Un nuovo umanesimo per la medicina

Intervista al dottor Stefano Bartolini, noto neurologo Pistoiese, sul tema della giornata mondiale del malato.

a cura di Daniela Raspollini

Spesso il malato è colto da paura e smarrimento; quanto è importante il ruolo del medico nella relazione con il malato?

Per rispondere appare sempre più impellente la domanda: come è cambiata la professione del medico e quale sarà o dovrà essere il medico del futuro? Personalmente penso di essere stato testimone nella mia vita professionale, dai primi momenti iniziali fino al momento del pensionamento, di tutto il percorso di cambiamento della identità del medico e del conseguente rimodellamento del rapporto medico-paziente. Già le parole ed i termini che vengono usati per identificare i ruoli (dirigente medico piuttosto che medico, cittadino od utente piuttosto che paziente) testimoniano un profondo mutamento proprio nel modo in cui il medico concepisce se stesso o viene percepito dagli altri. A testimonianza di questa transizione culturale è interessante citare un articolo comparso recentemente su una delle più prestigiose riviste mediche internazionali (The New England Journal of Medicine, 10/11/2016). I due autori (D.I. Rosenthal e A. Verghese) già nel titolo del loro editoriale ponevano la domanda fondamentale: Meaning and the Nature of Physicians’ Work -Il significato e la natura del lavoro del medico. Quanto affermato in questo articolo rappresenta una fedele fotografia dei problemi che attualmente mettono in discussione la figura del medico per quanto concerne la sua identità ed il senso della sua professione e conseguentemente gli autori affrontano anche la tematica dei problemi emotivi (paura e smarrimento) spesso vissuti dalle persone malate.

Riassumendo brevemente le maggiori criticità appaiono essere: il tempo di cura -inteso come il tempo che il medico passa “accanto” alla persona ammalata nelle classiche procedute sanitarie- appare drasticamente ridotto. Più del 40-50% della giornata lavorativa di un medico viene speso di fronte allo schermo di un computer a svolgere compiti “burocratici”. È ridotto anche il tempo di relazione “faccia a faccia” con le altre figure mediche professionali mediche e non. Nonostante la retorica che il paziente sia al centro della cura, in realtà esso non lo è affatto. Il paziente spesso è non più, infatti, una persona in carne ed ossa, ma un file elettronico dove sono trascritti tutti i suoi dati, non solo sanitari. L’intero sistema sanitario, incluso il suo finanziamento, poggia pesantemente su questa rappresentazione digitale del paziente per la cui definizione è stato coniato un nuovo termine “iPatient”. Esiste spesso una discrepanza fra i report di qualità forniti dalle aziende, dove si afferma che il paziente gode in maniera uniforme e diffusa di ottime cure e l’esperienza concreta del paziente che invece ha una opinione totalmente diversa ed è portato ad avere sentimenti di paura e smarrimento. I medici appaiono sempre più disaffezionati al loro lavoro che viene giudicato troppo burocratico. Il fenomeno del burnout dei medici appare diffuso ed allarmante; infatti sembra che la depressione o sintomi depressivi interessino circa un quarto di loro.

Gli autori concludono la loro analisi sottolineando, in maniera del tutto condivisibile, la necessità di rimodellare un nuovo umanesimo della medicina e di richiamarsi al senso originale della professione medica: accompagnare la sofferenza degli altri e provvedere al loro conforto e cura.
A tal fine propongono di ripensare l’uso delle tecnologie informatiche per l’utilizzo ottimale delle stesse e di recuperare allo stesso tempo alcune pratiche tradizionali della pratica medica tali da ridurre la sensazione di distanza ed abbandono percepita dagli ammalati. A mio parere è attraverso questo nuova “alleanza” che si può aiutare le persone malate a superare le proprie paure ed allentare il senso di smarrimento che talvolta vivono all’interno delle strutture sanitarie.

 

Il papa nel suo messaggio afferma: «la cura dei malati ha bisogno di professionalità e di tenerezza, di gesti gratuiti e semplici come una carezza». A partire dalla sua esperienza come vuole commentare queste parole?

Le classiche pratiche sanitarie come la visita a letto dell’ammalato, la raccolta della anamnesi accurata dal paziente stesso, il colloquio con la famiglia, il contatto fisico concreto con le mani nella vista medica sono sempre più ridotte a vantaggio della registrazione dei dati su files elettronici.
La figura del paziente è come se fosse depersonalizzata ed anche la sua realtà corporea è come se fosse alienata. L’invito di Papa Francesco è quindi attualissimo in quanto ci richiama non solo alla professionalità, quindi anche all’obbligo morale della conoscenza e dell’impegno, ma anche alla “prossimità e vicinanza” alla persona che soffre nella malattia attraverso la tenerezza, gesti semplici gratuiti come una carezza o una parola, uno sguardo, un momento di attesa a bordo del letto per comunicare con coloro che sono deboli perché ammalati, timorosi del loro futuro e alla ricerca di dare un senso della loro sofferenza, della loro intera vita o addirittura della possibile morte. Le piccole ed umili cose sono in genere quelle che hanno maggior significato nel rapporto fra le persone.

A fronte di una cultura e di una mentalità che rifiutano la malattia e la sofferenza che significato assume questa giornata?

È vero che esiste una visione prometeica della medicina per cui la ricerca medica appare onnipotente ed in grado di curare qualsiasi malattia e di allungare indefinitivamente la vita fino ai suoi limiti estremi. Questa fiducia illimitata nella scienza e nella tecnica ha portato a considerare la malattia come un accidente, ha svuotato di senso il limite e la sofferenza umana. Addirittura la morte viene vissuta come uno scandalo per cui rappresenta l’ultimo tabù rimasto nella nostra società che tende quindi a nasconderla ed a non parlarne. In realtà la malattia, la sofferenza e la morte non possono essere negate perché l’uomo ne fa esperienza quotidiana. La loro negazione non può non provocare l’emarginazione e l’indifferenza verso chi soffre. La giornata mondiale del malato è segno rinnovato ed attuale di attenzione, rispetto ed amore verso le persone sofferenti ed anche risposta all’invito di Papa Francesco che ci esorta a seguire l’esempio di Madre Teresa di Calcutta che ha scelto i poveri e gli ammalati ed i morenti per testimoniare attraverso la sua carità l’amore di Dio per i poveri e gli ammalati.

Il papa nel suo messaggio richiama l’importanza del volontariato e della gratuità. È possibile custodire questo atteggiamento anche da professionista della sanità?

Sì, se intendiamo per gratuità l’atteggiamento interiore di disponibilità a soccorrere che è principio fondante della professione medica. Questa particolare vocazione è ben rappresentata artisticamente nella formella robbiana (visitare gli infermi) esposta sul frontale del nostro Ospedale del Ceppo e, in forma di parabola, nella parabola del Buon Samaritano.
L’ atteggiamento del donare rappresenta le fondamenta della professione medica, sia o no legata alla remunerazione pecuniaria. Il professionista della sanità dona le proprie conoscenze professionali, i propri sentimenti di vicinanza empatica al paziente ed insieme riceve a sua volta dalla persona malata il dono della fiducia, della stima e talvolta della amicizia.
Esistono poi forme di gratuità “assoluta” di cui non mancano esempi nella società civile, dove si esprimono in molteplici forme di volontariato, la cui funzione di sussidiarietà è fondamentale nel mondo della sanità. Anche il professionista della sanità che opera all’interno delle strutture, così come il volontario che dedica gratuitamente il suo tempo alla cura degli altri, può e deve essere ispirato dallo spirito del dono gratuito delle propria persona nel prendersi cura degli altri, sopratutto quando sono più deboli, sofferenti ed ammalati.

Personalmente cosa sente di aver ricevuto “gratuitamente” dal Signore?

Tutto e di aver restituito ai fratelli solo una piccolissima e minima parte di quei talenti che mi sono stati affidati.

Daniela Raspollini




«É vita, è futuro!» Il messaggio CEI per la Giornata per la vita

Riscoprire il valore e la bellezza della vita dal concepimento alla vecchiaia.

Il messaggio dei Vescovi italiani (CEI) per la 41ᵃ Giornata Nazionale per la Vita (3 febbraio 2019) vuole essere un messaggio di speranza, un incoraggiamento a costruire un futuro positivo, sostenendo la vita in tutte le sue declinazioni.
Con lo slogan «É vita, è futuro», i vescovi italiani hanno ribadito che la vita va difesa e tutelata dal primo istante fino al suo termine naturale, e soltanto un programma a tutto campo per «accogliere, custodire e promuovere» la vita umana può garantire un avvenire migliore per tutti.
La sfida si gioca nel presente, nelle scelte e nelle azioni dell’oggi, che avranno conseguenze negli anni che verranno. Per questo i vescovi hanno individuato alcuni ambiti prioritari, in cui l’impegno dei cristiani e della società civile deve essere particolarmente incisivo. Innanzitutto nella cura della famiglia in quanto culla della vita e degli anziani, per ritrovare -come ha detto Papa Francesco- una solidale «alleanza tra le generazioni», quindi nella cura dei giovani, affinché la mentalità antinatalista e la mancanza di lavoro siano contrastati da un «patto per la natalità» condiviso dalle forze culturali e politiche, infine nella cura di ogni persona in situazione di fragilità: dai bambini nel grembo materno, ai malati, ai poveri, fino ai migranti e ai profughi, senza dimenticare il necessario rispetto della “casa comune” che il Signore ha creato per tutti.

Se guardiamo la realtà italiana vediamo che ci sono luci ed ombre. Dal recente rapporto del Ministero della Salute sulla legge 194/78 emerge il fatto positivo che dal 1983 l’aborto volontario è in progressiva diminuzione in Italia e il tasso di abortività è fra i più bassi tra quelli dei paesi occidentali e che l’obiezione di coscienza tra i ginecologi è pari al 68.4%.
Tuttavia si tratta di un apparente bilancio ottimistico, infatti, ad una analisi più attenta, dall’esponenziale aumento della cosiddetta «contraccezione d’emergenza» (Norlevo o pillola del giorno dopo ed ellaOne o pillola dei 5 giorni dopo), che non ha più l’obbligo di prescrizione medica per le maggiorenni, si deduce che gli aborti farmacologici sono sempre di più e restano esclusi dal computo dei dati reali ed ufficiali.

Resta il fatto che, in base al numero degli aborti effettivi, ogni anno un’intera città scompare: nel 2017 una città di oltre 80 mila abitanti! Senza contare gli aborti chimici. Con la conseguenza che il calo demografico è sempre più marcato e mancano intere generazioni di giovani.

Un altro fronte preoccupante è costituito dal fine vita, dalle persone con gravissime disabilità e dai malati terminali. Aspettiamo la relazione sulla legge delle cosiddette DAT (o testamento biologico) che il Ministero della Salute deve presentare entro aprile al Parlamento.
La grave crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione, uniti alla disgregazione delle famiglie, produrrà negli anni a venire un vulnus sociale difficilmente recuperabile in tempi brevi.
Anche Papa Francesco, nell’intervista rilasciata ai giornalisti in aereo di ritorno dalla GMG di Panama, ha espresso in modo chiaro la situazione attuale, dicendo:

«qui a Panama vedevo i genitori che alzavano i loro bambini e ti dicevano: questa è la mia vittoria, questo è il mio orgoglio, questo è il mio futuro. Nell’inverno demografico che noi stiamo vivendo in Europa – e in Italia sottozero – ci deve far pensare. Qual è il mio orgoglio? Il turismo, le vacanze, la villa, il cagnolino? O il figlio?».

