Quarta stazione quaresimale
V venerdì di Quaresima
San Paolo 16 marzo 2018
Letture Messa “ad libitum”
Il Signore è mia luce e mia salvezza. L’abbiamo cantato come salmo responsoriale. È il canto che possiamo ben pensare sia stato quello del cieco nato del vangelo, risanato da Cristo.
Non sappiamo il nome di quest’uomo di cui parla l’evangelista Giovanni. Sappiamo solo che era un mendicante, che aveva ancora i genitori vivi ma che non si occupavano di lui. Sappiamo ancora che era un uomo senza tanti peli sulla lingua e molto concreto; sapeva il fatto suo e non aveva paura dei farisei, ai quali seppe tener testa con coraggio e ironia.
La forza, quest’uomo la traeva dall’evidenza dei fatti: era cieco, non vedeva, non aveva mai visto niente fin dalla nascita. A un certo punto, un uomo a lui sconosciuto gli si era avvicinato, aveva fatto del fango con la saliva e la terra, aveva spalmato questo fango sui suoi occhi, lo aveva mandato a lavarsi alla piscina di Siloe. Lui era andato, si era lavato e ora ci vedeva. Questo era il fatto. Anche se il testo non ce lo dice, possiamo ben immaginare l’emozione, lo scombussolamento, la gioia, la novità sorprendente che aveva coinvolto quell’uomo. Quello che gli era capitato, era assolutamente inaudito. “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato”, dirà ai farisei, facendoli arrabbiare definitivamente e provocando la sua espulsione dalla sinagoga.
Questo cieco nato ha dalla sua, la forza dei fatti. Gli altri, i farisei, fan solo discorsi, chiacchiere, ideologia, esprimono pregiudizi, non vedono la realtà; sono davvero, loro, dei ciechi che, per giunta, pensano di vederci bene. Il cieco nato porta fatti concreti: “una cosa la so” – dirà ancora ai farisei – “ero cieco e ora ci vedo”.
Vorrei far notare che questo “fatto” è “capitato” al cieco. È sopravvenuto alla sua vita. Non lo ha cercato. Non risulta infatti dal testo che il cieco abbia chiesto la guarigione, come invece in altri casi descritti nel vangelo. Gesù ha preso lui l’iniziativa e lo ha guarito. Una iniziativa totalmente gratuita, totalmente staccata da qualsiasi richiesta del cieco. Del resto, anche nel primo dei segni compiuti da Gesù, secondo l’evangelista Giovanni, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Canaan, non risulta alcuna richiesta di intervento da parte degli sposi o di colui che guidava il banchetto.
Nel caso del cieco nato, l’iniziativa è presa da Gesù. E, si badi bene, nemmeno il secondo incontro con Gesù – perché il racconto ci presenta appunto due incontri di Gesù col cieco – neppure il secondo incontro, quello veramente decisivo per la salvezza del cieco, è ricercato da costui. È ancora Gesù che lo trova e gli chiede: “Tu credi nel figlio dell’uomo”?
Tutto ciò, carissimi amici, ci fa riflettere su di una verità che connota l’agire di Dio, sempre: è Lui che prende l’iniziativa e tutto viene da lui. Anche quando giustamente noi cerchiamo il suo volto, lo desideriamo, ci rivolgiamo a lui con la supplica del peccatore, ciò è possibile solo perché Egli con il suo amore ci ha prevenuto. Lui sempre ci ama per primo. Senza alcun nostro merito, senza alcuna nostra pretesa. Non è il nostro vuoto che chiede e fonda la sua pienezza. Non è l’uomo che crea Dio. È vero esattamente il contrario: è Dio che crea l’uomo e imprime nell’uomo la nostalgia di Lui. È il Signore che ama infinitamente e dona infinitamente se stesso a noi ed è ancora lui, luce del mondo che fa scoprire la novità gioiosa del vedere e svela la bruttura delle tenebre del male che sono in noi e nel mondo, senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
Di fronte alla guarigione del cieco nato dunque dobbiamo innanzitutto inchinarci all’iniziativa di Dio che ci viene incontro, che viene incontro all’uomo. Mai ci dovremmo stancare di meditare questo muoversi di Dio nei confronti dell’umanità, nei confronti di me, di ciascuno di noi. La vita cristiana inizia laddove ci si riconosce cercati e amati; laddove ci si riconosce voluti e pensati con amore. Il primo atto della vita cristiana non è un atto, bensì una passività totale: è accorgersi di essere cercati e trovati; che c’è uno che è totalmente per noi, Gesù di Nazareth, figlio di Dio, che mi tocca con la sua mano, applica sui miei occhi il medicamento realizzato con la sua saliva e con la terra, che, come commenta Sant’Agostino indica la salvezza dell’uomo fatto di terra attraverso la parola di Cristo; il quale ancora mi purifica con l’acqua della piscina di Siloe, cioè l’acqua dell’inviato” – questo è il significato di Siloe – l’acqua viva che è cioè Cristo stesso, nella quale siamo stati immersi mediante il battesimo.
Meditando la vicenda del cieco nato, c’è ancora altra cosa su cui riflettere. Anche noi, come il cieco nato, dovremmo vivere della certezza di un fatto molto concreto: che cioè siamo stati guariti; ci è stata donata la vista. Siamo stati cioè resi partecipi della vita di Cristo. Tutti gli uomini nascono ciechi a causa del peccato di origine. Ma noi siamo stati inseriti nella morte e risurrezione di Cristo; siamo stati battezzati; abbiamo ricevuto il sigillo dello Spirito. Son fatti, questi, non discorsi. Un fatto talmente evidente nella nostra vita – così dovrebbe essere – da darci forza per affrontare qualsiasi avversità, per resistere di fronte a chi imbroglia le carte e continuamente ci dice che la nostra fede è una fantasia superstiziosa; di fronte alle contestazioni che ci vengono dai farisei di ogni tempo; di fronte al riso di chi ci ripete che siamo pieni di peccati e quindi non possiamo insegnare niente a nessuno. Di fronte a tutto questo noi dovremmo saper rispondere non tanto con la forza di idee convincenti – anche queste certamente servono – ma prima di tutto con la semplicità disarmante dei fatti: ero cieco; ora ci vedo. Ero malato, Cristo mi ha guarito; ero perduto e il Signore mi ha ritrovato.
Forse però allora è proprio qui che nasce il bisogno di riconoscere i nostri peccati e di umiliarci di fronte a Dio e quindi la necessità della confessione delle nostre miserie. Lo dobbiamo dire infatti: tante volte, l’essere stati fatti partecipi della salvezza; l’essere stati fatti rinascere come figli di Dio; l’essere stati illuminati dalla Grazia non è un fatto, nella nostra vita. Non è la certezza della nostra vita; non è la roccia su cui poggia la nostra esistenza. Non è esperienza vissuta; non è gioia di chi ha ritrovato la vista; non è entusiasmo di chi è stato liberato dalle catene e finalmente si sente libero. È una fede sbiadita, scolorita, la nostra. Abitudinaria e mesta. Ed è precisamente in questo contesto di fiacchezza della nostra fede che diventano facili i tradimenti della legge del Signore, le ottusità nei confronti dei fratelli; i compromessi con i nostri vizi, l’accomodamento alle logiche egoistiche del mondo.
Allora però, fratelli e amici carissimi, facciamo nostre stasera le parole del profeta Michea che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Siano la nostra preghiera, questa sera: “Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di Lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia.