è per fermarsi ma per partire in missione. Per il nostro caro Mansueto da qui inizia una nuova missione: quella di accompagnarci nel cammino della vita. Per noi tutti, mentre consegniamo alla terra le spoglie mortali del nostro fratello – sappiamo bene che dobbiamo ripartire, ognuno per la sua missione, quella che il Signore gli ha affidato, augurandoci di poterla condurre a buon termine come ha fatto il nostro amico.

Carissimi collesi, quanti ricordi in questo momento salgono al vostro cuore! Da amico di Mansueto so bene quanto gli erano cari questi luoghi, questa gente, voi. Qui Dio lo ha chiamato all’esistenza. Qui ha mosso i primi passi e ha cominciato a conoscere il Signore alla scuola dei genitori e di don Pio. Qui ha ricevuto i sacramenti dell’Iniziazione cristiana. Qui per la prima volta ha ascoltato la Parola di Dio che lo ha affascinato per tutta la vita. Qui è cresciuto all’asilo con suor Bice, poi alla scuola elementare. Qui sempre è tornato durante gli anni della formazione. Da prete, da parroco di Arliano, sempre, quanti ragazzi e giovani ha seguito e accompagnato nel tempo, senza mai abbandonarli! Molti di questi, senz’altro siete qui stasera. E immancabile, ogni anno tornava a celebrare San Cataldo, il dieci di maggio. Solo quest’anno ci ha seguito dal letto di ospedale. Ma ci ha seguito passo passo.

Carissimi, oggi la chiesa celebra la festa della Trasfigurazione del Signore e con don Andrea, abbiamo deciso di celebrare questa festa liturgica e non fare la Messa esequiale. Non perché Mansueto non abbia bisogno del suffragio della preghiera della Chiesa. La Chiesa, madre saggia, invoca per tutti i defunti la Misericordia di Dio e tutti, di questa misericordia tutti abbiamo bisogno. Lo abbiamo fatto però perché ci è parso che alla luce della Trasfigurazione possiamo leggere questa morte che ci addolora così profondamente.

La luce della Trasfigurazione infatti illumina le opacità e il grigiore della vita. Ci fa scoprire nell’uomo Gesù, il Figlio di Dio innanzitutto da ascoltare e seguire; la luce della Trasfigurazione ci fa vedere in ciò che agli occhi umani è solo dolore e morte, speranza e risurrezione; in ciò che sembra senza valore, la perla preziosa del regno di Dio che avanza. Il Signore Gesù ci porta sul monte con Lui. Ci conduce per mano e piano piano ci illumina con una luce interiore che ci fa vedere e sentire, oltre quello che gli occhi e le orecchie del corpo vedono e sentono.

Posso dire – possiamo dire – tutti quelli che sono stati vicini a don Mansueto, che questa luce, nei lunghi mesi di ospedale, era dentro di lui, traspariva dai suoi occhi. Si percepiva bene che ne era interiormente illuminato e che già vedeva ciò che normalmente non si vede: il mistero della morte e risurrezione del Signore al quale si andava lentamente configurando. Già in qualche modo sembrava contemplasse quel figlio dell’uomo di cui ci ha parlato il libro di Daniele, che veniva a prenderlo per condurlo davanti al trono dell’Altissimo.

Carissimi amici, il peso del distacco è forte e le domande a Dio sul perché di questa morte, rimangono. Ma quello che è certo è che anche dobbiamo lasciarci invadere dalla luce della Trasfigurazione e, con gli occhi della fede, vedere il nostro fratello Mansueto, ancora vivo in mezzo a noi. Con gli occhi della fede – illuminati anche dalla testimonianza del nostro amico – dobbiamo imparare a guardare alla nostra vita, qualunque essa sia; a guardare alla nostra quotidianità, qualunque essa sia, trovando in essa la presenza della Misericordia di Dio e l’occasione per essere a nostra volta misericordiosi nei confronti dei nostri fratelli; cercando ogni giorno, come ci ha ricordato l’orazione iniziale di questa Messa, di “ascoltare la parola del Figlio unigenito di Dio e così diventare coeredi della sua vita immortale”. Don Mansueto, questa parola di Dio l’ha ascoltata, amata, servita e spiegata. Per questo siamo certi che sia già entrato nel pieno possesso dell’eredità della vita immortale. A noi seguirne le orme, ringraziando con tutto il cuore Dio per avercelo dato come Padre, fratello e amico.

+ Fausto Tardelli, vescovo




La testimonianza del vescovo Tardelli nell’ultimo saluto al Vescovo Bianchi (Lucca, 6 Agosto 2016)

In morte di Mansueto

Lucca – 6 agosto 2016 (+3 agosto)

Parlare qui di don Mansueto – perché così, semplicemente si chiamava finché è stato a Lucca – credo sia quasi inutile. Perché lo avete conosciuto bene. Qui è nato – meglio, a Colle, all’ombra di San Cataldo. Qui è cresciuto, entrato in seminario, ordinato prete; impegnato a fondo nella pastorale diocesana e nell’insegnamento a vari livelli, dopo un periodo a Roma per gli studi biblici. In tanti di voi lo hanno conosciuto e apprezzato, stimato ed amato.
Sapete dunque quanto si sia sempre sentito legato a questa terra, perché la lucchesia è terra che non si dimentica facilmente e i lucchesi non smettono mai di amarla e di desiderare di tornarci, prima o poi. Così è anche per Mansueto, per il Vescovo Mansueto, che espressamente mi ha chiesto e lasciato scritto che desiderava essere sepolto qui, a Lucca, a Colle, per la precisione.

Mansueto è cresciuto nel seno materno della Chiesa lucchese. Qui ha respirato profondamente il senso della chiesa locale, imparando ad amare concretamente il popolo di Dio, forgiato dallo Spirito Santo, attraverso pastori di eccezionale levatura morale intellettuale e spirituale.

Mansueto non lo si potrebbe capire, senza leggerlo dentro questa chiesa locale. Una Chiesa, quella lucchese, che era fatta di un clero povero e semplice ma dedito totalmente alla cura delle anime, disposto al sacrificio, attaccato alle tradizioni del popolo, pieno di carità verso i bisognosi, con una fede integra e a tutta prova. Una chiesa fatta di gente profondamente religiosa e attaccata ai suoi preti, alle proprie tradizioni e feste; gente semplice, schiva, che non amava l’apparire e le sceneggiate; solida nella fede cattolica, operosa e concreta nella carità senza orpelli. Una Chiesa che aveva ed ha al suo centro il Volto Santo, affascinante icona giovannea del Signore Gesù crocifisso e insieme risorto, crocifisso ma re, re di misericordia ma anche rex tremendae majestatis, giudice d’amore del cielo e della terra. Una chiesa che indica con la sua cattedrale la strada di Martino che divide il mantello col povero intirizzito dal freddo, instancabile vescovo nel servizio di Dio. Una chiesa che vede nel suo santo vescovo Frediano l’esempio del pastore buono che si prodiga per il bene del popolo. E ancora la chiesa di una santità femminile diffusa ed estremamente significativa, a partire da Zita, per arrivare alla Barbantini, ad Elena Guerra e infine alla povera Gemma, la mistica di Gesù Crocifisso. Una Chiesa profondamente mariana, dove il ricordo di Maria SS. è diffuso in ogni dove e dovunque se ne celebrano solennemente dal popolo le glorie. Infine una chiesa che proprio negli anni della formazione di don Mansueto, con la sapiente guida di Mons. Bartoletti si apriva con entusiasmo alla nuova Pentecoste del Concilio Vaticano II.

Mansueto ha respirato a pieni polmoni l’aria che caratterizzava questa chiesa locale. Se ne è imbevuto fin dall’infanzia. C’è rimasto attaccato. Della chiesa lucchese, egli è stato e si è sentito figlio. E se c’era un certo cruccio nel suo animo, durante gli anni dell’episcopato che lo avevano portato necessariamente fuori da questa chiesa madre, era quello a volte di non sentirsi più parte di essa, quasi un estraneo in quella che per lui era ancora la sua casa. Ma i legami fraterni non sono mai venuti meno. Lui sempre li ha coltivati e sono rimasti ancora oggi forti, cosa che fa sentire più acuto il dolore del distacco.

Pur con una vivace intelligenza, la raffinatezza degli studi biblici e un pensiero sempre attento a ciò che si muoveva nel mondo, pur nella possibilità intellettuale di innalzarsi sopra la massa, Mansueto è stato un figlio del popolo. Non è mai stato uno snob. Non si è chiuso sdegnoso in quella fede aristocratica che disdegna il popolo e che, forse, fede autentica non è. La sua fede è stata sempre popolare e si è trovato perfettamente a suo agio con le espressioni della pietà della semplice gente delle nostre terre; religiosità che ha fatto propria e coltivato con sincera partecipazione.