Occorre invertire la rotta. La Chiesa, da questo punto di vista, può dare un grande contributo alla società italiana, formando alla verità del Vangelo. Educando le coscienze può incidere sulle scelte di vita delle persone e soprattutto dei giovani, per andare controcorrente e non conformarsi alla mentalità del mondo.
Riscoprire la bellezza e la gioia della proposta di vita cristiana conduce in modo naturale, senza obblighi legalistici, ma per attrattiva, a uno stile di vita nuovo, inconcepibile allo sguardo mondano.
Testimoniare che è bello vivere come Gesù ci comanda, anche se siamo fragili e inadeguati, perché con la preghiera ed i sacramenti si può tutto.

La grazia di Dio aiuta i bambini a crescere sereni, i fidanzati ad essere casti, gli sposi ad aprirsi alla vita senza mettere a rischio il proprio matrimonio con la contraccezione, gli anziani a superare la solitudine e il senso di inutilità, i malati e i disabili ad amare la vita e a sentirsi i privilegiati del Signore.

Ripartire da Dio, dall’invito di San Benedetto di «non anteporre nulla all’amore di Cristo», è l’unico vero e vincente programma per un presente ed un futuro migliori.

Ufficio per la Pastorale con la famiglia




Don Primo Mazzolari: un parroco che parla al mondo intero

A Parigi un convegno internazionale promosso dalla Santa Sede sul parroco di Bozzolo. Tra i relatori Mariangela Maraviglia

Sotto il patrocinio dell’UNESCO e in collaborazione con la Fondazione “Don Primo Mazzolari”, la Missione Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO e la Diocesi di Cremona hanno organizzato il 29 novembre 2018 un convegno internazionale sulla figura di don Primo Mazzolari, parroco novecentesco del paese di Bozzolo, che alla diocesi di Cremona fa parte.

L’incontro, dal titolo Il messaggio e l’azione di pace di don Primo Mazzolari (1890-1959), si è svolto a Parigi presso la sede Unesco e ha visto la partecipazione del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, di monsignor Antonio Napolioni, Vescovo di Cremona, di don Bruno Bignami, presidente della Fondazione “Don Primo Mazzolari”, di Guy Coq, presidente onorario dell’associazione “Amis d’Emmanuel Mounier”. Tra i relatori, anche la nostra collaboratrice Mariangela Maraviglia, membro del comitato scientifico della Fondazione “Don Primo Mazzolari” e autrice di diversi studi – monografie, articoli, curatele di volumi – dedicati al parroco cremonese. «Riflettere su come il pensiero e l’azione di questo sacerdote può aiutarci tutti a vivere il nostro tempo con coraggio e aiutare a costruire ciò che Papa Francesco chiama la civiltà dell’amore» è stato l’obiettivo del congresso nelle parole del card. Pietro Parolin.

Il cardinale – dopo l’introduzione di mons. Francesco Follo, Osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO, che ha portato tra l’altro il saluto di Papa Francesco, e dopo l’intervento del vescovo di Cremona – ha ripercorso la vita di questo sacerdote che, avendo «affrontato il dramma della guerra» prima come soldato semplice poi come cappellano militare, ha maturato «convinzioni che lo condurranno a diventare un costruttore di pace del XX secolo». È la «dura realtà della guerra» che «lo aiuta a comprendere che tra il Vangelo e la violenza la distanza è abissale». Dagli anni dei regimi totalitari in cui Mazzolari «ha avuto il coraggio di opporsi con forza a tutte le forme di ingiustizia e razzismo», al sostegno alla Resistenza «come esercizio di una coscienza che voleva preservare l’umanità dall’incubo della violenza»; dalle indicazioni nel periodo della seconda guerra mondiale sul discernimento del «bene e vero» in una «realtà che non è mai limpida», all’impegno per l’educazione della coscienza («il mito del dovere come esattamente opposto al primato della coscienza morale») o la convinzione della necessità di una istituzione sovranazionale come garante di pace: questi alcuni passaggi della vita e dell’azione di don Primo messi in luce dal Segretario di Stato vaticano.

A Mariangela Maraviglia era assegnato il tema La parola ai poveri da don Primo Mazzolari a Papa Francesco. «Nella Chiesa che dà la parola ai poveri disegnata oggi da Papa Francesco, si ritrova l’eco delle speranze che ancora comunicano la vita e l’opera di don Mazzolari», ha affermato la storica. Maraviglia ha segnalato l’attualità della figura del parroco lombardo, rimarcata più volte dallo stesso Bergoglio nei suoi interventi dedicati al prete italiano, a partire da quello letto nel corso della visita da lui resa alla sua tomba il 20 giugno del 2017. Don Primo è stato un «sacerdote coraggioso» che «fin dagli anni Trenta del Novecento faceva dell’attenzione ai poveri che apre all’esercizio della misericordia un cardine imprescindibile della vita cristiana», ha ricordato Maraviglia, sottolineando come tale attenzione segni particolamente l’attuale pontificato e stabilisca «indubbie e a prima vista singolari sintonie tra due esperienze storicamente e geograficamente distanti».

