In morte di Mansueto
5 agosto 2016 (+3 agosto)
Non ce la faccio a parlare in astratto, stasera. È con te, amico mio, che stasera sento di dover parlare, perché l’omelia sei tu, è la tua vita.
M’immagino già cosa starai dicendo ora: che non va bene. Appena ti rividi subito dopo l’operazione, con la tua solita ironia ma già presentendo come sarebbe andata a finire, mi dicesti che volevi leggere in anticipo la mia omelia, per controllare ciò che avrei detto al tuo funerale. Non ti ho obbedito e ora sono qui a presiedere un rito che mai avrei pensato di dover presiedere. Pensavo altro, sinceramente. E mi sembra uno dei tuoi scherzi, se non è troppo irriverente il dirlo. Eppure, quando l’altra sera ti ho incontrato immobile nel tuo letto e ho visto il tuo sorriso, l’ho subito riconosciuto, perché rivisto tante e tante altre volte. Era il sorriso della tua dolce e pungente ironia, come se tu ci dicessi dal letto di morte: “Ora ci siete voi nelle peste! Finora c’ero anch’io, ma ora ci siete voi. Io sono al sicuro, ora tocca a voi sbrigarvela…” Nello stesso tempo però, quel tuo sorriso bonario e un po’ a presa di giro, mi diceva: “non abbiate paura, non vi preoccupate: tutto passa, io vi sarò sempre vicino e Dio non vi abbandonerà”
Si. Me lo hai scritto anche in fondo al testamento redatto ai primi di gennaio di quest’anno, quando si cominciava ad affacciare il male e ancora non lo sapevi. In calce, dopo la firma, hai scritto a chiare lettere in rosso: “Alla fine rimane soltanto la Misericordia di Dio!”.
Si, è vero, Dio è infinitamente misericordioso. “ E’ ” Misericordia, e noi troviamo vita soltanto in questa Misericordia senza confini. Si, lo so. Ma lasciamelo dire: quanto è dura da accettare questa Misericordia di Dio! Quanto è difficile, questa Misericordia di Dio che ti toglie d’accanto l’amico più caro che hai, che tiene una persona inchiodata per mesi in un letto d’ospedale, che fa mancare all’affetto di tantissimi un padre, un amico, un fratello!
Com’è strana questa Misericordia di Dio! Com’è lontana dai cliché di moda, dalle banalità che spesso si dicono. La Misericordia di Dio ti spoglia, ti mette a nudo, ti scarnifica, ti consuma nell’amore; ti salva facendoti nuovo; facendoti rinascere attraverso un parto doloroso. La Misericordia di Dio spesso ci fa soffrire, lascia che si scarichino su di noi mali, sofferenze e disagi; non ci evita le conseguenze nefaste per noi e per gli altri delle nostre scelte sbagliate. La Misericordia di Dio a volte è dura. Umanamente, sembra persino non conoscere pietà…. Quanto e in quanti abbiamo pregato, implorato, supplicato a lungo e insistentemente Dio per la guarigione del nostro fratello ed amico…
Certo, la Misericordia di Dio sa e vede ciò che noi non sappiamo e non vediamo e da quando si è manifestata sommamente nella croce di Cristo, dobbiamo abbandonarci ad essa con piena fiducia, come un bambino svezzato in braccio a sua madre (Sal 121). Ma le domande restano, eccome. I perché rimangono e assillano il cuore e la mente; i dubbi, gli interrogativi continuano a segnare le profondità dell’anima, a ricordarci la nostra condizione di viandanti e pellegrini, “con bastone e calzari”.
E tu, amico mio, queste cose le sapevi e le sentivi; te le portavi dentro come un tormento tutto interiore e quasi soffocato che dava però spessore di umanità autentica al tuo parlare e al tuo relazionarti con gli altri. Ti faceva un umile cercatore di Dio, accanto agli altri, consapevole della propria oscurità e miseria.
Ed ecco allora Giobbe, di cui si racconta nella prima lettura di stasera, così vicino al tuo sentire. Il grido di Giobbe, lo so, è stato da sempre anche il tuo. Negli ultimi mesi si è fatto più intenso, accorato, appassionato. Il desiderio struggente di Giobbe ti ha accompagnato tutta la vita. Forte e mai appagato pienamente. Sempre reiterato, a partire da una condizione di debolezza e di mancanza, di coscienza delle tue fragilità e peccati, ma proprio per questo ancor più vibrante e profondo.
Questa è del resto la nostra vita sulla terra: nostalgia di Dio; ricerca mai conclusa del suo volto di Padre; desiderio di vedere il Padre e riconoscersi finalmente figli. Figli veri di Dio, eredi del paradiso. E finalmente anche fratelli, perché figli di uno stesso Padre.
Cosa cerca infatti perdutamente il nostro cuore se non Dio e il suo amore? Che cosa cerca il nostro stesso corpo, le fibre tutte del nostro essere? Che cosa cercano i monti e i mari, l’intero universo e ogni uomo che vaga come pecora senza pastore, se non di vedere Dio, di essere da Lui riconosciuto come figlio voluto e amato, se non di sperimentare l’amore fedele che non viene meno e che ci lega in una comunione divina?
