Omelia per la Solennità dei Santi Pietro e Paolo
29 giugno 2016
(foto di Ilaria Giusti)
È tempo di anniversari sacerdotali. Anch’io, insieme a tanti presbiteri ricordo la mia Ordinazione avvenuta il 29 giugno. Vorrei però iniziare l’omelia ricordando un anniversario speciale, il 65° di Sacerdozio del Papa emerito Benedetto, celebrato proprio ieri solennemente in Vaticano. Abbiamo tutti davanti agli occhi il bellissimo abbraccio con Papa Francesco. Questi che rivolgendosi a Benedetto, gli dice – cito letteralmente- “Lei santità continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita… da lei proviene una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una umanità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me e a tutta la Chiesa”; dall’altra, Papa Benedetto che dice a Papa Francesco, cito ancora letteralmente: “La sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, più che i giardini vaticani, con la loro bellezza, la sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto.” “E speriamo che lei potrà andare avanti con noi tutti con questa via della Misericordia divina, mostrando la strada di Gesù, a Gesù, a Dio”.
Siccome io credo alla sincerità di questi due uomini, le loro parole e il loro abbraccio sconfiggono in un sol colpo – e speriamo definitivamente, perché non ne possiamo più – chi vuol vedere in Francesco uno che rompe col passato e in Benedetto, la bandiera del tradizionalismo. I due – se lo metta bene in testa chiunque, da destra e da sinistra per così dire – sono in profonda continuità, in quella continuità che è propria della Chiesa la quale è un organismo vivente che procede per sviluppo organico, mai per tesi e antitesi. Francesco è il Papa regnante e legittimo, Benedetto è Papa emerito. Finiamola qui e smettiamola di interpretare questi due uomini di Dio, tirandoli per la giacchetta, secondo i nostri gusti e le nostre idee preconcette!
Venendo alle letture della Messa di questa sera, vorrei soffermarmi innanzitutto sul libro degli atti, sul brano della prima lettura, verso la fine, dove si dice che Pietro non si rendeva conto di quello che stava succedendo. L’angelo lo stava portando fuori dalla prigione ma lui non se ne rendeva conto.
Come Pietro, anche noi abbiamo cominciato a seguire il Signore tanti anni fa, senza forse rendersi ben conto di quello che era successo con la nostra Ordinazione sacerdotale. Forse non ci rese ben conto della realtà; in certa misura fu come un sogno. Poi piano piano, attraverso le vicende della vita; anche attraverso sconfitte e ferite, ci siamo accorti che ciò che era accaduto quel giorno era davvero realtà; che il Signore ci aveva presi per davvero, ci aveva fatto suoi. Ci siamo accorti che la nostra vita era ormai indelebilmente segnata. Soprattutto ci siamo resi conto che non eravamo affatto degni di essere suoi, che ciò che ci era capitato era assolutamente, infinitamente più grande delle nostre possibilità: un mistero d’amore assoluto che affonda le sue motivazioni solo nella totale libertà della volontà di Dio che ci ha chiamati e ci ha scelto e ci ha fatto suoi – capaci di essere Lui nel mondo, presso i nostri fratelli e le nostre sorelle.
Oggi allora, dopo tanti anni, ci accade un po’ come a Pietro, il quale, dice il testo degli Atti, “rientrato in sé disse: ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalle mani di Erode”. Anche noi, oggi, insieme a Pietro non possiamo non riconoscere che la nostra consacrazione sacerdotale è stata per noi la via che il Signore ha scelto per liberarci dal male, per convertirci, per salvarci e portarci fuori dalla prigione del nostro egoismo.
Stavo pensando proprio a questo quando qualche giorno fa ero accanto al Vescovo Mansueto in ospedale, e vedevo la povertà e la debolezza di un uomo, di un cristiano, un sacerdote e vescovo, ridotto all’essenziale, bisognoso di tutto. Forse però ora più che mai capace di testimoniare l’amore del Signore, la fede nel Risorto, partecipando in pieno al mistero della sua croce. Ripenso così al giorno della nostra Ordinazione sacerdotale, 42 anni fa come oggi, allora era sabato e a quando il giorno dopo celebravamo la nostra Messa Novella, con le letture – le ho ancora bene in mente – della domenica scorsa, la XIII dell’anno C: “Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. “Seguimi, anche se il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Ripensavo a tutte queste cose e constatavo che l’esercizio pieno del ministero sacerdotale ed episcopale si identifica con la nostra personale purificazione, la nostra conversione, la vicenda della nostra personale santificazione. Quanto più cerchiamo di esercitare al meglio il nostro ministero, tanto più il Signore ci libera, ci purifica e ci santifica, mentre, tanto più ci lasciamo afferrare dall’amore del Signore, tanto più esercitiamo al meglio il nostro ministero. Questa è la verità!
E qui sta il motivo per cui il ministero sacerdotale non è mai una funzione, semplicemente un servizio che si possa compiere da impiegati: a ore, stipendiati e senza coinvolgimento personale. Tutt’altro.
Ed eccoci così alla II° lettura, dalla II° lettera di Paolo a Timoteo. La consapevolezza di Paolo dovrebbe essere la nostra – sia di noi che siamo ormai abbastanza avanti negli anni, sia di chi è più giovane. Le parole di Paolo, è vero, sono una specie di testamento, quello che dovremmo poter scrivere al termine della nostra esistenza terrena: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Ma queste stesse parole vanno bene in certa misura per tutti, perché ogni giorno il presbitero si deve sentire “in battaglia”, “in corsa” e impegnato a “conservare la fede”. Soprattutto – come dice ancora San Paolo – impegnato, con la forza del Signore, a “portare a compimento l’annuncio del Vangelo perché tutte le genti lo accettino”.