Ha quindi proposto alcuni «elementi e motivi di tale consonanza» ripercorrendo brevemente la vicenda di Mazzolari, le fonti del suo pensiero, la condivisione con personaggi e ambienti della storia dei suoi anni. Bibbia, Vangelo, Padri della Chiesa, Francesco d’Assisi, furono i fondamenti su cui si innestò la lettura dei francesi Charles Péguy, Georges Bernanos, Jacques Maritain, Emmanuel Mounier, e degli italiani che avvertiva vicini, per primo il sindaco di Firenze Giorgio La Pira con la sua Attesa della povera gente. Ispirazioni che non furono raccolte solo nella sperduta parrocchia di Bozzolo, ma anche da varie personalità con cui Mazzolari fu in contatto e spesso in amicizia: don Lorenzo Milani e la sua passione educativa che si faceva scuola di emancipazione per gli ultimi; don Zeno Saltini e la sua Nomadelfia, città della fraternità e dell’accoglienza di bambini abbandonati, figure, queste, entrambe valorizzate dalle recenti visite di papa Francesco nei luoghi della loro presenza; i più giovani religiosi David Maria Turoldo ed Ernesto Balducci, spesi in opere di carità e nella predicazione sui temi della giustizia e della pace; don Arturo Paoli che, allontanato forzosamente dall’Italia nel 1954, scriveva a don Primo della necessità di «essere come i poveri»; Giuseppe Dossetti, che avrebbe ispirato il discorso sui poveri e sulla povertà della Chiesa pronunciato dal cardinale Giacomo Lercaro al Concilio Vaticano II. Un discorso raccolto in particolare dall’episcopato della Chiesa latinoamericana, che fece della «opzione preferenziale per i poveri» la cifra del suo rinnovamento.

Papa Francesco, ha sottolineato Maraviglia, «conferendo nuova centralità a una Chiesa che sia sempre più “Chiesa povera e per i poveri”, fa propria oggi una richiesta e un impegno che sorgeva dalle voci più sensibili del cristianesimo del secolo scorso, e tra queste la voce viva e partecipe di don Mazzolari». E ha concluso: «Dare la parola ai poveri è compito acquisito per la Chiesa contemporanea. Ne detta l’esigente revisione interna alla luce della radicalità evangelica; la pone come uno dei pochi baluardi, forse l’ultimo baluardo rimasto a contrastare il dominio di poteri onnivori e disumani. È una sfida non meno ardua di quanto si mostrò nel Novecento vissuto da Mazzolari».




Un “piano Marshall” per i cristiani d’Iraq

Intervista ad Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla chiesa che soffre – Italia.
Tra il 23 e 25 novembre sarà in diocesi un sacerdote iracheno per sensibilizzare i fedeli sulla situazione dei cristiani in medio oriente.

Sarà prossimamente a Pistoia, tra il 23 e il 25 novembre un sacerdote iracheno della piana di Ninive, tristemente famosa per i massacri e le distruzioni operate contro i cristiani dallo Stato Islamico. La sua presenza è coordinata da ACS (Aiuto alla Chiesa che soffre). Aiuto alla Chiesa che Soffre è una fondazione di diritto pontificio nata nel 1947 per sostenere la Chiesa in tutto il mondo, con particolare attenzione laddove è perseguitata. Abbiamo rivolto alcune domande ad Alessandro Monteduro, presidente ACS-Italia per conoscere meglio la situazione dei cristiani in Iraq e l’impegno di ACS.

Come si presenta la situazione dopo la distruzione dei villaggi cristiani di Ninive da parte dell’Isis?

La ricostruzione nella Piana di Ninive continua, e prosegue anche il “Piano Marshall” di Aiuto alla Chiesa che Soffre per sostenere i cristiani d’Iraq. Dall’8 maggio 2017, giorno dell’apertura dei primi cantieri nei villaggi di Bartella, Karamless e Qaraqosh, i risultati raggiunti sono straordinari. Secondo l’ultimo aggiornamento del 6 novembre scorso, i cristiani rientrati nell’intera Piana di Ninive sono 41.057. Le abitazioni private distrutte o danneggiate dai jihadisti in due anni sono state 14.035; le proprietà finora riparate sono state 5.746. A coordinare i lavori è il Comitato per la Ricostruzione di Ninive, istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese d’Iraq, caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa, con la collaborazione di ACS. Dall’inizio dell’avanzata dell’ISIS nel giugno 2014, ACS ha sostenuto progetti emergenziali e umanitari in Iraq per un totale di quasi 40 milioni di euro. Ciò fa della Fondazione la prima organizzazione nella Piana di Ninive per entità di aiuti.

ACS offre un aiuto importante e concreto alla popolazione di quelle terre nella ricostruzione, ma resta anche il problema della sofferenza spirituale che ha lasciato la violenza dell’ISIS. La gente come affronta questa difficoltà?

La mission di ACS non è solo umanitaria, al contrario è squisitamente pastorale. Ogni nostro progetto ha lo scopo ultimo di agevolare l’evangelizzazione in territori in cui la persecuzione crea ostacoli apparentemente insormontabili. Da parte loro i cristiani di queste nazioni reagiscono con fortezza e fede. Ho visto molte croci sui containers nei quali erano ospitate le famiglie sfollate. Il loro esempio deve insegnare molto ad un’Europa che ha largamente abbandonato le proprie radici cristiane.

Papa Francesco esorta a favorire la permanenza di famiglie nella loro terra d’origine. Che speranza c’è a riguardo?

Il Papa come sempre è lungimirante. I corridoi umanitari, infatti, non rappresentano un’autentica soluzione. Sappiamo dai diretti interessati che i cristiani perseguitati non vogliono emigrare, al contrario vogliono restare in patria. Per questo motivo, gli unici corridoi umanitari che reputiamo necessari sono quelli “di ritorno”. ACS ha coerentemente avviato la ricostruzione di abitazioni e luoghi di culto anche in Siria. Dal 2011 all’agosto 2018 la Fondazione ha finanziato progetti a favore delle comunità cristiane siriane per un totale di 27.428.485 euro.

Quale sarà il futuro del cristianesimo in quelle terre?