Chiamato dal Signore a servire la chiesa come vescovo, ha imparato sulla propria pelle quello che aveva appreso dai santi pastori che hanno guidato questa chiesa lucchese ma che anche da qui sono usciti, come quel Mons. Filippo Franceschi (don Pippo) – grande assistente generale dei giovani di A.C. al tempo del Concilio – poi vescovo di Civitavecchia, Ferrara e Padova, di cui volle riprendere il motto nel suo stemma episcopale “In lumine fidei” e di cui ha ripercorso per singolare coincidenza la prova della malattia e la morte prematura più o meno alla stessa età.
Malattia e morte che Mansueto ha affrontato per l’appunto, “nella luce della fede”. In un breve audio del 2011 che mi è stato fatto ascoltare in questi giorni a Pistoia, egli, rispondendo a una giovane che gli chiedeva perché credesse in Dio, con semplicità confessava di non essere affatto certo di credere, in quanto, diceva letteralmente “ho paura di morire. E questa paura mi lascia inquieto perché non so se riuscirei ad affrontare la morte con l’atteggiamento dell’obbedienza, dell’accoglienza e quindi dell’amore, oppure se di fronte a quell’evento estremo non farei saltare tutto il sistema della mia vita.”

Posso testimoniare personalmente e ancor di più lo possono tutti quelli che gli sono stati vicini amorevolmente in questi mesi, che don Mansueto ha affrontato nella luce della fede, prima la diagnosi terribile della malattia, poi la malattia e la degenza in ospedale, l’affievolirsi delle forze, lo spegnersi di ogni speranza umana e infine la morte. Il Signore lo ha sostenuto e gli ha fatto vincere la paura, per cui non solo non è saltato tutto il sistema della sua vita, ma si è confermato, testimoniando la gioia luminosa della fede.

Carissimi amici, concittadini generati da questa santa madre Chiesa di Lucca, vi confesso di soffrire molto per la perdita dell’amico mio più caro. Mi conforta la stupenda testimonianza di fede, di speranza e di carità dolcissima che ci ha dato in questi lunghi e interminabili mesi di ospedale. E’ stato duramente provato, tra alti e bassi, piccole riprese e ricadute. Sempre sereno e con una grande pace nel cuore, affidato completamente a Gesù, pieno di amore per Lui e per le persone che sono passate attraverso la sua vita e che ha portato sempre con sé. Posso attestare di persona la sua fede rocciosa, la sua delicatezza d’animo, l’abbandono fiducioso nelle mani del Signore. Ora, sono certo, gli si sono spalancate le porte del paradiso per contemplare viso a viso quel Dio da cui si è lasciato conquistare e consumare, mentre la Chiesa di Lucca aggiunge oggi un’altra perla alla mirabile corona dei sui figli fedeli.

+ Fausto Tardelli, vescovo




In morte di Mansueto – Omelia per le Esequie Solenni del Vescovo Mansueto Bianchi (5 agosto 2016)

In morte di Mansueto

5 agosto 2016 (+3 agosto)

Non ce la faccio a parlare in astratto, stasera. È con te, amico mio, che stasera sento di dover parlare, perché l’omelia sei tu, è la tua vita.

M’immagino già cosa starai dicendo ora: che non va bene. Appena ti rividi subito dopo l’operazione, con la tua solita ironia ma già presentendo come sarebbe andata a finire, mi dicesti che volevi leggere in anticipo la mia omelia, per controllare ciò che avrei detto al tuo funerale. Non ti ho obbedito e ora sono qui a presiedere un rito che mai avrei pensato di dover presiedere. Pensavo altro, sinceramente. E mi sembra uno dei tuoi scherzi, se non è troppo irriverente il dirlo. Eppure, quando l’altra sera ti ho incontrato immobile nel tuo letto e ho visto il tuo sorriso, l’ho subito riconosciuto, perché rivisto tante e tante altre volte. Era il sorriso della tua dolce e pungente ironia, come se tu ci dicessi dal letto di morte: “Ora ci siete voi nelle peste! Finora c’ero anch’io, ma ora ci siete voi. Io sono al sicuro, ora tocca a voi sbrigarvela…” Nello stesso tempo però, quel tuo sorriso bonario e un po’ a presa di giro, mi diceva: “non abbiate paura, non vi preoccupate: tutto passa, io vi sarò sempre vicino e Dio non vi abbandonerà”

Si. Me lo hai scritto anche in fondo al testamento redatto ai primi di gennaio di quest’anno, quando si cominciava ad affacciare il male e ancora non lo sapevi. In calce, dopo la firma, hai scritto a chiare lettere in rosso: “Alla fine rimane soltanto la Misericordia di Dio!”.

Si, è vero, Dio è infinitamente misericordioso. “ E’ ” Misericordia, e noi troviamo vita soltanto in questa Misericordia senza confini. Si, lo so. Ma lasciamelo dire: quanto è dura da accettare questa Misericordia di Dio! Quanto è difficile, questa Misericordia di Dio che ti toglie d’accanto l’amico più caro che hai, che tiene una persona inchiodata per mesi in un letto d’ospedale, che fa mancare all’affetto di tantissimi un padre, un amico, un fratello!

Com’è strana questa Misericordia di Dio! Com’è lontana dai cliché di moda, dalle banalità che spesso si dicono. La Misericordia di Dio ti spoglia, ti mette a nudo, ti scarnifica, ti consuma nell’amore; ti salva facendoti nuovo; facendoti rinascere attraverso un parto doloroso. La Misericordia di Dio spesso ci fa soffrire, lascia che si scarichino su di noi mali, sofferenze e disagi; non ci evita le conseguenze nefaste per noi e per gli altri delle nostre scelte sbagliate. La Misericordia di Dio a volte è dura. Umanamente, sembra persino non conoscere pietà…. Quanto e in quanti abbiamo pregato, implorato, supplicato a lungo e insistentemente Dio per la guarigione del nostro fratello ed amico…

Certo, la Misericordia di Dio sa e vede ciò che noi non sappiamo e non vediamo e da quando si è manifestata sommamente nella croce di Cristo, dobbiamo abbandonarci ad essa con piena fiducia, come un bambino svezzato in braccio a sua madre (Sal 121). Ma le domande restano, eccome. I perché rimangono e assillano il cuore e la mente; i dubbi, gli interrogativi continuano a segnare le profondità dell’anima, a ricordarci la nostra condizione di viandanti e pellegrini, “con bastone e calzari”.

E tu, amico mio, queste cose le sapevi e le sentivi; te le portavi dentro come un tormento tutto interiore e quasi soffocato che dava però spessore di umanità autentica al tuo parlare e al tuo relazionarti con gli altri. Ti faceva un umile cercatore di Dio, accanto agli altri, consapevole della propria oscurità e miseria.

Ed ecco allora Giobbe, di cui si racconta nella prima lettura di stasera, così vicino al tuo sentire. Il grido di Giobbe, lo so, è stato da sempre anche il tuo. Negli ultimi mesi si è fatto più intenso, accorato, appassionato. Il desiderio struggente di Giobbe ti ha accompagnato tutta la vita. Forte e mai appagato pienamente. Sempre reiterato, a partire da una condizione di debolezza e di mancanza, di coscienza delle tue fragilità e peccati, ma proprio per questo ancor più vibrante e profondo.

Questa è del resto la nostra vita sulla terra: nostalgia di Dio; ricerca mai conclusa del suo volto di Padre; desiderio di vedere il Padre e riconoscersi finalmente figli. Figli veri di Dio, eredi del paradiso. E finalmente anche fratelli, perché figli di uno stesso Padre.

Cosa cerca infatti perdutamente il nostro cuore se non Dio e il suo amore? Che cosa cerca il nostro stesso corpo, le fibre tutte del nostro essere? Che cosa cercano i monti e i mari, l’intero universo e ogni uomo che vaga come pecora senza pastore, se non di vedere Dio, di essere da Lui riconosciuto come figlio voluto e amato, se non di sperimentare l’amore fedele che non viene meno e che ci lega in una comunione divina?

E tu, amico mio, nel grigiore dei giorni che acutamente avvertivi, nella banalità delle ore che scorrono dentro la quotidianità, in mezzo alla cronaca delle piccinerie umane come dei drammi più assurdi della stupidità umana, hai cercato il volto di Dio; come a tentoni, come in un antico specchio ma con costanza e fedeltà. Lo hai incontrato in tante situazioni e persone che hai amato e servito con delicatezza e premurosa attenzione, ma sempre di nuovo ti sei ritrovato a cercarlo perché di nuovo perduto, come l’amato del cantico dei cantici. Ora che, ne sono certo, tu vedi come sei visto, dici a noi di non stancarci di cercare, ancora e ancora di nuovo, non nell’astrazione di spiritualismi disincarnati, ma in quel grigio quotidiano fatto però di volti concreti e di gesti d’amore. Quel grigio che nasconde, come una perla nascosta nel campo, la sfolgorante bellezza del Regno di Dio.

