Giubileo delle Diocesi toscane
Cattedrale di San Zeno (19 settembre 2021)
La presenza dei vescovi toscani – e vi ringrazio davvero di cuore per essere qui come ringrazio anche chi non è potuto venire qui ma si è fatto presente con l’affetto e la preghiera – la presenza, dicevo, dei vescovi toscani in questa Cattedrale stasera, manifesta una mirabile continuità con quanto già secoli fa e precisamente nel 1145 si andava affermando come una novità di rilievo per l’intera chiesa toscana e per la cristianità. Papa Eugenio III, pisano, proprio in quell’anno, all’indomani dell’arrivo della reliquia di San Giacomo Apostolo a Pistoia, con due brevi pontifici si rivolgeva ai vescovi di Fiorenza, Lucca, Volterra, Siena e Luni con queste parole: “Crediamo sia giunto a vostra conoscenza quali e quanti insigni miracoli il Signore Onnipotente abbia voluto presentemente mostrare per i meriti del santo apostolo Jacopo presso il suo santo altare nella chiesa di Pistoia; ragion per cui i fedeli di diverse e remote parti della terra mossi dalla devozione hanno iniziato a recarsi al medesimo sacro luogo e a chiedere rimedi per la propria salvezza.” Subito dopo chiedeva ai presuli toscani di non ostacolare ma anzi di invitare a tale devozione, tutelando i pellegrini che si sarebbero recati a Pistoia, concedendo inoltre il dono dell’indulgenza ai devoti visitatori della reliquia.
Noi oggi siamo qui, a rappresentare le chiese di toscana, sulle orme di chi ci ha preceduto nel segno della fede. Ad accogliervi, cari confratelli, non c’è il grande sant’Atto. Ci sono soltanto io, suo veramente indegno successore. Consapevole di questo, mi voglio mettere con voi umilmente alla scuola dell’apostolo Giacomo il maggiore. Credo che abbia da insegnarci ancora tanto. Le Scritture della liturgia ci guidano nella nostra riflessione.
Innanzitutto, possiamo pensare a Giacomo come ad un amico di Gesù. Gesù lo volle sempre con sé, insieme a Giovanni e a Pietro. Accanto a Gesù, lo troviamo in due momenti fondamentali della sua vita: quello della trasfigurazione sul monte e quello dell’agonia nel Getsemani. Significativamente, come ci ricorda il libro degli Atti, fu anche il primo degli apostoli a versare il sangue per Cristo. L’amicizia profonda di Jacopo con Cristo ci richiama allora a quello che è il rapporto fondamentale di ogni cristiano: quello cioè con Cristo, via, verità e vita. E’ questo rapporto, questa relazione, che ci costituisce come cristiani. Non una ideologia, non una morale, non una teoria. La relazione viva e profonda con Cristo è ciò che determina l’essenza dell’esperienza cristiana. Un incontro, una relazione che è amicizia, che è amore, che è uno stare con Gesù per imparare da Lui ed essere guidati da Lui. L’identità cristiana sta in questa relazione che è salvezza. Se non lo si capisce e non la si vive, il cristianesimo diventa un’altra cosa ed è come il sale che perde il suo sapore. Ce lo ricordava anche il Santo Padre nel discorso al convegno di Firenze che resta un punto di riferimento essenziale per il cammino delle nostre chiese in Italia. Diceva Papa Francesco: “Nella cupola di questa bellissima Cattedrale di Firenze è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’ è Gesù, nostra luce. L’ iscrizione che si legge all’ apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato, nel Cristo assiso sul trono del giudice (…) Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’ uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita o segnata dal peccato. (…) Lasciamoci dunque guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo”.
Queste mirabili affermazioni, non possono essere dimenticate, perché sono parte integrante di tutto il discorso di Firenze.