Lo sa solo la Provvidenza. Certamente noi abbiamo il dovere di fare quanto è in nostro potere. Anzitutto è necessario pregare per le Cristianità di queste nazioni, in secondo luogo è opportuno continuare a diffondere informazione di qualità per sensibilizzare adeguatamente l’opinione pubblica, in terzo luogo è particolarmente utile sostenere, sulla base della personale disponibilità finanziaria, i progetti di aiuto ai fratelli sofferenti.

Ad oggi quali sono le opere concretamente realizzate da ACS?

Mi limito ai dati definitivi del 2017. Per quanto riguarda le aree di intervento, si confermano al primo posto i progetti di costruzione e ricostruzione (32,8% degli aiuti), con ben 1.212 tra cappelle, chiese, conventi, seminari e centri pastorali edificati o restaurati. Seguono gli aiuti umanitari e di emergenza (15,7%), una parte dell’impegno ACS che si amplia di anno in anno, e le intenzioni di Sante Messe (15,4%). Nel 2017 hanno beneficiato di questo particolare sostegno, fondamentale in aree povere in cui i sacerdoti non possono contare su nessun altra forma di sussistenza, 40.383 sacerdoti e religiosi, uno ogni 10 nel mondo, i quali hanno celebrato 1.504.105 Sante Messe secondo le intenzioni dei benefattori di ACS, ovvero una Santa Messa ogni 21 secondi. Importante anche il supporto alla formazione dei seminaristi: sono stati 13.643 quelli aiutati nel 2017, e quindi uno ogni 9 nel mondo. ACS ha inoltre provveduto al sostentamento di 12.801 religiose, ovvero una ogni 52 nel mondo, con un incremento di oltre il 15% rispetto al 2016.

Altri ambiti di interventi riguardano la traduzione e la pubblicazione di testi religiosi e l’apostolato mediatico, ovvero il sostegno a mezzi di comunicazione quali radio e tv cristiane, i corsi di formazione per laici, e l’acquisto di mezzi di trasporto per agevolare la pastorale di missionari e missionarie. Sono stati 1.120 i mezzi di trasporto donati nel 2017: 424 automobili, 257 motociclette, 429 biciclette, 4 camion, 3 pullman e 3 barche.

In questo quadro è stato estremamente rilevante il sostegno dei benefattori italiani. Nel 2017 ACS-Italia ha visto un incremento di circa il 9% della raccolta, che ha raggiunto quota 3.679.035 euro.  Un altro dato significativo è il rilevante aumento del numero dei benefattori italiani, dai 10.949 del 2016 ai 13.012 dello scorso anno. Molti dei progetti concretizzatisi grazie al contributo italiano sono stati realizzati in Iraq e in Siria. Tra le offerte a beneficio dei cristiani siriani ricordiamo in particolare la campagna di Natale 2017, per un totale di oltre 250.000 euro, e il progetto Goccia di latte, che con una raccolta di oltre 207.000 euro ha permesso di donare latte in polvere a tanti bambini cristiani di Aleppo.

Avete promosso un progetto di ricostruzione molto importante; si tratta di un’operazione eccezionale per i Cristiani in Iraq, ce ne può parlare?

Si tratta del più volte citato “Piano Marshall”, che noi abbiamo chiamato “Ritorno alle radici”. Dopo la sconfitta militare dell’ISIS i cristiani d’Iraq hanno espresso il desiderio di fare ritorno ai loro villaggi nella Piana di Ninive, ormai liberati. Senza un aiuto esterno, tuttavia, non sarebbero stati in grado di riparare le loro case, né le infrastrutture pubbliche. Il costo della ricostruzione delle sole abitazioni private è stato infatti stimato in 250 milioni di dollari; inoltre, nel mutevole quadro politico della Piana di Ninive, hanno avuto difficoltà a far valere il loro diritto al ritorno. Per scongiurare il rischio della scomparsa del Cristianesimo in Iraq, e riconoscendo il diritto al ritorno di ogni persona che si trova nella condizione di sfollato, le tre Chiese cristiane presenti nella Piana di Ninive (caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa) hanno istituito, con il sostegno di Aiuto alla Chiesa che Soffre, il Comitato per la Ricostruzione di Ninive (Nineveh Reconstruction Committee – NRC) in modo da: promuovere e finanziare il ritorno dei cristiani ai rispettivi villaggi; pianificare e monitorare la riedificazione e rendere conto dell’utilizzo dei fondi ricevuti; informare l’opinione pubblica sullo stato di avanzamento del ritorno dei cristiani in Iraq; invitare tutti i governi e la comunità internazionale a intraprendere le necessarie azioni politiche al fine di assicurare a tali cristiani il rispetto del diritto a far ritorno alle proprie case.

ACS, impegnando parte della generosità dei propri benefattori, ha finanziato la ristrutturazione delle case mentre continuava ad offrire cibo e alloggio agli sfollati cristiani della Piana ancora in attesa di rientrare nei propri villaggi. Ho già fatto cenno alla situazione attuale con i dati aggiornati. Si tratta di un “cantiere aperto”, che testimonia la straordinaria generosità dei cattolici, anche dei fedeli italiani, i quali, al contrario da tanti stereotipi, sono concretamente solidali con i loro fratelli sofferenti in ogni parte del mondo.