E poi, ecco la Gerusalemme del cielo, la città santa, di cui narra il libro dell’Apocalisse. Quanto hai amato e studiato questo libro santo! E come sapevi raccontarlo, spiegarlo, incantandoci nel parlarci del mistero del senso della storia e del destino del mondo che è saldamente nelle mani di Dio. Quanto ti sei soffermato nella tua giovinezza in particolare a meditare sul verbo “vincere”, per scoprire e farci scoprire che la vittoria di Cristo e del Cristiano è sconfitta per il mondo e ciò che invece appare come sconfitta per il mondo è vittoria per Cristo. In questi lunghi quattro mesi d’ospedale l’hai ulteriormente capito, testimoniato e insegnato a tutti noi.

Nella Gerusalemme del cielo hai visto e amato profondamente la Chiesa della terra che hai sognato bella e senza rughe. Così la conoscemmo insieme, nei nostri anni giovanili. La vedevamo, la sognavamo, ma ci pareva già lì, a portata di mano, descritta splendidamente nel Concilio Vaticano II, guidati a sognarla e ad amarla da un grande Vescovo, nostro maestro. Poi abbiamo conosciuto le rughe e le ferite. Le nostre rughe e le nostre ferite. Abbiamo toccato con mano che tra la Gerusalemme celeste e la Chiesa della terra c‘è comunione e identità, ma anche differenza. Hai però continuato ad amarla senza riserve, questa Chiesa, così com’era e ti si presentava, con le sue rughe e le sue miserie, le sue contraddizioni; sempre però sposa di Cristo, da sentire e sognare, nonostante tutto, proprio come sposa splendente di bellezza. Il Signore poi ci ha chiamato ad amarla e a servirla, questa chiesa, in un modo tutto particolare … e insieme alla travolgente grazia che ci ha investito, la fatica si è fatta sentire…. Portarla insieme era un sollievo… Ora, per chi resta, la fatica si fa più pesante… Lo sai, vero, questo? E lo sa, vero, quel Dio di Misericordia che ti ha strappato al nostro contatto?

Alla fine poi tutto torna e le parole di Giovanni ascoltate nel Vangelo provano a dare un senso anche a questa vicenda che ci segna così profondamente e ci fa anche discutere con Dio. Nel pensarti, fratello mio, come un chicco di grano caduto in terra a marcire, per portare frutto abbondante, trova un po’ di conforto il mio dolore, il dolore di tutti noi. In questo, allora, forse riusciamo anche a comprendere l’infinita Misericordia di Dio che è arrivata a noi attraverso di te. Quello che abbiamo ricevuto è tanto, quello che ci è stato donato è molto. E’ come un seme depositato nei nostri cuori. Un seme che ha prodotto e produrrà ancora bene su bene. Già la tua morte lo rende evidente.

In particolare questa nostra chiesa di Pistoia, lascia che lo dica pubblicamente stasera, deve veramente ringraziare Dio di averti avuto come suo Pastore e Padre. Oggi ti abbraccia con un abbraccio che forse non sempre è riuscita ad esprimerti esteriormente, ma che ora però sai che sempre ha espresso nel cuore. Questa sera – senza titubanze – ti abbraccia con tutta se stessa. E’ la chiesa che hai servito ed amato, per quale hai anche sofferto come nelle doglie del parto; per la quale in questi mesi hai dato la tua vita e che in quest’ora suprema ti è stata vicina, riconoscendoti suo angelo, vescovo saggio e fedele, sua corona e sua gloria. Questa Chiesa, fatta di peccatori ma santa, prega per te, ti accompagna alle porte del cielo e non ti dimenticherà. Come tutti, anche tu hai bisogno delle nostre preghiere e la Chiesa, madre sapiente, chiede misericordia per ogni defunto. Ma oggi, questa chiesa di Pistoia, anche impara da te a farsi umile chicco di grano che scompare nella terra per essere a servizio amoroso di chi attende il Vangelo; impara da te la strada della missione che è vita donata per il Signore nel servizio dei fratelli, fino all’effusione del sangue. Questa tua chiesa oggi ti dice grazie con tutto il cuore e per te, per quello che tu sei stato per lei, canta la sua riconoscenza a Dio onnipotente e misericordioso.

E a me, che ho avuto la grazia della tua amicizia e la gioia di vedere il bene che hai seminato in questa terra ma che in questo momento sento amarissimo il peso del distacco, continua, te ne prego, ad essere vicino come sempre hai fatto.

+ Fausto Tardelli, vescovo




Solennità di San Jacopo Apostolo Patrono della Città e della Diocesi (25 luglio 2016)

Solennità di San Jacopo Apostolo
Patrono della città e della Diocesi di Pistoia

Fratelli nel sacerdozio, diaconi, religiose e religiosi, Signor Sindaco, signor Prefetto, autorità tutte civili e militari della città, rappresentanti dei rioni e della giostra, fedeli, uomini e donne qui presenti per onorare il nostro Santo Patrono: un caro e affettuoso saluto a tutti voi.

E’ la prima volta che mi trovo a presiedere la solenne Eucaristia nella festa di San Jacopo e lo faccio molto volentieri perché questa è una festa che ormai sento mia. Da un anno e mezzo sono da voi, tra voi e con voi. E’ obiettivamente poco tempo ma a me sembra di essere qui da sempre e anche se ho ancora da capire tante cose di questa città, avverto sinceramente di essere a casa e che la mia vita è coinvolta pienamente con la vostra. Ne ringrazio davvero il Signore ma il mio grazie va anche a tutti voi che vi siete fatti vicini a me con grande rispetto, attenzione, comprensione e, mi è parso, anche con molto affetto.

In questo momento così solenne non posso non ricordare chi in questa sede mi ha preceduto e ora sta attraversando tempi molto difficili in un letto d’ospedale: Mons. Mansueto Bianchi. Un grande Vescovo che ha lasciato una traccia profonda di bene in questa diocesi pur nei pochi anni della sua permanenza. L’amicizia personale che mi lega a lui mi procura oggi un acuto dolore. Lo raccomandiamo di cuore alla intercessione del nostro Santo Patrono.

Lasciate infine che rivolga un pensiero pieno di affetto e di orgoglio al bel gruppo di giovani della diocesi di Pistoia che sono a Cracovia per la giornata mondiale della gioventù: sono circa 230, accompagnati da diversi sacerdoti. Domani li raggiungerò anch’io per vivere insieme con loro e con Papa Francesco un grande momento di gioia e di impegno. “Misericordiosi come il Padre”, questo è il motto dell’anno santo che stiamo celebrando; “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) è il motto evangelico della giornata mondiale della gioventù. In tempi di crisi e di paure come i nostri, quando la violenza sembra traboccare da ogni dove, quella moltitudine di giovani che si va riunendo a Cracovia da ogni parte del mondo è un chiaro segno di speranza per l’oggi e il domani.

1.
Carissimi, Gesù ci ha detto nel vangelo: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così…… Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Quanto è vero ciò che Gesù ci dice! E’ proprio così tante volte nelle nazioni del mondo. Lo vediamo sbigottiti anche in questi giorni. Spesso chi ha il potere lo usa per schiacciare gli altri, per sottometterli, per affermare se stesso o per fare i propri interessi. Le democrazie dovrebbero essere immuni da tutto questo, perché il criterio fondamentale che le muove è il servizio al popolo. Nei fatti però non è così e il malaffare, la corruzione e l’ingiustizia sociale segnano anche le nostre società democratiche.

Non è esente dal pericolo la stessa Chiesa. Non per niente Gesù con le sue parole si rivolge direttamente agli apostoli, perché erano stati proprio Jacopo insieme a suo fratello Giovanni, a cercare tramite la madre, di avere posti di onore che contano. La sete di potere e di denaro, il gusto del prevalere sugli altri cercando il proprio tornaconto e la compiacenza dell’essere serviti e riveriti, son cose che toccano anche gli uomini di chiesa e, costoro, a cominciare da me, ne debbono essere ben consapevoli.
Ecco perché San Paolo nella seconda lettera ai Corinti dice che l’apostolo porta un tesoro inestimabile, che è la parola di Dio e la sua Grazia, in vasi di argilla, che rappresentano invece la debolezza e la fragilità della nostra umanità. Non lo dice però per giustificarsi. Lo dice perché si capisca che tutti dobbiamo convertirci. Tutti, uomini di chiesa e laici, credenti e non credenti, dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti, ma proprio per questo sentirci, tutti, bisognosi di miglioramento, mettendo in seria verifica i nostri comportamenti e prima ancora la nostra mentalità e cultura, perché rispondano a un solo criterio, quello cioè del servizio, del bene comune, del bene dell’umanità.