E su questa ultima affermazione di Paolo, mi soffermo un attimo, perché sia sempre chiaro qual è il nostro compito: cioè “annunciare il vangelo”, “annunciare il Vangelo del Regno”. Dove la “buona notizia” del Regno, il “vangelo”, il “Regno” non è altri che Lui, Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, morto e risorto per noi. Il nostro compito dunque non è semplicemente quello di occuparci dei più diversi problemi degli uomini. Non è neppure principalmente quello di lavorare per una società più giusta o di salvare la terra. Il nostro compito principale è quello di annunciare Gesù Cristo, Salvatore; di farlo conoscere e aiutare gli uomini e le donne del nostro tempo a incontrarlo e a capire che con Lui, via verità e vita, con la sua morte e risurrezione, l’umanità e il mondo si trasformano. Il nostro compito è questo, perché più persone possibile si convertano a Lui, facciano posto a Lui dentro di sé e quindi inizino una vita nuova nella verità, nella giustizia e nell’amore. Certamente tutti gli ambiti di esperienza umana, ogni dimensione personale e sociale del vivere è coinvolta dall’annuncio del Vangelo, perché il Signore Gesù è venuto a salvare tutto l’uomo e a inaugurare un mondo nuovo fatto di fratelli e sorelle che si amano. Ma l’essenziale è che il nome santo e benedetto di Gesù risuoni sulle nostre labbra, sia vivo dentro di noi e traspaia dalle nostre azioni, in modo che gli uomini e le donne, attraverso il nostro ministero, non si incontrino con una ideologia, con un progetto sociale o politico, con una filosofia o con un programma pastorale ma con il Signore Gesù vivo e vero. Lui che ha detto: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt 11, 28).
Nel brano evangelico infine, ecco ancora il beato Pietro. Lo sappiamo bene che Pietro non fu un uomo perfetto. Conosciamo molto bene il suo triplice rinnegamento. Abbiamo chiari in mente i rimproveri di Gesù che addirittura lo chiama Satana! “Vai dietro a me Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16,23). Sappiamo anche della sua debolezza – addirittura dopo la risurrezione di Gesù e la Pentecoste – nella questione della circoncisione ad Antiochia, per cui fu rimproverato apertamente da Paolo. Eppure, a quest’uomo qui – potremmo dire così chiaramente inaffidabile – il Signore Gesù affida la sua comunità. Quest’uomo, il Signore lo pone a fondamento visibile della sua chiesa, dandogli il potere di legare e di sciogliere. Una scelta più azzardata sembrerebbe non poterci essere. È ciò che i nemici della chiesa di oggi e di domani, interni ed esterni, non hanno mai capito e mai capiranno. È ciò che manda in confusione il demonio. Non c’è logica apparente. Non c’è ragionevolezza! I nemici della chiesa si affannano a mettere in mostra tutti i difetti, i peccati, tutti i tradimenti della Chiesa – e non ci vuol poi davvero molto!… La conclusione che si aspetterebbero è che una “barca” così sgangherata non possa che affondare presto e anzi, che Dio stesso, stanco di tutte queste infedeltà, la eliminasse finalmente dalla storia.
E invece no! La Chiesa è sempre viva. Ed è un popolo molto più numeroso che nei secoli passati. E ci sarà sempre, fino alla fine dei tempi. Il Signore Gesù sceglie Pietro come fondamento; continua a scegliere la chiesa e a considerarla sua sposa amata; continua ad affidarle il compito di essere Lui nella storia e nel mondo. Il Signore Gesù ha scelto noi e continua a sceglierci come suoi strumenti e mezzi di santificazione per gli altri.
Il Signore che pure sa tutto di noi. Conosce tutti i nostri peccati, anche quelli più segreti in fondo al cuore. Tutte le nostre debolezze e i nostri tradimenti. E ciononostante continua a dirci e a confermarci che ha bisogno di noi per salvare gli uomini. È Lui la salvezza, non noi e la coscienza dei nostri peccati questo ce lo rende evidente. Ma ha voluto e vuole aver bisogno di noi per arrivare a ogni uomo.
Certo, di fronte al mistero di questa sua volontà, non possiamo “giocare alla meno”. Come dire, approfittarci, tanto lui rimedia alle nostre malefatte… Direi anzi piuttosto, no, assolutamente. Guai a noi! Guai a noi se approfittassimo della sua Misericordia! La sua libertà di scelta ci costringe piuttosto a impegnarci di più, a mettercela tutta, a non lasciare niente d’intentato per essere veramente uomini di Dio. Il ricordo anniversario della nostra Ordinazione presbiterale è per questo anche occasione per rinnovare l’impegno, le promesse fatte, rinverdendo il dono che ci è stato fatto. Con uno sforzo speciale per camminare insieme.
Anche Pietro, alla fine ce la fece!
Anche Paolo, alla fine ce la fece!
Attraverso la loro potente intercessione, anche noi vogliamo pensare che alla fine, o con le buone o con le cattive, riusciremo a capire e a dare buona testimonianza a Colui che, a suo insindacabile giudizio, ci ha scelto e continua a sceglierci e al quale non possiamo che dire, stasera e sempre: grazie!
+ Fausto Tardelli, vescovo