Daniela Raspollini




Bassetti a Pistoia nel ricordo di La Pira

Il presidenti CEI ha ricevuto a Pistoia il premio internazionale per la pace

«Il pane e la grazia»: due parole che dicono in sintesi chi era La Pira, che «con il pane intendeva scuola, casa, lavoro e poi “grazia” con cui indicava la dimensione soprannaturale»; questo era il suo «umanesimo cristiano». Il card. Bassetti, domenica 4 novembre nella Cattedrale di San Zeno a Pistoia, ha tratteggiato così la figura del servo di Dio Giorgio La Pira, il sindaco santo, in occasione della celebrazione del premio internazionale per la pace a lui dedicato e organizzato dal Centro Studi Donati. Dal 1972, infatti, il Centro Studi “G. Donati”, realizza a Pistoia importanti iniziative culturali di sensibilizzazione e promozione della pace, portando nella città toscana personalità di primo piano del mondo civile ed ecclesiale. Quest’anno ha conferito il premio al Cardinale Bassetti come riconoscimento del suo impegno in campo sociale, in particolare verso «le famiglie in difficoltà economiche, emarginati e migranti» come per il «contributo diretto ed incisivo alla costruzione di una cultura della solidarietà e dell’accoglienza come antidoto ad odi e razzismi». Il premio conferito a Bassetti, ha sottolineato il vescovo di Pistoia mons. Fausto Tardelli, «è un riconoscimento per tutta la chiesa italiana che, senza far troppo rumore, con un lavoro quotidiano e attento è impegnata a costruire un mondo di giustizia e fraternità».

Al termine della premiazione Bassetti ha presieduto la santa messa in Cattedrale, concelebrata dal vescovo e da alcuni sacerdoti della diocesi di Pistoia. Il cardinale ha ricordato Giorgio La Pira anche nella sua omelia, dove, riprendendo il brano evangelico, annotava come il sindaco santo avesse compreso bene che non esiste alcuna contrapposizione tra l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. «Due amori che si identificano», dove il «prossimo è un altro te stesso». Chiunque incontrasse, credente o non credente, La Pira lo considerava «un membro del corpo di Cristo». Forte della propria formazione tomista vedeva «alcuni già inseriti nella grazia, altri in potenza, ma tutti ordinati alla salvezza di Dio». Bassetti ha poi ricordato un episodio legato alla sua memoria viva del sindaco santo. Quando, giovane seminarista, partecipava alla ‘messa dei poveri’ alla chiesa della Badia, accorrevano lì tutti i poveri di Firenze, «con i loro cappottoni lunghi» e «il berretto un mano». Quando si sistemavano sulle panche in chiesa al caldo molti si addormentavano; allora gli zelanti andavano a riscuoterli per svegliarli: c’è il professore che parla… «Ma la Pira li fermava dicendo: “lasciateli stare, perché hanno trovato un momento di quiete nella loro vita e loro stanno il contemplando il volto di Dio. Questa era la concezione che La Pira aveva dell’uomo. E allora aveva capito che in fondo questo vangelo -amare Dio e amare il prossimo con tutto se stesso- è il compimento di tutta la vita umana».

Accanto al Card. Bassetti, sono stati premiati fra’ Mauro Gambetti, rettore del sacro convento di Assisi per il suo impegno nella costruzione di un convivenza fraterna fra popoli e religioni diverse. Accogliendo il premio Padre Gambetti ha preannunciato che il prossimo anno sarà proprio la Conferenza Episcopale Toscana a farsi pellegrina ad Assisi per portare olio alla lampada della tomba di Francesco e pregare per la pace.
Altri premi sono stati consegnati a Sigfrido Ranucci, giornalista RAI conduttore di Report, e Aurelio Amendola, fotografo pistoiese noto in tutto il mondo per aver ritratto artisti e opere d’arte di assoluto rilievo come le sculture di Donatello o Michelangelo. Un riconoscimento speciale è stato assegnato a Nadia Vettori, missionaria laica della diocesi di Pistoia, che ha trascorso oltre quarant’anni a Manaus in Amazzonia, quindi a Balsas nello stato del Maranhao.

La premiazione di quest’anno è stata preceduta da un piccola “marcia” per la pace intitolata Peacetoia, organizzata dal Centro Donati insieme ad altri enti socio assistenziali, associazioni presenti sul territorio pistoiese e gli scout AGESCI e CNGEI. Un’iniziativa festosa e colorata, che ha portato numerosi giovani, in un clima di musica e festa, per le vie del Centro Storico fino alla Cattedrale di Pistoia. Davanti al Battistero è stato poi collocato un olivo a cui sono stati appesi pensieri di pace e fraternità composti dai giovani partecipanti alla marcia, mentre sul campanile della Cattedrale è stata appesa una grande bandiera della pace. «I popoli vogliono la pace» ha ricordato al termine dall’iniziativa il vescovo Tardelli; «la guerra la vogliono solamente i potenti che vogliono fare il loro interesse».

Ugo Feraci




Il Cardinale Bassetti a Pistoia per il Premio La Pira

Il 4 novembre sarà celebrata la XXXVI Giornata Internazionale della pace, cultura e solidarietà, il tradizionale appuntamento promosso dal Centro studi G. Donati che vedrà come ogni anno, la consegna di premi ad importanti personalità nazionali e internazionali.

Un appuntamento orfano, quest’anno, di Giancarlo Niccolai, compianto promotore di questo appuntamento e figura di primo piano della politica e della cultura locale.

La trentaseiesima giornata della pace, cultura e solidarietà ha come tema «insieme per un cammino di pace» e quest’anno si articolerà in tre diversi appuntamenti che si svolgeranno nei giorni 3-4-5 novembre 2018.

Il 3 novembre nella sala conferenze della Fondazione Caript alle ore 10 si terrà la premiazione dei vincitori del premio letterario “Giorgio la Pira” che consegnerà un riconoscimento speciale al “Diario di Ferri Giuseppe” (Campagna di Russia 1944).

il 4 novembre la celebrazione del Premio per la Pace sarà invece preceduta da una Marcia della Pace.  Il Centro stesso ha voluto promuovere l’evento ispirandosi al titolo della giornata per fare insieme “un cammino di pace”. L’iniziativa è promossa dal Centro Studi “G. Donati” e coorganizzata da scout dell’AGESCI, scout laici del CNGEI, CEIS, Culturidea, Ente Camposampiero. La marcia inizierà alle ore 15 da Piazza San Francesco per poi arrivare in Piazza Duomo, procedendo in modo festoso accompagnata dalla musica e da un “bandierone delle bandiere” che raccoglierà le diverse realtà intervenute. La conclusione della marcia è prevista per le 16.30, quando nella Cattedrale di San Zeno avrà inizio la cerimonia di consegna dei premi della pace, cultura e solidarietà 2018.