2.
La testimonianza di san Jacopo che, come abbiamo sentito nel libro degli Atti, ha dato la vita per Cristo, ci richiama inoltre ad un’altra cosa: alla consapevolezza cioè di dover affrontare pure noi, per essere anche soltanto uomini degni di questo nome e ancor più cristiani, quei rischi e pericoli che si incontrano inevitabilmente se si vuol perseguire giustizia e pace. E’ una fatica da assumersi, certi che porterà frutto. Ecco perché, sempre San Paolo dice di sé e di ogni apostolo: “siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati: colpiti, ma non uccisi…”. Oggi più che mai, attraversati da correnti di morte, potremmo essere sopraffatti dal terrore o dal desiderio di rinchiuderci in noi stessi, cercando disperatamente di mettere al sicuro la nostra persona. Dobbiamo invece reagire, accettando il rischio. Non si tratta di essere eroi né super eroi. Si tratta di essere semplicemente uomini coscienziosi e, se credenti in Gesù Cristo, fiduciosi nel suo amore. Uomini che fanno il proprio dovere quotidiano dovunque si trovino. Che si sforzano di operare ogni giorno secondo verità e giustizia, e sono disposti a prendere ogni giorno la propria croce e portala fino in fondo. Con umiltà e determinazione insieme.

3.
La festa dell’apostolo Jacopo non può non condurci infine, carissimi fratelli ed amici, a riflettere sulla città, sul significato di questa nostra città che custodisce da secoli una reliquia del santo e che torna ogni anno a far festa per questo, consapevolmente o meno che sia. Vorrei che non sfuggisse il carattere identitario di questa festa per Pistoia. Aldilà di tutto e nonostante tutto, la festa di San Jacopo nei secoli ha comunque unito e unisce la città. Attorno al Santo e alla sua memoria si ritrova, se vogliamo un faticoso ma vero motivo di unità e di comune identità.
Ma perché, mi sono domandato, San Jacopo e il suo culto hanno così a lungo e significativamente attirato l’attenzione dei pistoiesi? Ho provato a rispondere e azzardo un’interpretazione che vede nella figura di San Jacopo, l’intrecciarsi inscindibile di tre elementi che a ben pensare forniscono anche la traccia di una cultura pistoiese da riconoscere, valorizzare e coltivare.

Questi tre elementi sono prima di tutto il bisogno di una difesa, di un difensore. Così è inteso San Jacopo fin dalla scoperta del suo corpo nel campo della stella in Galizia. I pistoiesi hanno sempre sentito la fragilità della propria condizione e il rischio, il pericolo, dello sgretolamento e del disfacimento. Hanno sempre sofferto di una insicurezza di fondo. Questo li spinse a cercare rifugio in San Jacopo. Allora, prima del mille, di fronte alla reale minaccia dei violenti predoni saraceni; al tempo di Sant’Atto per il rischio di una deflagrazione sociale che avrebbe impedito lo sviluppo del libero comune. E così via nei secoli.
Oggi, la minaccia non è scomparsa, ma è presente sotto la forma del possibile sfaldamento della società e quindi del significato stesso della civitas; sotto la forma della barbarie sempre più diffusa e capillare; sotto la forma dell’individualismo e dell’indifferenza, come dell’egoismo degli interessi di parte. Per cui, anche oggi, occorre sempre una vigilante difesa e resistenza per contrastare il male che è dentro e fuori di noi e che sempre rinasce come la gramigna. Questo ci dice innanzitutto il culto di San Jacopo.

Il secondo elemento che ritroviamo nel culto Jacobeo è il pellegrinaggio. I segni del pellegrino e del viandante caratterizzano San Jacopo, con evidente trasposizione fantastica sulla figura del santo, dell’esperienza della moltitudine dei pellegrini e viandanti – migranti anzitempo – che attraversavano le strade medievali per penitenza, miseria, in cerca di riscatto, per trovare rifugio e fortuna, per scambiare conoscenze e esperienze. I Pistoiesi hanno colto in questo “pellegrinare”, la cifra del cammino dell’uomo sulla terra. Si sono riconosciuti essi stessi pellegrini e viandanti, sempre in marcia, mai arrivati, mai paghi del già raggiunto, sempre consapevoli di doversi mettere nuovamente in cammino per cercare, trovare e cercare ancora. Anche in questo caso, si viene così a indicare un tratto di questa città e forse una sua vocazione: quella dell’essere una città di frontiera, snodo di vie, porta che congiunge il sud e il nord, la montagna e la pianura; una città in cammino, non per niente cantiere di treni. Ma il “pellegrinare” è anche percezione di un limite, della relatività cioè di ogni cosa e spinge a guardare avanti con realismo e concretezza. Non è immobilismo e mancanza di intraprendenza, quella di Pistoia: solo all’apparenza. In realtà è consapevolezza che il cammino della vita è pellegrinaggio, è strada che si fa con fatica, passo dopo passo, sapendo risparmiare energie per i passi del giorno dopo.

Il terzo elemento che si ritrova nel culto Jacobeo e delinea direi in modo marcato la fisionomia pistoiese, è l’intuizione della necessità del farsi fratello accanto al fratello bisognoso. Strettamente congiunta all’esperienza del pellegrinare infatti è la coscienza che il pellegrino ha bisogno degli altri; che il cammino della vita ha bisogno di ristoro e accoglienza, di premura e vicinanza. Ecco il perché della mirabile pratica attestata fin dall’antico, dell’accoglienza dei viandanti e dei pellegrini, della cura delle ferite di chi sta male; pratica nella quale si innesta la gloriosa tradizione degli ospedali pistoiesi, del Ceppo in particolare, come di tutte altre opere di carità fiorite nel tempo. Caratteristica di questa città quanto mai attuale e necessaria. Tratto distintivo della sua cultura, tanto più significativo, quanto tenacemente affermato nei secoli, nonostante e forse proprio per questo, a contrasto con l’inclinazione al litigio, alla faziosità e agli odi di parte. Anche in questo caso, Pistoia finisce per offrire una traccia importante e interessante per le vicende attuali del mondo. Dove non sempre è possibile far tacere le contese e le lotte, sempre può esser possibile inventare gesti di solidarietà e fraternità, curando le ferite che le stesse mani hanno procurato. Vincendo cioè il male col bene. Che è forse l’unica cura veramente efficace per le nostre società malate.

Carissimi tutti. Un Santo non è patrono per caso di una città. Egli è il santo per quella città e per quel territorio. La sua vita, la sua testimonianza, il suo culto, parlano alla città di cui egli è patrono. Così San Jacopo alla città di Pistoia. Cerchiamo di essere attenti al suo messaggio e di farne tesoro. Esso contiene il segreto dello sviluppo armonico e pacifico di questa città. San Jacopo dal cielo, nella gloria dei Santi, ci guarda con paterna amicizia, intercede per noi e ci è a fianco nell’affrontare i problemi di ogni giorno e anche per far si che Pistoia abbia il suo ruolo nel mondo, a vantaggio dell’umanità intera.
Con questi sentimenti, auguro davvero una buona festa a tutti quanti voi.

25 luglio 2016

+ Fausto Tardelli, Vescovo




Solennità dei SS. Pietro e Paolo (29 giugno 2016)

Omelia per la Solennità dei Santi Pietro e Paolo

29 giugno 2016

(foto di Ilaria Giusti)

È tempo di anniversari sacerdotali. Anch’io, insieme a tanti presbiteri ricordo la mia Ordinazione avvenuta il 29 giugno. Vorrei però iniziare l’omelia ricordando un anniversario speciale, il 65° di Sacerdozio del Papa emerito Benedetto, celebrato proprio ieri solennemente in Vaticano. Abbiamo tutti davanti agli occhi il bellissimo abbraccio con Papa Francesco. Questi che rivolgendosi a Benedetto, gli dice – cito letteralmente- “Lei santità continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita… da lei proviene una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una umanità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me e a tutta la Chiesa”; dall’altra, Papa Benedetto che dice a Papa Francesco, cito ancora letteralmente: “La sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, più che i giardini vaticani, con la loro bellezza, la sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto.” “E speriamo che lei potrà andare avanti con noi tutti con questa via della Misericordia divina, mostrando la strada di Gesù, a Gesù, a Dio”.