E tu, amico mio, nel grigiore dei giorni che acutamente avvertivi, nella banalità delle ore che scorrono dentro la quotidianità, in mezzo alla cronaca delle piccinerie umane come dei drammi più assurdi della stupidità umana, hai cercato il volto di Dio; come a tentoni, come in un antico specchio ma con costanza e fedeltà. Lo hai incontrato in tante situazioni e persone che hai amato e servito con delicatezza e premurosa attenzione, ma sempre di nuovo ti sei ritrovato a cercarlo perché di nuovo perduto, come l’amato del cantico dei cantici. Ora che, ne sono certo, tu vedi come sei visto, dici a noi di non stancarci di cercare, ancora e ancora di nuovo, non nell’astrazione di spiritualismi disincarnati, ma in quel grigio quotidiano fatto però di volti concreti e di gesti d’amore. Quel grigio che nasconde, come una perla nascosta nel campo, la sfolgorante bellezza del Regno di Dio.
E poi, ecco la Gerusalemme del cielo, la città santa, di cui narra il libro dell’Apocalisse. Quanto hai amato e studiato questo libro santo! E come sapevi raccontarlo, spiegarlo, incantandoci nel parlarci del mistero del senso della storia e del destino del mondo che è saldamente nelle mani di Dio. Quanto ti sei soffermato nella tua giovinezza in particolare a meditare sul verbo “vincere”, per scoprire e farci scoprire che la vittoria di Cristo e del Cristiano è sconfitta per il mondo e ciò che invece appare come sconfitta per il mondo è vittoria per Cristo. In questi lunghi quattro mesi d’ospedale l’hai ulteriormente capito, testimoniato e insegnato a tutti noi.
Nella Gerusalemme del cielo hai visto e amato profondamente la Chiesa della terra che hai sognato bella e senza rughe. Così la conoscemmo insieme, nei nostri anni giovanili. La vedevamo, la sognavamo, ma ci pareva già lì, a portata di mano, descritta splendidamente nel Concilio Vaticano II, guidati a sognarla e ad amarla da un grande Vescovo, nostro maestro. Poi abbiamo conosciuto le rughe e le ferite. Le nostre rughe e le nostre ferite. Abbiamo toccato con mano che tra la Gerusalemme celeste e la Chiesa della terra c‘è comunione e identità, ma anche differenza. Hai però continuato ad amarla senza riserve, questa Chiesa, così com’era e ti si presentava, con le sue rughe e le sue miserie, le sue contraddizioni; sempre però sposa di Cristo, da sentire e sognare, nonostante tutto, proprio come sposa splendente di bellezza. Il Signore poi ci ha chiamato ad amarla e a servirla, questa chiesa, in un modo tutto particolare … e insieme alla travolgente grazia che ci ha investito, la fatica si è fatta sentire…. Portarla insieme era un sollievo… Ora, per chi resta, la fatica si fa più pesante… Lo sai, vero, questo? E lo sa, vero, quel Dio di Misericordia che ti ha strappato al nostro contatto?
Alla fine poi tutto torna e le parole di Giovanni ascoltate nel Vangelo provano a dare un senso anche a questa vicenda che ci segna così profondamente e ci fa anche discutere con Dio. Nel pensarti, fratello mio, come un chicco di grano caduto in terra a marcire, per portare frutto abbondante, trova un po’ di conforto il mio dolore, il dolore di tutti noi. In questo, allora, forse riusciamo anche a comprendere l’infinita Misericordia di Dio che è arrivata a noi attraverso di te. Quello che abbiamo ricevuto è tanto, quello che ci è stato donato è molto. E’ come un seme depositato nei nostri cuori. Un seme che ha prodotto e produrrà ancora bene su bene. Già la tua morte lo rende evidente.
In particolare questa nostra chiesa di Pistoia, lascia che lo dica pubblicamente stasera, deve veramente ringraziare Dio di averti avuto come suo Pastore e Padre. Oggi ti abbraccia con un abbraccio che forse non sempre è riuscita ad esprimerti esteriormente, ma che ora però sai che sempre ha espresso nel cuore. Questa sera – senza titubanze – ti abbraccia con tutta se stessa. E’ la chiesa che hai servito ed amato, per quale hai anche sofferto come nelle doglie del parto; per la quale in questi mesi hai dato la tua vita e che in quest’ora suprema ti è stata vicina, riconoscendoti suo angelo, vescovo saggio e fedele, sua corona e sua gloria. Questa Chiesa, fatta di peccatori ma santa, prega per te, ti accompagna alle porte del cielo e non ti dimenticherà. Come tutti, anche tu hai bisogno delle nostre preghiere e la Chiesa, madre sapiente, chiede misericordia per ogni defunto. Ma oggi, questa chiesa di Pistoia, anche impara da te a farsi umile chicco di grano che scompare nella terra per essere a servizio amoroso di chi attende il Vangelo; impara da te la strada della missione che è vita donata per il Signore nel servizio dei fratelli, fino all’effusione del sangue. Questa tua chiesa oggi ti dice grazie con tutto il cuore e per te, per quello che tu sei stato per lei, canta la sua riconoscenza a Dio onnipotente e misericordioso.
E a me, che ho avuto la grazia della tua amicizia e la gioia di vedere il bene che hai seminato in questa terra ma che in questo momento sento amarissimo il peso del distacco, continua, te ne prego, ad essere vicino come sempre hai fatto.
+ Fausto Tardelli, vescovo