Quest’anno il Centro Studi “G. Donati” consegnerà il premio intitolato a Giorgio La Pira alle seguenti personalità: S. Em. Card. Gualtiero Bassetti (presidente C.E.I), Fra Mauro Gambetti (Custode del Sacro Convento di San Francesco di Assisi), Sigfrido Ranucci (giornalista d’inchiesta – conduttore del programma RAI “Report”), Aurelio Amendola (fotografo pistoiese di fama internazionale). Nell’ambito della cerimonia sarà consegnato un riconoscimento alla Sig.ra Nadia Vettori, infermiera e missionaria laica che ha trascorso oltre 40 anni di missione in Brasile.

Al termine, alle ore 18, verrà concelebrata la Santa Messa presieduta dal Cardinale Bassetti.

Daniela Raspollini




Fondazione Sant’Atto: Open day per il progetto di agricoltura sociale

Sabato 13 ottobre dalle ore 9,00 alle 13,00 presso l’Antico Monastero di Monteoliveto  (Via E. Bindi, 16 Pistoia) – avrà luogo la presentazione delle attività di agricoltura sociale condotte dalle Associazioni CEIS, Camposampiero e Il Delfino nell’ambito del progetto “Ripartiamo dalla Nostra Terra” coordinato dalla Fondazione S. Atto e finanziato dalla Fondazione Caript.

Il progetto di agricoltura sociale nasce dal desiderio di unire le forze, coordinati dalla Fondazione Sant’Atto, per creare una nuova rete di legami. Diverse realtà hanno infatti voluto sfidare l’autoreferenzialità che spesso abita i nostri territori, ad esempio il “CEIS Pistoia“, che opera da anni nel settore delle dipendenze ed ex-dipendenze, l’associazione “Il Delfino“, impegnata al fianco dei detenuti ed ex-detenuti in cerca di una via nuova  e l’Ente Camposampiero, con un bagaglio di esperienza pluridecennale nell’ambito di progetti educativi per i giovani.

La riflessione comune ha portato a individuare come uno dei possibili percorsi quello legato alle attività green, con particolare riferimento al settore agricolo, utilizzando anche terreni abbandonati, sia di pertinenza della Curia pistoiese, che di privati sensibili alle tematiche sociali e disposti a mettere in comune tali risorse inutilizzate.

Sono state utilizzate e messe in comune anche le risorse disponibili in uso alle associazioni coinvolte sia in termini di terreni che di attrezzatura e personale. Il progetto nasce “incubato” nel progetto Policoro, che ne ha delineato gli obiettivi fondamentali e tracciato il profilo di utenza.

Il progetto è stato attivato grazie al prezioso sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, da sempre in prima linea nel contrasto alle marginalità.

Nel progetto sono confluite circa 40 persone in grave difficoltà che hanno concimato, seminato, piantato e trapiantato, ortaggi e piante da frutto. I loro prodotti saranno presentati in un mercatino sociale aperto dalle 9.00 alle 13.00 resso l’Antico Monastero di Monteoliveto.

(redazione)




Disposizione del vescovo: pregare il rosario per la Chiesa

Disposizione del vescovo di Pistoia

Rispondendo all’appello del Santo Padre Francesco chiedo alle parrocchie e comunità cristiane della diocesi come pure ai singoli fedeli, che ogni giorno, durante tutto il mese mariano di ottobre si reciti a gruppi o singolarmente il Santo Rosario con l’intenzione data dallo stesso Papa: “chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi.”

Al termine del Santo rosario, recitato in gruppo o singolarmente, sempre su suggerimento di Papa Francesco, si aggiungano le preghiere “Sub tuum praesidium” rivolta alla Vergine Santa e “Sancte Michael Archangele” rivolta a San Michele.

Sub tuum praesidium

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta.

Sancte Michael Archangele

San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen.

Pistoia, 29 settembre 2018

+Fausto Tardelli




Don Pino Puglisi e i giovani

In occasione della visita di Papa Francesco a Palermo rendiamo disponibile on-line l’articolo dedicato a don Pino Puglisi uscito sul numero 21 del settimanale “La Vita” (3 giugno 2018).

A 25 anni dal suo martirio l’eredità del Beato Puglisi continua a portare frutto tra le giovani generazioni

Il prossimo 15 settembre, 25° anniversario dell’assassinio di Padre Pino Puglisi Papa Francesco si recherà in viaggio a Palermo, dove visiterà i luoghi “simbolo” di padre Pino nel quartiere Brancaccio. Vogliamo riproporre la figura di don Pino attraverso le parole del dott. Domenico De Lisi. Domenico è stato vicino a don Puglisi fino alla sua morte, ed è assistente sociale al Centro Padre Nostro, nato nel 1991 nel quartiere Brancaccio di Palermo per volontà dello stesso sacerdote.

 

Padre Pino è stato un educatore instancabile. Come vive l’eredità di don Pino nel Centro Padre Nostro?

Oggi manteniamo la sua intensa spiritualità e il suo alto profilo educativo, ma anche la sua concretezza. Padre Pino era un uomo del fare. Eppure la sua era un’azione prevalentemente pastorale. L’apertura del Centro Padre Nostro non era indirizzata soltanto a finalità assistenziali, ma rivolta a promuovere la dignità dell’uomo, la sua identità cristiana e poi, certamente, anche a formare una coscienza civile.

Cosa ci puoi raccontare della sua opera di evangelizzazione dei giovani, svolta in un territorio segnato da tanta violenza tra famiglie malavitose?