Siccome io credo alla sincerità di questi due uomini, le loro parole e il loro abbraccio sconfiggono in un sol colpo – e speriamo definitivamente, perché non ne possiamo più – chi vuol vedere in Francesco uno che rompe col passato e in Benedetto, la bandiera del tradizionalismo. I due – se lo metta bene in testa chiunque, da destra e da sinistra per così dire – sono in profonda continuità, in quella continuità che è propria della Chiesa la quale è un organismo vivente che procede per sviluppo organico, mai per tesi e antitesi. Francesco è il Papa regnante e legittimo, Benedetto è Papa emerito. Finiamola qui e smettiamola di interpretare questi due uomini di Dio, tirandoli per la giacchetta, secondo i nostri gusti e le nostre idee preconcette!

Venendo alle letture della Messa di questa sera, vorrei soffermarmi innanzitutto sul libro degli atti, sul brano della prima lettura, verso la fine, dove si dice che Pietro non si rendeva conto di quello che stava succedendo. L’angelo lo stava portando fuori dalla prigione ma lui non se ne rendeva conto.

Come Pietro, anche noi abbiamo cominciato a seguire il Signore tanti anni fa, senza forse rendersi ben conto di quello che era successo con la nostra Ordinazione sacerdotale. Forse non ci rese ben conto della realtà; in certa misura fu come un sogno. Poi piano piano, attraverso le vicende della vita; anche attraverso sconfitte e ferite, ci siamo accorti che ciò che era accaduto quel giorno era davvero realtà; che il Signore ci aveva presi per davvero, ci aveva fatto suoi. Ci siamo accorti che la nostra vita era ormai indelebilmente segnata. Soprattutto ci siamo resi conto che non eravamo affatto degni di essere suoi, che ciò che ci era capitato era assolutamente, infinitamente più grande delle nostre possibilità: un mistero d’amore assoluto che affonda le sue motivazioni solo nella totale libertà della volontà di Dio che ci ha chiamati e ci ha scelto e ci ha fatto suoi – capaci di essere Lui nel mondo, presso i nostri fratelli e le nostre sorelle.

Oggi allora, dopo tanti anni, ci accade un po’ come a Pietro, il quale, dice il testo degli Atti, “rientrato in sé disse: ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalle mani di Erode”. Anche noi, oggi, insieme a Pietro non possiamo non riconoscere che la nostra consacrazione sacerdotale è stata per noi la via che il Signore ha scelto per liberarci dal male, per convertirci, per salvarci e portarci fuori dalla prigione del nostro egoismo.

Stavo pensando proprio a questo quando qualche giorno fa ero accanto al Vescovo Mansueto in ospedale, e vedevo la povertà e la debolezza di un uomo, di un cristiano, un sacerdote e vescovo, ridotto all’essenziale, bisognoso di tutto. Forse però ora più che mai capace di testimoniare l’amore del Signore, la fede nel Risorto, partecipando in pieno al mistero della sua croce. Ripenso così al giorno della nostra Ordinazione sacerdotale, 42 anni fa come oggi, allora era sabato e a quando il giorno dopo celebravamo la nostra Messa Novella, con le letture – le ho ancora bene in mente – della domenica scorsa, la XIII dell’anno C: “Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. “Seguimi, anche se il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Ripensavo a tutte queste cose e constatavo che l’esercizio pieno del ministero sacerdotale ed episcopale si identifica con la nostra personale purificazione, la nostra conversione, la vicenda della nostra personale santificazione. Quanto più cerchiamo di esercitare al meglio il nostro ministero, tanto più il Signore ci libera, ci purifica e ci santifica, mentre, tanto più ci lasciamo afferrare dall’amore del Signore, tanto più esercitiamo al meglio il nostro ministero. Questa è la verità!

E qui sta il motivo per cui il ministero sacerdotale non è mai una funzione, semplicemente un servizio che si possa compiere da impiegati: a ore, stipendiati e senza coinvolgimento personale. Tutt’altro.

Ed eccoci così alla II° lettura, dalla II° lettera di Paolo a Timoteo. La consapevolezza di Paolo dovrebbe essere la nostra –  sia di noi che siamo ormai abbastanza avanti negli anni, sia di chi è più giovane. Le parole di Paolo, è vero, sono una specie di testamento, quello che dovremmo poter scrivere al termine della nostra esistenza terrena: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Ma queste stesse parole vanno bene in certa misura per tutti, perché ogni giorno il presbitero si deve sentire “in battaglia”, “in corsa” e impegnato a “conservare la fede”. Soprattutto – come dice ancora San Paolo – impegnato, con la forza del Signore, a “portare a compimento l’annuncio del Vangelo perché tutte le genti lo accettino”.

E su questa ultima affermazione di Paolo, mi soffermo un attimo, perché sia sempre chiaro qual è il nostro compito: cioè “annunciare il vangelo”, “annunciare il Vangelo del Regno”. Dove la “buona notizia” del Regno, il “vangelo”, il “Regno” non è altri che Lui, Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, morto e risorto per noi. Il nostro compito dunque non è semplicemente quello di occuparci dei più diversi problemi degli uomini. Non è neppure principalmente quello di lavorare per una società più giusta o di salvare la terra. Il nostro compito principale è quello di annunciare Gesù Cristo, Salvatore; di farlo conoscere e aiutare gli uomini e le donne del nostro tempo a incontrarlo e a capire che con Lui, via verità e vita, con la sua morte e risurrezione, l’umanità e il mondo si trasformano. Il nostro compito è questo, perché più persone possibile si convertano a Lui, facciano posto a Lui dentro di sé e quindi inizino una vita nuova nella verità, nella giustizia e nell’amore. Certamente tutti gli ambiti di esperienza umana, ogni dimensione personale e sociale del vivere è coinvolta dall’annuncio del Vangelo, perché il Signore Gesù è venuto a salvare tutto l’uomo e a inaugurare un mondo nuovo fatto di fratelli e sorelle che si amano. Ma l’essenziale è che il nome santo e benedetto di Gesù risuoni sulle nostre labbra, sia vivo dentro di noi e traspaia dalle nostre azioni, in modo che gli uomini e le donne, attraverso il nostro ministero, non si incontrino con una ideologia, con un progetto sociale o politico, con una filosofia o con un programma pastorale ma con il Signore Gesù vivo e vero. Lui che ha detto: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt 11, 28).

Nel brano evangelico infine, ecco ancora il beato Pietro. Lo sappiamo bene che Pietro non fu un uomo perfetto. Conosciamo molto bene il suo triplice rinnegamento. Abbiamo chiari in mente i rimproveri di Gesù che addirittura lo chiama Satana! “Vai dietro a me Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16,23). Sappiamo anche della sua debolezza – addirittura dopo la risurrezione di Gesù e la Pentecoste – nella questione della circoncisione ad Antiochia, per cui fu rimproverato apertamente da Paolo. Eppure, a quest’uomo qui – potremmo dire così chiaramente inaffidabile – il Signore Gesù affida la sua comunità. Quest’uomo, il Signore lo pone a fondamento visibile della sua chiesa, dandogli il potere di legare e di sciogliere. Una scelta più azzardata sembrerebbe non poterci essere. È ciò che i nemici della chiesa di oggi e di domani, interni ed esterni, non hanno mai capito e mai capiranno. È ciò che manda in confusione il demonio. Non c’è logica apparente. Non c’è ragionevolezza! I nemici della chiesa si affannano a mettere in mostra tutti i difetti, i peccati, tutti i tradimenti della Chiesa – e non ci vuol poi davvero molto!… La conclusione che si aspetterebbero è che una “barca” così sgangherata non possa che affondare presto e anzi, che Dio stesso, stanco di tutte queste infedeltà, la eliminasse finalmente dalla storia.

E invece no! La Chiesa è sempre viva. Ed è un popolo molto più numeroso che nei secoli passati. E ci sarà sempre, fino alla fine dei tempi. Il Signore Gesù sceglie Pietro come fondamento; continua a scegliere la chiesa e a considerarla sua sposa amata; continua ad affidarle il compito di essere Lui nella storia e nel mondo. Il Signore Gesù ha scelto noi e continua a sceglierci come suoi strumenti e mezzi di santificazione per gli altri.

Il Signore che pure sa tutto di noi. Conosce tutti i nostri peccati, anche quelli più segreti in fondo al cuore. Tutte le nostre debolezze e i nostri tradimenti. E ciononostante continua a dirci e a confermarci che ha bisogno di noi per salvare gli uomini. È Lui la salvezza, non noi e la coscienza dei nostri peccati questo ce lo rende evidente. Ma ha voluto e vuole aver bisogno di noi per arrivare a ogni uomo.