Oltre a quanto detto finora, credo che possiamo guardare a Jacopo anche come testimone di un cammino. Di un cammino interiore, innanzitutto. Un cammino di conversione. Un cammino che ha condotto l’apostolo ad acquisire lentamente la mentalità di Cristo, superando limiti e grettezze di cuore e di mente. Da questo punto di vista, il racconto evangelico che abbiamo ascoltato è emblematico. La richiesta della madre di Giacomo e Giovanni al Signore – per l’evangelista Marco, la richiesta però è fatta direttamente dai due apostoli, come ad indicare che Maria Salome interpretava il desiderio stesso dei suoi figli – questa richiesta rivela quanta strada ancora debba fare Giacomo per essere davvero discepolo del Signore. La ricerca del potere e del prestigio, mostra Giacomo ancora come quell’uomo vecchio di cui, alla scuola di Cristo, lentamente si liberò, fino ad arrivare alla testimonianza suprema del martirio. Un cammino dietro a Cristo che apre il cuore, che schiude il cuore alle necessità dei fratelli e quindi alla missione apostolica. Non è quindi un caso se proprio attorno a San Jacopo sia sorta dall’VIII secolo, una forte spinta al cammino. Fisico si, ma anche sempre spirituale ed interiore. Il bastone che l’iconografia mette in mano a San Jacopo, come le altre insegne del pellegrino su di lui, indicano esattamente tutto questo. E il cammino jacobeo è stato da sempre caratterizzato dall’accoglienza, dal servizio, dalla carità. Come ebbe a dire Benedetto XVI in una udienza pubblica nel giugno del 2006: “Alla fine, di San Giacomo possiamo dire, che il cammino non solo esteriore ma soprattutto interiore, dal monte della Trasfigurazione al monte dell’agonia che egli ha compiuto, simbolizza tutto il pellegrinaggio della vita cristiana, fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio. Seguendo Gesù come san Giacomo, sappiamo, anche nelle difficoltà, che andiamo sulla strada giusta.”
L’ultimo insegnamento che ci viene da San Jacopo, e ce lo ha ricordato la seconda lettura tratta da San paolo, è rappresentato dal libro dei vangeli che l’iconografia mettere tra le mani di San Giacomo. Egli è un apostolo, inviato dal Signore ad annunciare la buona notizia del Regno; egli porta il tesoro del vangelo pur essendo un vaso di creta. Secondo la tradizione, anche se difficilmente verificabile, Jacopo si mosse fino ai territori della Spagna. Sicuramente predicò a Gerusalemme e in Samaria. Certamente, fu a causa di questa predicazione che ricevette la morte per mano di Erode. E’ presumibile si trattasse di una predicazione forte e decisa, molto incisiva, se Erode decise di mettere a morte Giacomo e non Pietro. Del resto, il nomignolo attribuito da Gesù a Giacomo e Giovanni, quello cioè di boanerghes, figli del tuono, farebbe pensare proprio ad una certa irruenza di carattere.
Credo che noi oggi, come chiesa e come pastori, si debba imparare da Giacomo questa parresia, nell’annuncio cristiano. Il tempo dei rapidi cambiamenti in cui siamo immersi, le incertezze che viviamo, gli orizzonti culturali così fluidi e inediti, ci possono forse spingere a tacere, intimiditi e quasi tentati di rinchiuderci in noi stessi, timorosi. Non è questo però lo stile dell’apostolo. Non può essere questo lo stile di una chiesa che ha tra le sue caratteristiche quella di essere “apostolica”. L’annuncio cristiano è atto d’amore che noi dobbiamo all’umanità. Anche se si tratta di un amore forte e non sempre facile da accogliere. Esso certamente non può non accompagnarsi dalla concretezza dei gesti di amore che vengono incontro ai bisogni degli uomini. Ma comunicare il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa che vale più di tutto, pur se esigente e critico nei confronti delle presunzioni del mondo, resta l’atto più grande della carità. Abbiamo bisogno urgente della parresia degli apostoli. Abbiamo urgente bisogno della parresia di San Giacomo. Anche per questo siamo qui, stasera, a venerare la reliquia del suo corpo martirizzato. Per essere chiesa non muta ma che testimonia e parla con coraggio e sempre per amore.