A Brancaccio padre Pino ha concepito il proprio ministero in un senso più missionario, rivolto all’integrazione sul territorio; fece uso delle scienze sociali per la lettura del quartiere e si fece aiutare da ‘assistenti sociali missionari’. Il primo anno a Brancaccio volle conoscere quello di cui aveva bisogno la gente, lasciando emergere i bisogni reali. Si accorse che mancavano spazi di aggregazioni e formazione, così cominciò a realizzare un centro anziani, una scuola, un asilo, un centro sportivo… molte altre cose poi si sono concretizzate nel tempo. Quest’anno ad esempio, inizieremo a realizzare un asilo nido, proprio nel cuore di Brancaccio. L’analisi di don Puglisi richiedeva degli interventi mirati che alla lunga hanno fatto fiorire un quartiere molto degradato. Da un punto di vista concreto, ma anche di formazione delle coscienze si è indubbiamente dato molto da fare.

Oggi al Centro Padre Nostro facciamo svolgere lavori utili come pena sostitutiva al carcere, inoltre in questi anni si è costituita una rete con le scuole per parlare di legalità, passando per la testimonianza diretta. Tante attività sono oggi possibili grazie al sacrificio di don Pino.

Eppure all’inizio del suo ministero a Brancaccio padre Pino non riuscì a fare breccia sulla sua comunità, che si presentava come una realtà molto chiusa, abituata a una semplice pratica sacramentale. Don Pino fece questo, ma anche altro. Uscì fuori, incontro alla gente, non era un uomo “contro” qualcuno, ma un uomo “per”, per l’uomo per la sua dignità. Per questo non volle mai scendere a compromessi, pur cercando un dialogo con chi era mafioso. Ai malavitosi domandava: «perché ce l’avete con noi? Perché ve la prendete con chi vuole migliorare le vite e il quartiere di tanta gente?».

Nella sua prossima visita papa Francesco visiterà alcuni luoghi legati a don Pino..

Nel 2014 abbiamo riaperto la sua casa, trasformandola in un luogo di testimonianza. Lì si vede la sua povertà: don Pino viveva con niente, ma era ricco dentro. La sua casa era piena di libri, libri sparsi ovunque. Questa casa museo è diventata importante per far emergere gli aspetti fondamentali di Puglisi. Era l’amico prete, che aveva sempre orecchio e spazio per ascoltarti. Amava lo studio e la conoscenza: è bello sfogliare i suoi libri e vedere quanto aveva sottolineato. E poi don Pino era il prete della preghiera, che era il suo pane quotidiano. La preghiera lo ha fatto restare saldo fino a quella sera del 1993. Quel «me lo aspettavo» con cui accolse i suoi assassini spiazzò il killer. Il suo sorriso fu “disarmante”, al punto che chi l’ha ucciso, diventato collaboratore di giustizia, ha aiutato a fare chiarezza sulla dinamica della sua morte.

Don Pino si occupò anche dei piccoli, offrendo loro la possibilità di giocare, studiare e sottraendoli al loro degrado sociale..

Quando venne a Brancaccio cominciò a organizzare molte attività rivolte ai minori e alle famiglie. Credeva molto nella figura dell’assistente sociale all’interno della comunità. Sapeva che da prete non poteva dare tutte le risposte alle esigenze della gente. Cominciò ad animare il territorio. Questo lo fece rendere sospetto agli occhi della mafia. La sua morte fu dovuta al boss Graviano perché ‘questo prete’, «rompeva le scatole, non ci lasciava in pace» proprio per la sua azione pedagogico educativa.

 A distanza di 25 anni dalla sua morte com’è cambiata la realtà giovanile di Brancaccio?

In questi anni abbiamo accompagnato molti di loro in un processo di crescita, molti li abbiamo portati a completare un percorso scolastico, altri sono maturati, anche grazie alle famiglie. Anche soltanto sapere che alcuni ammettono di avere problemi e si rivolgono a noi è un successo, significa un riconoscimento ma anche una maturazione. Al centro Padre nostro proponiamo gli elementi dell’accoglienza, del sacrificio, della solidarietà e i frutti si vedono.

In vista del prossimo Sinodo dei Giovani, quale messaggio ti sentiresti di far arrivare ai vescovi in base alla testimonianza di don Pino?

A me piacerebbe che tutti i giovani facessero le esperienze che ho fatto io. Io ho vissuto nella difficoltà, ma ho avuto degli adulti significativi. Perché possano esserci dei giovani motivati è fondamentale trovare un adulto significativo che si prende cura di te e ti fa crescere. Questo rapporto duale, che nella nostra comunità era molto presente, resta fondamentale. Nella Chiesa questa esperienza c’è, occorre sostenerla. Basterebbe dire questo: essere adulti significativi per i giovani di oggi.

 Daniela Raspollini




I vescovi italiani: «Migranti, dalla paura all’accoglienza»

Gli occhi sbarrati e lo sguardo vitreo di chi si vede sottratto in extremis all’abisso che ha inghiottito altre vite umane sono solo l’ultima immagine di una tragedia alla quale non ci è dato di assuefarci. Ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture. È la storia sofferta di uomini e donne e bambini che – mentre impedisce di chiudere frontiere e alzare barriere – ci chiede di osare la solidarietà, la giustizia e la pace. Come Pastori della Chiesa non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determinino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto. Animati dal Vangelo di Gesù Cristo continuiamo a prestare la nostra voce a chi ne è privo. Camminiamo con le nostre comunità cristiane, coinvolgendoci in un’accoglienza diffusa e capace di autentica fraternità. Guardiamo con gratitudine a quanti – accanto e insieme a noi – con la loro disponibilità sono segno di compassione, lungimiranza e coraggio, costruttori di una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare. Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata.

La Presidenza della CEI