Certo, di fronte al mistero di questa sua volontà, non possiamo “giocare alla meno”. Come dire, approfittarci, tanto lui rimedia alle nostre malefatte… Direi anzi piuttosto, no, assolutamente. Guai a noi! Guai a noi se approfittassimo della sua Misericordia! La sua libertà di scelta ci costringe piuttosto a impegnarci di più, a mettercela tutta, a non lasciare niente d’intentato per essere veramente uomini di Dio. Il ricordo anniversario della nostra Ordinazione presbiterale è per questo anche occasione per rinnovare l’impegno, le promesse fatte, rinverdendo il dono che ci è stato fatto. Con uno sforzo speciale per camminare insieme.

Anche Pietro, alla fine ce la fece!

Anche Paolo, alla fine ce la fece!

Attraverso la loro potente intercessione, anche noi vogliamo pensare che alla fine, o con le buone o con le cattive, riusciremo a capire e a dare buona testimonianza a Colui che, a suo insindacabile giudizio, ci ha scelto e continua a sceglierci e al quale non possiamo che dire, stasera e sempre: grazie!

+ Fausto Tardelli, vescovo




Solennità del Sacro Cuore di Gesù (3 giugno 2016)

SACRO CUORE DI GESU’

Chiesa di San Paolo – Pistoia 3 giugno 2016

 

La festa del Sacro Cuore di Gesù ci parla dell’infinito amore di Dio per noi, sue creature. L’immagine del Buon Pastore evocata nella prima lettura e nel Vangelo, dove il Pastore va in cerca della pecora che si era perduta, ci fa pensare alla tenerezza e alla forza della misericordia di Dio. E come ci ha ricordato San Paolo, Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

1.

Non so se ce ne rendiamo conto per davvero, di questo amore che è senza limiti. Dio è misericordioso, ma questa cosa, a son di ripeterla, potrebbe diventare un’abitudine, e alla fine, potrebbe non dirci più niente. E’ necessario perciò che ci fermiamo, rientrando in noi stessi, come stasera vogliamo fare e metterci di fronte alla infinita Misericordia di Dio per ciascuno di noi. Questo amore è per noi e per tutta l’umanità, quella di oggi, di ieri e di domani.

La Misericordia di Dio bussa con insistenza alla porta del nostro cuore, alla porta del cuore di ogni uomo. Bussa sempre e non si stanca di bussare. Sono battiti d’amore, sono i battiti di un cuore che ci ama e vuole il nostro bene, la nostra felicità, che vuole per noi la pienezza della vita, la comunione piena nella vita stessa di Dio. Alla porta del nostro cuore bussa Dio con il cuore di Gesù Cristo e desidera darci tutto di sé. Questo infatti è il fine della Misericordia di Dio. Non certo di darci ricchezze e beni di questa terra, non di farci felici in terra ma neppure semplicemente di realizzare una società più giusta e pacifica. Questa ultima cosa è importante ed è nel pensiero di Dio. E’ senz’altro oggetto del suo amore misericordioso. Non basta però. La Misericordia di Dio ci vuole far partecipi della vita divina, della comunione perfetta con lui, ci vuole trasfigurare totalmente nell’amore e ci vuole portare in paradiso, appunto nella pienezza della luce e della gloria. Cosa varrebbe infatti all’uomo conquistare il mondo intero se poi perdesse l’anima sua?

Allora stasera fermiamoci a contemplare la Misericordia di Dio per noi. Osserviamo ciò che avviene sull’altare, dove il pane e il vino vengono trasformati nel corpo e sangue del salvatore dati per noi. Per me Dio ha creato il cielo e la terra; per me ha creato la Vergine Maria per dare se stesso a noi; per noi si è fatto uomo condividendo tutto di noi. Come diremo tra poco nel prefazio: “Il Figlio di Dio innalzato sulla croce, nel suo amore senza limiti donò la vita per noi, e dalla ferita del suo sangue effuse sangue ed acqua, simbolo dei sacramenti dellka Chiesa, perché tutti gli uomini, attirati al Cuore del salvatore, attingessero con gioia alla fonte suprema della salvezza”.

Carissimi fratelli e solle, contempliamo, lodiamo e ringraziamo perché la Misericordia dio Dio bussa alla porta del nostro cuore e ci offre la fonte della vita.

2.

Se tutto questo è vero, fratelli e sorelle, è pur vero però anche che la Misericordia di Dio piange. Si piange, perché spesso l’amore non è amato. Gli uomini sono sordi e non vogliono aprire la porta del loro cuore. Non odono il battito del cuore del Salvatore. Questa è una triste realtà, tanto evidente, quanto è evidente la situazione drammatica in cui versa il mondo e lo scempio che vediamo ogni giorno consumarsi in terra, in mare e in cielo. E a poco valgono, lasciatemelo dire, gli appelli a essere più giusti e più buoni, il richiamo ai doveri di solidarietà e di fraternità. A poco davvero valgono i lamenti contro le guerre e le ingiustizie; a poco vale la ripresentazione continua dei doveri imprescindibili di chi voglia ancora dirsi uomo; a poco valgono gli inviti all’impegno sociale o caritativo… Non parole servono ma conversione! Tutto vale ben poco se non si apre il cuore alla Misericordia di Dio, se non si riconosce il nostro peccato e non ci si riconcilia con Dio, aprendo le porte di ciascuno di ciascuno di noi all’amore di Dio. Il male è dentro di noi, non fuori. La questione veramente seria del mondo è che spesso gli uomini si ritengono a posto e non bisognosi della misericordia di Dio. Il fatto è che spesso gli uomini non sanno che farsene della misericordia di Dio. E’ l’ultima cosa a cui pensano, l’ultima cosa che desiderano. Nei cuori c’è l’indifferenza nei confronti di Dio e questa diventa subito indifferenza nei confronti del prossimo.

In una pagina del diario di Santa Faustina Kowalska, l’apostola della divina misericordia, si legge questo affranto lamento del Signore Gesù: “Il mio cuore è stracolmo di tanta Misericordia per le anime e soprattutto per i poveri peccatori. Oh! Se riuscissero a capire che il sono per loro il migliore dei Padri; che per loro è scaturito dal mio cuore sangue e acqua, come da una sorgente strapiena di Misericordia; che per loro dimoro nel tabernacolo e come Re di Misericordia desidero colmare le anime di grazie, ma non vogliono accettarle. Oh! Quanto è grande l’indifferenza delle anime per tanta bontà, per tante prove d’amore! Il mio cuore è ripagato solo con ingratitudine e trascuratezza da parte delle anime che vivono nel mondo. Hanno tempo per ogni cosa; per venire da Me a prendere le grazie non hanno tempo”.

3.

Se questa è la realtà, purtroppo, ecco che si fa urgente che diventiamo tutti noi, apostoli della divina misericordia. La Misericordia di Dio ci chiama a questo.

Ci chiama innanzitutto a fare noi per primi l’esperienza della Misericordia. Ci offre la possibilità di rinascere ogni giorno a vita nuova, in un cammino permanente di conversione dalla tristezza della malattia, alla gioia di chi è risanato. Solo sperimentando concretamente questa cosa nella nostra vita potremo essere davvero “misericordiosi”. Innanzitutto dunque siamo chiamati a fare esperienza personale della Misericordia di Dio e del perdono che guarisce la nostra vita di peccatori. Nello stesso tempo, il Signore ci chiama ad essere apostoli della divina Misericordia. Come chiamò suor Faustina, così possiamo dire chiama anche noi.

Riascoltiamo ancora un bel passo del diario dove Gesù parla e dice: “Oh se i peccatori conoscessero la mia Misericordia, non ne perirebbe un così gran numero! Dì alle anime peccatrici che non abbiano paura di avvicinarsi a me; parla loro della mia grande Misericordia. La perdita di un’anima m’immerge in una tristezza mortale. Mi consoli sempre – Gesù rivolto a suor Faustina  – quando preghi per i peccatori. La preghiera che mi è più gradita è la preghiera per la conversione dei peccatori. Sappi, figlia mia, che questa preghiera viene sempre esaudita”.

Che aspettiamo dunque fratelli e sorelle? La Misericordia di Dio bussa alla porta del nostro cuore, la Misericordia di Dio piange per ostinazione nostra e del mondo, la Misericordia di Dio ci chiama a testimoniarla. Diamoci da fare dunque, con la vita e con la preghiera assidua e fervorosa, diventando anche noi come suor Faustina, apostoli della divina Misericordia.




Omelia per la Festa di San Domenico (24 maggio 2016)

FESTA DI SAN DOMENICO

Chiesa di San Domenico – Pistoia 24 maggio 2016

 

Il ricordo di San Domenico ci vede qui riuniti stasera, in questa chiesa pistoiese a lui dedicata, nell’occasione anche degli ottocento anni di vita dell’Ordine. Pistoia deve molto ai figli di San Domenico. L’opera del Beato Vescovo Andrea Franchi (1335 – 26 maggio 1401) rimane un momento importante nella storia della chiesa pistoiese, per la predicazione fervente, per l’attenzione ai poveri, per la costante opera di pacificazione nella città. Oltre a lui, molti altri sono i testimoni di fede domenicani – uomini e donne – che hanno lasciato traccia in questa nostra terra. Fino ad arrivare ai nostri giorni e ho in mente in particolare la figura di Mons. Paolo Andreotti (1921 – 1995), vescovo missionario in Pakistan, scomparso in tempi ancora recenti.

Vien da dire davvero con il profeta Isaia: “Come sono belli i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza in Sion!”. Si, perché così può ben essere definito San Domenico e chi lo ha seguito e lo segue: un messaggero che annuncia la pace, un messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza.

Il brano della prima lettura, tratto dal Deuteroisaia, parla di consolazione e di speranza. E’ un invito a Sion, la città santa, immagine del mondo intero che ha bisogno di questo messaggio di consolazione e speranza, viste le condizioni in cui versa. Il motivo della consolazione è il ritorno del Signore in Sion. Nei versetti che precedono la pericope liturgica, Sion, personificata nella figura di una nobile signora, caduta nella polvere, con gli abiti sporchi, è invitata a rialzarsi e a rivestirsi delle vesti più splendide perché viene il Signore. E l’annuncio, il vangelo, di questo ritorno del Signore è portato da un messaggero che corre verso Gerusalemme attraverso i monti. Le sentinelle della città lo avvistano, e alzano la voce, gridano di esultanza. Ecco prorompere la gioia che da speranza a una città che è in rovina, che ha bisogno di riscatto e salvezza. Il Signore viene a salvare il suo popolo ma questa salvezza è per tutti i popoli, tutti i popoli sperimenteranno la salvezza del Signore. Canto profetico, questo di Isaia, che apre direttamente alla scena della venuta del Salvatore in terra di Giuda, a quella Buona notizia che è il Signore Gesù.

I “messaggeri di buone notizie”, cioè di vangelo – i settanta traducono il mebassèr ebraico con una forma del verbo evangelizzo (εuαγγελιζομένοS) – per San Paolo (in Rm 10,15) sono gli apostoli, annunciatori del messaggio della redenzione operata da Cristo. Gli apostoli e i loro successori, come ci fa intendere proprio Paolo scrivendo a Timoteo nel brano ascoltato. Estensivamente possiamo pensare però a tutti i battezzati che condividono la gioia dell’annuncio del Vangelo. Ce lo ha recentemente ricordato Papa Francesco nella Evangelii gaudium. Una missione nella quale i figli di San Domenico si sono sempre distinti: “santa greggia” dice Dante, che “Domenico mena per cammino”, alla cui scuola però, come avverte ancora il sommo poeta, “ben s’impingua se non si vaneggia”.

Il brano della II a Timoteo costituisce quasi il testamento spirituale di Paolo. Il tono è accorato, possiamo anche dire preoccupato. Timoteo deve sentirsi responsabile dell’annuncio della Parola. Di qui l’insistenza ad assumersi un impegno a tutto campo che l’incalzare dei verbi sottolinea: annuncia, insisti, cerca di convincere, rimprovera, esorta. Il messaggero, l’evangelista o, come nella traduzione liturgica attuale – l’annunciatore del vangelo – è portatore di una Buona notizia che è salvezza: la Misericordia prorompente di Dio rivelatasi nella morte e resurrezione di Cristo. Non è però dato affatto per scontato che gli uomini, tutti gli uomini, questa buona notizia la vogliano accogliere e, prima ancora, la considerino davvero “buona”. Con sottile ironia infatti Paolo descrive una situazione che sembra una profezia dei nostri tempi: pur non sopportando più la sana dottrina, gli uomini non rinunceranno a farsi erudire, non da uno solo, ma addirittura da una folla di falsi maestri che accarezzano le loro orecchie e propineranno loro favole, invece della verità.

Il “messaggero di pace e di salvezza” in ogni caso non si può e non si deve arrendere. Paolo porta ad esempio se stesso. Già intuisce quale sarà la sua fine; ciononostante ha il cuore pieno di gioia nella consapevolezza di aver fatto del suo meglio per adempiere al mandato che gli era stato affidato. Quelli di Paolo dovrebbero essere i sentimenti di ogni buon domenicano, certamente, ma anche di tutti noi, chiamati dal Signore a essere testimoni del suo Vangelo in questo nostro tempo; dentro questa umanità contraddittoria ma al tempo stesso amata infinitamente da Dio.

Il brano di Matteo è la conclusione del suo vangelo. Una sua narrazione esclusiva, anche se ci sono dei parallelismi con gli altri evangelisti. Qui però siamo in Galilea. La Galilea delle genti, regione di frontiera aperta al mondo dei pagani, dei non circoncisi. Questa cristofania apostolica, sul monte, in Galilea, orienta decisamente alla missione universale. L’atto dell’adorazione precede la missione, anche se è un’adorazione sempre minacciata dal dubbio. Qualcosa dunque che si deve rinnovare ogni giorno. Ogni giorno l’inviato deve incontrare il Signore risorto e fare esperienza di Lui. Da questo incontro nasce la missione. Come non ricordare qui il ben noto motto domenicano, così sapiente e vero: “contemplata aliis tradere”? E la missione, in questa finale matteana è connotata da una indiscutibile dimensione ecclesiale. Potremmo dire, si, la chiesa è al servizio del Regno, ma non si può entrare nel Regno se non appartenendo ad essa. La missione quindi, secondo Matteo, che non conosce limiti di spazio e di genti, è per tutti; che non conosce limiti di tempo, è sino alla fine dei tempi, ha come scopo specifico quello di far discepoli, portando gli uomini all’adesione di fede alla persona del Cristo, attraverso il battesimo quale sigillo interno e segno esterno di appartenenza alla chiesa. Un’adesione che è inseparabile dall’osservanza dei precetti evangelici: “insegnando ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato”.

Compito certo arduo, quello che ci è affidato, considerando anche la nostra debolezza e il nostro peccato. Ma la chiusa del Vangelo di stasera ci deve dare coraggio. “Ecco” – dice il Signore – “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.

 




Diritti civili e Vangelo. La riflessione del Vescovo tra ragione, magistero e segni dei tempi

Pubblichiamo di seguito una riflessione del vescovo Tardelli sul tema delle unioni civili e altre questioni etiche di attualità.

“Desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza.” (Amoris laetitia n. 250) … “Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso». (Amoris laetitia n. 251).

Con queste chiare parole di Papa Francesco nella Esortazione apostolica post sinodale “Amoris laetitia” che egli ha voluto donare alla chiesa e al mondo, è riassunto in modo splendido il pensiero dei cattolici riguardo alle cosiddette “unioni civili” e al rispetto sempre e dovunque dovuto alle persone.

  1. QUALI DIRITTI?

La lotta per veder riconosciuti i diritti civili è certamente sacrosanta e ci deve vedere tutti uniti. Si tratta indubbiamente di una battaglia di civiltà. Quali sono però questi diritti? Bisogna pur domandarselo. Non credo si possano considerare diritti semplicemente i desideri degli individui. Confondere desideri e diritti
ha conseguenze deleterie per la società. Quando ciò accade, si costruisce un mondo piegato all’individualismo.

Di quali diritti civili si parla? Del diritto di chiamare matrimonio ciò che matrimonio non è? Del diritto di appropriarsi di un nome per piegarlo ai propri desideri? È forse diritto civile affittare un utero? È diritto civile pagare qualcuno perché ci dia un figlio? È diritto civile impedire a un bambino di avere un padre e una madre, suo padre e sua madre?

Sembrerebbe evidente di no. Credo che molti fautori del riconoscimento delle unioni civili siano pronti a dire che no, non è di queste cose che si parla quando si vogliono affermare i diritti. Se però i desideri sono diritti, perché no? Non ora, forse, ma domani?

  1. LE UNIONI OMOSESSUALI

Il matrimonio è una cosa. Le unioni omosessuali sono un’altra. Dovrebbe essere pacifico. Il matrimonio che è alla base della società è l’unione di un uomo e di una donna, di per sé stabile, da cui sorgono per generazione, di per sé, i figli. Tale matrimonio è una realtà che precede lo stato e che la legge riconosce e tutela a motivo della sopravvivenza e della vita stessa di un popolo, ma che non inventa. La famiglia poi, in senso proprio, è quella fondata sul matrimonio. Le altre si chiamano famiglie in senso lato.

Metaforicamente dunque si può benissimo dire che dove c’è amore c’è famiglia. In senso specifico però ciò non basta. Anche l’attuale Costituzione italiana ce lo ricorda. Comunque, pur se domani si cambiasse la Costituzione, resta il fatto che equiparare legalmente le convivenze omosessuali alla famiglia naturale fondata sul matrimonio è prima di tutto un assurdo logico. In secondo luogo è fonte di confusione antropologica deleteria ai fini sociali, in particolare se desse adito a adozioni o, peggio, a forme surrogate di genitorialità, dove il diritto del bambino sarebbe misconosciuto in partenza e la povertà sfruttata.

Occorre poi mettersi dalla parte del bambino che in tutta la questione è la parte più debole. Se un diritto deve prevalere sugli altri, è il suo, quello del più debole. E il bambino ha diritto a nascere in una famiglia in senso proprio, salvo casi di necessità che chiedono di dare per lo meno una qualche forma di famiglia a chi non ce l’ha. Una volta c’erano gli orfanotrofi, oggi possono esserci altre forme. Si tratta però sempre di sopperire a situazioni di disagio in essere, non di crearne consapevolmente delle altre.

Le unioni tra persone dello stesso sesso possono comunque avere un riconoscimento che comporta diritti

e doveri. Sono però altra cosa dal matrimonio e dalla famiglia in senso stretto. Che due persone, ma anche tre, quattro o più ancora, dello stesso sesso o meno non fa differenza, costituiscano una di quelle “formazioni sociali” di cui parla l’Art. 2 della Costituzione, può essere senz’altro considerato un fatto positivo, in quanto incrementa il tessuto solidaristico della società.

  1. LA RICERCA DI RICONOSCIMENTO

Qui si apre un altro discorso. Questo forse è il vero problema che sta a monte di tutto il resto. Chi vive la condizione omosessuale sente la necessità di avere un riconoscimento che lo tolga da un disagio evidentemente reale. Disagio accentuato enormemente da atteggiamenti irrispettosi, offensivi o addirittura violenti che sono inaccettabili. Ci si illude allora che la strada da percorrere sia quella del riconoscimento dell’unione omosessuale come matrimonio o, in via secondaria e di passaggio, come unione civile. Non ci si rende conto però, che non sarà mai una legge a far superare il disagio, il quale non sta nelle leggi ma nelle mentalità e nella cultura.

L’omosessualità rimane un mistero le cui cause sono ben lontane dall’essere individuate. Chi è omosessuale non è da emarginare, condannare o allontanare dalla società. È un figlio amato da Dio, né più né meno di ogni uomo. È addirittura fuorviante introdurre divisioni nell’umanità sulla base degli orientamenti sessuali.

Ogni essere umano ha un’inalienabile dignità a prescindere e nessuno può ignorarla o calpestarla. Per questo non può essere oggetto di discriminazione e nemmeno di sarcasmo. E vogliamo quindi anche essere in prima fila nella battaglia contro l’omofobia per una società rispettosa di ogni persona.

La questione è piuttosto un’altra e cioè se dall’orientamento omosessuale si possa dedurre la bontà, la giustezza, la validità di un legame di tipo coniugale o matrimoniale. Ecco, qui la Chiesa, sulla scia delle Sacre Scritture, ma anche a seguito di una riflessione razionale sul significato dell’essere uomo e donna, su quella cioè che si può definire la struttura della natura umana, afferma che no, non è un amore di tipo matrimoniale quello che può realizzarsi tra persone omosessuali. Può esserci affetto, amicizia anche profonda, comunione, amore, ma rapporto di tipo coniugale no. Esso sarebbe privo infatti della possibilità di realizzare quell’unità psicofisica complementare, dialogica e di per sé aperta alla vita, che è tipica di una relazione coniugale.

L’amore è parola bella e grande, ma estremamente generica. Dire che “l’amore è amore” è una banalità incredibile e insieme una menzogna. I tipi di amore infatti sono tanti. Alcuni addirittura si chiamano amore ma sono solo violenza e sopraffazione. Altri possono essere veri, autentici, profondi e intensi ma diversi l’uno dall’altro, come per esempio l’amore di un padre e di una madre per i propri figli, di un amico per l’amico, di un discepolo per il maestro o viceversa, come l’amore ancora per un animale e così via. Non tutti questi amori sono di tipo coniugale o sessuale. Non tutti sbocciano in un matrimonio. Così, nell’amore omosessuale, la via per così dire della propria realizzazione, non è tanto quella del matrimonio, bensì quella della maturazione di una capacità oblativa che raccolga tutte le proprie energie nella dedizione al bene altrui e dell’umanità.

  1. TENDENZA OMOSESSUALE E PRATICA OMOSESSUALE

Bisogna poi fare ancora una considerazione di carattere più generale. Dalle tendenze che ognuno di noi ha, sessuali o meno, non deriva mai automaticamente la legittimità morale del comportamento corrispondente. Le tendenze sono una cosa di cui non si è personalmente responsabili. Le troviamo in noi stessi, senza la nostra volontà. I comportamenti invece derivano dalla libera volontà, sono espressione di libere scelte e quindi sono soggetti a una valutazione di tipo morale. Dalla tendenza omosessuale perciò occorre distinguere la pratica omosessuale. Le due cose non si identificano.

La tendenza omosessuale, infatti, indica l’attrazione psicosessuale per persone dello stesso sesso che può dar seguito – se lo si sceglie – a una pratica sessuale. Un comportamento, questo, che resta discutibile sul piano morale ma che si inquadra in un contesto che occorre prendere in debita considerazione. La pratica
o comportamento, invece, indica la pratica sessuale che di per sé potrebbe essere messa in atto anche da persone che non abbiano tendenza omosessuale, quindi a solo fine ludico. In questo secondo caso, l’esercizio della sessualità non è assolutamente accettabile, vuoi perché non scaturisce dall’amore, vuoi perché è finalizzato esclusivamente alla soddisfazione di un piacere, vuoi perché è privo della complementarietà che appartiene alla relazione sessuale, sia infine perché non è in alcun modo aperto alla generazione di vite umane.

Oggi si è propensi a usare il termine “orientamento” sessuale al posto di “tendenza”. Va bene. Se però con tale termine si volesse affermare che i comportamenti sessuali sono determinati dalla libera volontà e per questo sempre legittimi dal punto di vista morale, avrei delle grosse perplessità. Vorrebbe dire in pratica che il comportamento sessuale esula completamente da ogni valutazione di tipo morale. Quindi non sarebbe umano. Chiaramente un assurdo.

  1. LA SITUAZIONE CHE STIAMO VIVENDO

Della situazione così come oggi si presenta, non possiamo che prendere atto senza recriminazioni e lamentele. Ci rendiamo anche conto che è molto difficile ragionare e far ragionare quando si è in presenza di una pressione mediatica di così grande forza e si sperimenta una specie di ubriacatura ideologica che rende impossibile ogni confronto serio e costruttivo. A farne le spese sono soprattutto i giovani e – io credo – gli stessi omosessuali. Ancor più comprendiamo allora che c’è da intraprendere una lunga strada, quella del rifondare, dell’educare, quella del porre con pazienza le basi di una nuova umanità che rinasca dalle ceneri del presente, imparando di nuovo a sillabare l’abc della vita. Sentiamo che dobbiamo lavorare molto perché la ragione torni a brillare e la fede a illuminare i cuori.

C’è una mentalità, una cultura della vita e dell’amore da ricostruire, partendo dalla testimonianza personale e dal recupero della voglia di cercare la verità senza pregiudizi. C’è anche un compito educativo da mettere in atto, che sappia tenere in debito conto l’acquisizione di una corretta visione antropologica, elaborata sulle ali della ragione e della fede. Cosa cui forse non abbiamo dato il debito peso. La “mentalità di fede” a cui l’evangelizzazione e la formazione cristiana mirano è ben espressa nella Evangelii nuntiandi di Papa Paolo VI che mi piace citare perché davvero illuminante: “per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione «Gaudium et Spes», partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio”Ev(angelii nuntiandi, n. 19).

In un’epoca come la nostra, dove per forza di cose aumenta a dismisura il senso di frustrazione personale e quindi la rabbia, anche l’evangelizzazione non può che assumere i connotati capillari di una prossimità compassionevole che ricostruisce pezzetto per pezzetto, con infinita pazienza, l’umano più semplice ed elementare. Dobbiamo però metterci all’opera, sapendo che il vangelo della misericordia è salvezza per l’uomo di tutti i tempi e in qualsiasi condizione si trovi. La strada da fare è lunga e i risultati non sono per l’immediato. Siamo certi però di lavorare per un futuro migliore.

Vi saluto con affetto e vi accompagno con la mia benedizione.

+ Fausto Tardelli